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31 Gennaio 2016A una persona che abbia meno di cinquant’anni, probabilmente, non sarà mai capitato di vedere una acquasantiera in ceramica, come quelle che si appendevano al muro nelle camere da letto, se non, forse, sui banchi di qualche mercatino dell’antiquariato.
È uno dei tanti esempi di quella che si potrebbe definire, con riferimento all’archeologia industriale, !archeologia religiosa": l’insieme di quegli oggetti, e, naturalmente, di quei riti, di quelle funzioni, di quelle cerimonie, di quelle preghiere e forme devozionali, che contraddistinguevano la vita quotidiana dei nostri nonni e bisnonni e che, per secoli e secoli, hanno accompagnato la vita delle comunità, a partire da quella comunità di base che è la famiglia. Sono cose che non si usano più, come non si usano più i rametti di ulivo infilati sopra la testiera del letto, o il crocifisso, o la corona del Rosario appesa alla parete, o l’immagine della Madonna, sempre a capo del letto matrimoniale, o, ancora, la statuina di Maria o di sul comodino, oppure, nella camera dei bambini, il quadretto con l’Angelo custode o quello recante il testo del «Padre nostro».
Non si usa più recitare una preghiera quando ci si siede intorno alla tavola, anche perché le famiglie d’oggi ben raramente si riuniscono attorno alla tavola: ciascuno ha i suoi orari, ciascuno i suoi interessi, ognuno è geloso custode della propria autonomia; meno ancora i genitori usano dare ai figli la benedizione della sera, o recitare con loro la preghiera che chiude la giornata, prima di spegnere la luce e aver dato loro il bacio della buonanotte.
Un tempo era la famiglia a custodire gelosamente le tradizioni religiose e il senso del sacro, specialmente ad opera delle donne: erano queste ultime ad insegnare ai bambini, dandone l’esempio, quando e come pregare, come prepararsi alle grandi ricorrenze dell’anno liturgico, e anche quelle forme di pietà popolare, ingenue, forse, ma delicatissime (come l’atto di lasciare una scodella d’acqua sul tavolo della cucina, alla vigilia del giorno dei Morti, perché le anime del Purgatorio potessero spegnervi la loro sete), le quali, se pure non erano sempre perfettamente "ortodosse" quanto al versante teologico, certo non erano contrarie alla fede ed esprimevano, anzi, una nota fantasiosa e gentile, cui l’anima del fanciullo era sensibilissima.
Sarebbe un errore pensare che la vitalità del senso religioso si misuri solo osservando quanto avviene in chiesa, ad esempio quante persone si rechino alla messa domenicale, quante si comunichino, quante facciano battezzare o cresimare i loro figli: sappiamo benissimo che tali cose possono rispondere a una mera logica di consuetudine, di quieto vivere, di conformismo, e non ad una fede viva e sentita. La figura del sacerdote è certo importantissima, così come lo è la partecipazione alla vita parrocchiale; tuttavia, sede la prima società è la famiglia, allora la prima chiesa è la casa, ed è fra le pareti domestiche e nel comportamento quotidiano delle persone che vanno cercate le tracce del sentimento religioso cui la loro vita si ispira. Se tali tracce si attenuano e scompaiono, non c’è prete e non c’è messa che possano ridestarli, con tutto ciò che essi significano.
Ci piace, a questo proposito, riportare una pagina della bella e interessante ricerca storica condotta da Giancarlo Stival, intitolata «Dio, la sera e, forse, la morte», dedicata alle forme della religiosità popolare nella diocesi di Concordia-Pordenone — ma un discorso non troppo diverso si potrebbe fare per qualunque altra area del mondo cattolico, specialmente romanzo – attraverso il succedersi delle passate generazioni (in: «Religiosità popolare nel Friuli Occidentale», a cura di Paolo Goi, edito dalla Provincia di Pordenone e dalle Edizioni Biblioteca del’Immagine, 1992, pp. 66-70):
«Costante, nella ricerca compiuta, è la comparsa Della famiglia numerosa, a volte "numerosissima": la famiglia di un informatore era composta da centocinque persone, che in seguito avrebbero formato sei famiglie, non propriamente esigue.
In "nuclei" familiari di tale consistenza, anche la vita quotidiana doveva essere regolata minuziosamente, e la vita religiosa doveva avere i propri spazi ed orari.
Ricordi personali informano do come veniva organizzato il lavoro:un uomo rimaneva a casa per accudire alla stalla, la "vecchia" in casa per la cucina, una donna a casa per le faccende e per sorvegliare i bambini, gli altri uscivano a lavorare nei campi. In molte famiglie c’erano addirittura i "turni" per il pranzo e per la cena: a tavola gli uomini, contemporaneamente lungo la scala, o sotto il portico, i bambini e i ragazzi, servirti da una donna e sorvegliati da un’altra sovente armata di scopa, bastone o "vis-cia", bacchetta; alla fine, dopo gli uomini mangiavano anche le donne in cucina (questo in famiglie mezzadrili del Portogruarese).
La preghiera spesso era comune: in cucina (la "casa"), o attorno al focolare, (o, in seguito, "spolèr"), o in stalla c’era la recita del rosario, guidata dal capo famiglia, il quale dava il segnale del "Gloria", battendo con le nocche sulla tavola, o battendo sulla "banca" o sulla "tromba" del fieno, con la dalmina o lo zoccolo. Le altre preghiere, "quelle della sera" è probabile venissero recitate nelle camere da letto, anche se alcuni testi possono far pensare anche ad altri luoghi.
I ragazzi e i bambini più grandicelli dormivano in camere a loro riservate (spesso ricavate in una parte del granaio, divisa in qualche modo) osservando la divisione maschi femmine. I più piccoli invece dormivano con i genitori.
In ogni camera da letto esistevano le pilette per l’acqua benedetta, che veniva benedetta appunto perché fosse conservata nelle camere ed i fedeli se ne aspergessero.
Da parte della chiesa veniva esercitato anche un periodico controllo sulle stanze da letto, durante le benedizioni delle case che il parroco compiva in occasione della Pasqua (e nel passato anche all’Epifania). Ancora vent’anni or sono qualche parroco, durante la benedizione delle casse, passava, guardava, e benediceva ogni singola stanza. Le camere matrimoniali inoltre venivano benedette la vigilia del matrimonio (e tale benedizione era prevista dal "Rituale Romanum").
In queste circostanze il parroco aveva modo di controllare se erano rispettate le disposizioni ecclesiastiche sinodali. […]
Lo stesso Sinodo [quello del 1767 del vescovo Alvise Maria Gabrieli, 1761-1779] prescriveva poi l’uso della culla per i bambini di meno di un anno (per la precisione, l’uso del "repagulum", di una sbarra), per evitare che il bambino venisse accidentalmente soffocato dalla madre […].
Particolari attenzioni e preoccupazioni, in famiglie molto numerose, erano rivolte alla separazione delle camere dei maschi e delle femmine (cugini primi, secondi e… oltre): la situazione morale doveva lasciare alquanto a desiderare se sia il Sinodo del 1767, che quelli del 1885 e del 1936 riservavano al vescovo il peccato d’incesto in primo e secondo grado di consanguineità, affinità e "cognatio spiritualis".
Il parroco visitando le camere da letto, controllava se queste norme venivano rispettate, in caso contrario veniva negata la benedizione, e ciò era considerato un marchio particolarmente infamante.
Così pure il parroco vedeva se c’erano le pilette per l’acqua benedetta, e nelle camere matrimoniali un’immagine religiosa (molto spesso la "Sacra Famiglia", o una "Maternità"), e la candela della "Ceriola" e l’ulivo benedetto.
Quando, mutati i tempi, frantumate le famiglie numerose, venuti meno i motivi per un’ispezione, mutata la mentalità e — forse — riscoperta una dimensione diversa della benedizione delle case, venne a mancare quella specie di controllo, un po’ alla volta vennero a mancare anche gli oggetti, le pilette e spesso anche lì’immagine sacra. Mancando le pilette per l’acqua benedetta, veniva meno anche lo strumento per l’aspersione, e cadeva il testo da recitare durante il rito.»
Come si vede, se è vero che la Chiesa, da un lato, nella persona del parroco, esercitava una sorta di "sorveglianza" sulla ortodossia della vita religiosa domestica, dall’altro essa si faceva carico di una serie di norme, di precauzioni, di comportamenti che, oggi, sono demandati ad altre istituzioni, specie per quel che riguarda la salute e la sicurezza dei piccoli (si pensi soltanto a quella costante preoccupazione affinché i bambini piccoli, che dormono ancora nel letto dei genitori, non vengano inavvertitamente schiacciati dalla madre).
Si sarà notata anche la sopravvivenza, fino ad epoca quasi contemporanea, di consuetudini religiose antichissime, indice della tenacia e della forza di penetrazione di queste ultime, una volta che si siano insediata saldamente all’interno del tessuto familiare. Ci riesce difficile pensare che un simile complesso di riti e una simile disposizione d’animo siano stati privi di effetto per quel che riguarda la vita morale dei singoli individui, tanto più quando l’elemento religioso si unisce a quello familiare e lo rafforza: per esempio, come immaginare che un figlio potesse calpestare a cuor leggero la morale religiosa, sapendo di andare incontro alla maledizione paterna, oltre che alla riprovazione del sacerdote e alla esclusione dalla vita ecclesiale? È tanto azzardato ipotizzare che certi crudi fatti di cronaca nera, oggi talmente frequenti nella nostra società, da esser divenuti parte della "normalità", dovessero essere, invece, rarissimi, in un contesto sociale caratterizzato dalla forte presenza della vita religiosa fin dentro gli atti della vita quotidiana e domestica?
Si è passati da un orizzonte esistenziale focalizzato sulla vita etica, sul lavoro, sulla fede, sul timor di Dio, ad uno contrassegnato quasi esclusivamente dai bisogni, dai diritti, dalle pretese dell’io, davanti ai quali tutto ciò che vi fa resistenza deve essere tolto di mezzo. Sui è passati, in altre parole, da una concezione della vita eminentemente spirituale, in cui la nascita e la morte erano visti come "segni" della volontà di Dio, da accettare incondizionatamente, ad una concezione fondata sulla brutale affermazione dell’io, contro tutto e contro tutti. Si è eretto l’egoismo individuale a norma suprema del vivere: e poi ci si meraviglia se i frutti di questa operazione sono intrisi di lacrime e sangue…
La logica conclusione del nostro ragionamento non può essere che questa: se il senso religioso incomincia a tramontare negli atti della vita quotidiana, fra le pareti domestiche, è precisamente da lì che bisogna ripartire, se quel senso religioso si desidera ridestare. È dalla famiglia, dai genitori, dalle mamme, dai nonni, che bisogna ripartire, per accompagnare il bambino alla riscoperta del senso religioso. Dei genitori che utilizzano la domenica per visitare il centro commerciale e portano i figli con sé, dando loro l’esempio del consumismo più sfrenato, invece di accompagnarli a messa, costituiscono il perfetto esempio di quel che si deve continuare a fare, se si vuol seppellire per sempre il senso religioso nell’anima del bambino e preparare le condizioni, entro pochi anni, per l’instaurarsi di una società radicalmente secolarizzata, nella quale non sarà possibile nemmeno l’idea di un recupero dei valori spirituali.
Non è vero che il discorso religioso è troppo difficile per le capacità di comprensione di un bambino: quel che un bambino non afferra con il Logos razionale, lo intuisce per altra via, con sicurezza infallibile. E dunque non è vero che il bambino non deve essere "affaticato" con discorsi che sarebbero troppo grandi per lui, ad esempio sulla vita e sulla morte — per esempio, in occasione della morte di una persona cara; è vero, al contrario, che il bambino non soltanto ha le capacità, ma anche il vivo desiderio che gli si parli di tali cose, sente il bisogno di essere illuminato, guarda e osserva gli adulti cercando in essi delle guide, dei punti di riferimento.
Il problema è che, grazie all’affermarsi delle nuove teorie pedagogiche basate sull’educazione permissiva, oggi i genitori hanno paura di esercitare anche solo un minimo di autorità sui loro figli: si sentono in colpa se chiedono loro di eseguire un compito, si scusano se si vedono costretti a richiamarli all’ordine. Dei genitori che abbiano abdicato al loro ruolo educante non possiedono la credibilità necessaria per rappresentare dei modelli o dei punti di riferimento. È un vero peccato, perché il bambino ha bisogno di esempi coerenti e di una guida forte e amorevole.
La casa stessa, centro della religiosità domestica dei nostri nonni, non è più, come un tempo, un luogo dell’anima: si trasloca con la massima disinvoltura, perfino da un continente all’altro. Anche la casa, come tanti altri, è divenuta un non-luogo. Questa è la sfida della modernità. Ad essa si deve rispondere facendo riscoprire ai bambini l’importanza e la bellezza dell’unità familiare, del calore familiare, e la sacralità di tutto quanto in esso avviene: nell’amore e nel timore di Dio.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels