
Antropologicamente brutti
25 Gennaio 2016
La storia di Franco Maironi e Luisa insegna che non c’è vera giustizia, se manca la carità
27 Gennaio 2016Quando entrarono nella sala Porzio Festo, Agrippa II e Berenice, al prigioniero, Paolo di Tarso, venne data la parola perché si discolpasse dalle accuse. In realtà, qualche tempo prima, durante una udienza davanti a Festo, Paolo si era appellato a Cesare e il governatore, dopo essersi consultato con il consiglio, glielo aveva concesso: dunque, il suo destino era già segnato, quello di essere inviato, non appena possibile, a Roma, per venirvi esaminato da un tribunale imperiale, in quanto cittadino romano. Nondimeno, Festo era desideroso di sapere qualcosa di più su quello strano prigioniero, e, inoltre, desiderava forse offrire un interessante diversivo ai suoi importanti ospiti, con i quali intendeva stabilire, o rafforzare, rapporti amichevoli, in quella difficilissima provincia, la Giudea, di cui era stato nominato governatore e nella quale si era appena insediato, di ritorno da una visita ufficiale a Gerusalemme.
In effetti, Paolo languiva da ben due anni nelle prigioni romane di Cesarea Marittima, cioè dal 58 al 60 d. C., anche se, a partire da un certo punto, aveva goduto di una notevole libertà di movimento, ma sempre all’interno della fortezza romana. La "grana" a suo riguardo, Festo l’aveva ereditata, per così dire, dal suo predecessore, Felice, richiamato a Roma in seguito a macchinazioni politiche. Pur avendo già ascoltato Paolo e avendolo trovato innocente, Felice lo aveva ugualmente trattenuto prigioniero, un po’ per ingraziarsi i Giudei, un po’ perché sperava che Paolo stesso gli pagasse, sottobanco, un congruo riscatto. D’altra parte, gli zeloti avevano sguinzagliato decine di sicari per assassinare Paolo, se questi fosse stato trasferito fuori dalla prigione, tanto che il suo viaggio da Gerusalemme a Cesarea si era svolto di notte, con la scorta di alcune centinaia di soldati. Dopo aver ascoltato sia Paolo che i suoi accusatori del Sinedrio, venuti appositamente per chiederne la condanna a morte, come già avevano fatto con Gesù, Festo non si era lasciato influenzare dalla gazzarra e aveva intuito che doveva trattarsi di una questione schiettamente religiosa e non politica, la quale, pertanto, non avrebbe dovuto essere di competenza dell’autorità romana. Propose perciò a Paolo di lasciarsi ricondurre a Gerusalemme, per essere ascoltato in quella città dal Sinedrio stesso: mossa contraddittoria, perché equivaleva a consegnare il prigioniero nelle mani di chi lo voleva morto ad ogni costo, e fatta solo per uscire da una situazione imbarazzante, ma con le apparenze della legalità. Paolo aveva visto la trappola e si era appellato a Cesare, ponendosi così sotto la suprema autorità politica di Roma. Le cose stavano a questo punto quando giunsero in città il re Agrippa e sua sorella Berenice, ospiti di riguardo; e Festo, che aveva parlato ad Agrippa del suo prigioniero, gli aveva promesso, su sua richiesta, di farglielo vedere e ascoltare il giorno dopo, stavolta in forma semi-privata, e, comunque, senza la presenza degli accusatori.
Erode Agrippa II, figlio di Agrippa I, tetrarca della Calcide, alla morte del padre si trovava a Roma ed era ancora un bambino, per cui i Romani avevano affidato la Giudea a un procuratore; divenuto maggiorenne, ebbe a sua volta il piccolo regno di Calcide, alla morte dello zio Erode, nel 50; tre anni dopo l’aveva sostituito con alcuni territori finitimi, come la Batanea, l’Iturea, la Traconitide e l’Abilene, ed altri ancora, in seguito, per volontà di Nerone. Fedele amico dei Romani, nella cui lingua e civiltà era stato cresciuto, era, nondimeno, un esperto conoscitore delle questioni religiose giudaiche, sulle quali si era documentato per poter meglio governare il suo regno; da Claudio aveva avuto la facoltà di nominare i sommi sacerdoti di Gerusalemme, e se n’era avvalso per allontanare Anano (che aveva condotto una dura repressione dei primi giudeo-cristiani). Ora veniva insieme a sua sorella, Berenice, donna affascinante e chiacchierata, che viveva con lui in maniera palesemente incestuosa. Sposata a tredici anni con il mercante Tiberio Giulio Alessandro, quindi con lo zio di cinquanta, Erode di Calcide, al quale aveva dato due figli; rimasta vedova a venti, era tornata dal fratello, e subito erano riprese le voci scandalose sulla loro relazione. Per metterle a tenace, verso il 64 era andata sposa al re Polemone di Cilicia, ma, dopo qualche tempo di vita coniugale infelice, non aveva resistito oltre ed era tornata, ancora una volta, da Agrippa, riprendendo la convivenza "more uxorio". Più tardi avrebbe avuto una relazione con Tito, figlio di Vespasiano, finché quest’ultimo obbligò il figlio a disfarsi di lei (cfr. il nostro saggio: «Berenice: realtà storica di un personaggio letterario», pubblicato sulla rivista bimestrale «Alla Bottega», Milano, n. 3 del 1989, pp. 33-38, e ora ripubblicato su «Il Corriere delle Regioni»).
Hanno scritto Bruno Maggioni e Arcangelo Bagni, in «Atti degli Apostoli» (Vicenza, Edizioni Istituto San Gaetano, 1998, pp. 272-276):
«Il discorso tenuto da Paolo davanti al re Agrippa è particolarmente solenne, ampio e stilisticamente curato. È il suo ultimo grande discorso. Luca lo presenta, all’inizio, come una difesa personale dell’apostolo ("ti è accordata la parola per difenderti", 26, 1), ma in realtà è molo di più. Molto più di una difesa personale: è infatti tutto il cristianesimo che viene difeso davanti all’autorità. E non è solo una difesa, ma un annuncio missionario di ampio respiro. […]
Convertendo i pagani, Paolo non vuole costituire un nuovo popolo di Dio al posto dell’antico. Intende semplicemente aprire l’unico popolo di Dio su dimensioni universali. E se Paolo è stato processato dalle autorità politiche, è stato sostanzialmente un equivoco procedurale. Agrippa soggiunse a Festo: "Quest’uomo avrebbe potuti essere rilasciato, se non avesse fatto appello a Cesare" (26, 32). In ogni caso, l’innocenza politica di Paolo è stata ampiamente riconosciuta. Il governatore Festo non trova accuse precise per inviarlo a Roma: "Sul suo conto non ho nulla di preciso da scrivere all’imperatore. Perciò l’ho condotto di fronte a voi, e soprattutto di fronte a te, o re Agrippa, perché dopo questa interrogazione io abbia qualcosa da scrivere. Mi sembra infatti assurdo mandare un origini ero sena indicare anche le accuse fatte a suo carico" (25, 26-27). E alla fine del discorso, Agrippa, il governatore e Berenice parlottano fra loro: "Un uomo come questo non può far nulla che meriti la morte o le catene" (26, 31).
Insistendo sull’innocenza politica di Paolo, Luca intende dimostrare che il cristianesimo non tocca gli interessi politici dell’impero. L’accusa giudaica di fomentare disordini e di turbare l’ordine pubblico è falsa. I cristiani rispettano le leggi e l’ordine pubblico. Le liti fra giudei e cristiani riguardano questioni religiose, non politiche; l’autorità giudiziaria non ha competenze nel giudicarle […]
Paolo tiene il suo discorso davanti ad illustri personaggi: "Agrippa e Berenice vennero con gran pompa ed entrarono nella sala dell’udienza, accompagnati dai tribuni e dai cittadini più in vista. Per ordine di Festo fu fatto entrare anche Paolo" ( Atti, 25, 23). […]
Nella sostanza il discorso segue uno schema già noto […]. La prima parte insiste sull’attaccamento di Paolo al giudaismo più rigido e ortodosso e sulla sua ostilità al cristianesimo nascente: "Anch’io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù di Nazaret" (26, 9). La seconda racconta l’improvvisa apparizione di Cristo sulla strada di Damasco: una’apparizione inaspettata, a cui Paolo non ha potuto resistere. Questo schema a contrasto mette in luce due idee che per la tesi di Luca sono essenziali: la salvezza è grazia, puro dono; soprattutto, se Paolo è passato al servizio di Cristo è stato unicamente per obbedienza alla volontà di Dio: fosse stato per lui sarebbe rimasto un giudeo devoto. […]
Gesù in persona invia Paolo in missione. La stretta connessione fra conversione e missione […] collima perfettamente con quanto Paolo steso afferma in Galati, 1, 15: "Piacque a Dio di manifestare a me il suo Figlio perché lo annunciassi ai pagani". Nel nostro racconto le parole di Gesù che aprono all’apostolo un orizzonte universale sono ricalcate su Geremia 1, 5-8 e Isaia 42, 7-16. Il primo passo mostra che la missione del profeta deve svolgersi entro tre coordinate: l’universalità ("ti ho stabilito profeta delle nazioni"), la fedeltà e l’obbedienza ("Va solo dove ti ordinerò e annuncia quanto ti dirò"), il coraggio e la fiducia ("Non temere: io sono con te per liberarti"). Sono le medesime coordinate della missione di Paolo
Anche il secondo passo ricorda che la missione è ampia come il mondo (i suoi confini sono infatti "le nazioni") e sottolinea che Dio invia il suo servo a "liberare i prigionieri" e "illuminare i ciechi". L’annuncio missionario è liberazione e illuminazione. Ricalcando la vocazione missionaria di Paolo su quella di Geremia e del Servo di Jahvé, Luca ottiene un risultato importante: la missione di Paolo, che tanto irrita i giudei, è in realtà del tutto conforme alle loro Scritture e alle loro profezie.
Questa conformità alle Scritture non riguarda soltanto la missione fra i gentili, ma tutto l’evento cristiano; […]. Tre eventi costituiscono l’unico fatto cristiano, tutti e tre previsti dalle Scritture come fatti messianici: la Croce, la risurrezione, la missione universale. La missione alle genti è parte essenziale dell’avvenimento cristiano, un segno messianico che, accanto alla morte e alla risurrezione, prova la verità di Gesù Cristo.
Non sfugga un particolare, senza dubbio irritante per i giudei. Il Cristo risorto – dice Paolo — "avrebbe annunciato la luce al popolo e ai pagani". Non solo ai pagani, ma anche al popolo ebraico. Il che significa che nella conversione sono coinvolti allo stesso modo giudei e pagani.»
Il discorso tenuto da Paolo davanti a Festo, Agrippa e Berenice, e riferito dettagliatamente da Luca negli «Atti degli Apostoli», è, dunque, uno dei più importanti nella storia della nascente religione cristiana: quello nel quale si dimostra pienamente la filiazione del Vangelo dalla religione mosaica, ma nel quale, anche, si consuma la rottura con essa, non per volontà dei cristiani, ma per volontà dei giudei, la cui intolleranza era giunta al punto, dopo aver messo a morte parecchi cristiani – fra i quali l’apostolo Giacomo il Maggiore, nel 44, sotto il re Erode Agrippa I, indi Giacomo detto il Minore, verso il 62, prima dell’insediamento di Festo — di tramare, con la complicità dello stesso Sinedrio, l’assassinio di Paolo, non appena se ne fosse presentata l’occasione (nel 58, quaranta sicari avevano fatto voto solenne di non toccare cibo fino a quando non avessero portato a compimento la loro macabra missione, poi vanificata dal trasferimento notturno dell’apostolo a Cesarea, sotto forte scorta militare).
È stato, dunque, un discorso di grandissima importanza sia storica, sia teologica. Paolo si comporta come un esperto conoscitore della legge e si rivolge ad Agrippa, ritenuto una autorità in materia, per chiedere conferma alla sua tesi centrale: è vero o no che i Giudei attendevano un Messia, annunciato dai profeti, e che tutte le loro speranze erano rivolte in quella direzione? Ebbene, quel Gesù di Nazaret, che essi avevano messo a morte, sulla croce, era appunto il Messia tanto atteso; in lui si erano compiute le promesse fatte da Dio ai loro padri. Non bisogna pensare che Paolo fosse insincero e che si servisse di argomenti capziosi; al contrario, da Giudeo osservante, egli aveva sempre sperato che la luce del Vangelo venisse ad illuminare il suo popolo. Tuttavia, durante quei due anni di prigionia, e anche prima, nelle svariate occasioni in cui era stato in pericolo di vita per l’ostilità dei Giudei, durante i suoi viaggi missionari, e nella sorda, tenacissima, continua resistenza che la sua predicazione aveva incontrato fra di essi, molto più che fra i pagani, egli aveva finito per convincersi che il senso della missione cui era stato chiamato personalmente da Cristo, apparsogli sulla via di Damasco, era molto più ampio di quanto potessero immaginare i primi cristiani, poiché si rivolgeva al mondo intero. Crediamo che Paolo sia rimasto turbato e abbia sofferto nel rendersi conto che i Giudei, "primizia" della Rivelazione, rifiutavano ostinatamente il nuovo messaggio; pure, quando fu costretto a prenderne atto, abbracciò definitivamente la prospettiva universalistica, nella quale cadeva ogni distinzione fra Giudei e Gentili: il Vangelo era per tutti gli uomini di buona volontà, circoncisi e incirconcisi, senza differenza alcuna; intuizione ch’egli aveva già avuto, e sostenuto a testa alta, nel cosiddetto concilio di Gerusalemme, verso il 49. Pure, adesso si trattava di una svolta irreversibile: non per volontà sua, ma per l’inimicizia implacabile del giudaismo. Quando trasse le logiche conseguenze di ciò, Paolo – pur senza escludere mai i Giudei dal piano della salvezza, come si vede dalle sue epistole e specialmente da quella ai Romani -, dovette provare un brivido di vertigine, perché si avvide che uno strappo era stato consumato verso la Legge mosaica.
C’è poi un aspetto importantissimo, del discorso di Paolo, che potrebbe restare un po’ in ombra, ma che è necessario evidenziare con forza: per Paolo, essere stato chiamato da Dio e avere iniziato la predicazione del Vangelo, è stata una sola ed unica cosa. Da Dio ha ricevuto la luce di Cristo; ora la deve diffondere a tutti gli uomini, secondo la raccomandazione di Gesù stesso: «Andate in tutto il mondo e prediate il Vangelo». L’insegnamento di Paolo non è di origine umana, non proviene da sapienza o intelligenza di uomo; viene direttamente da Dio: da Dio egli l’ha ricevuto, e ora Dio gli ordina di predicarlo a sua volta, non come qualcosa che vada gelosamente custodito e nascosto, ma come una luce che si deve diffondere ovunque. Questo è un aspetto che oggi viene volentieri sottaciuto, o minimizzato, perché, a causa di una certa deriva teologica in senso neo-modernista e, quindi, neo-relativista, pare quasi che la parola "missione" sia diventata incompatibile con il rispetto verso le altre fedi e culture e verso il dialogo interreligioso. Ma tutto ciò è palesemente falso. Come Gesù in persona ha insegnato, la fiaccola non è fatta per stare sotto il moggio; nel Discorso della Montagna ha affermato (Matteo, 5, 15): «Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere, perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa».
A tutti quei sedicenti cristiani che non parlano più di "missione", o che lo fanno con timidezza e quasi con vergogna, perché, della storia missionaria della Chiesa, ricordano solo gli aspetti discutibili, e mai quelli luminosi, sostenuti da uno slancio di amore illimitato da parte di migliaia e migliaia di uomini e donne, anche oggi attivi nei luoghi più impervi e remoti e pronti a sacrificare la salute e la vita stessa per amore di Dio e del prossimo, gioverebbe tener presente che la predicazione del Vangelo è parte integrante della vita della Chiesa; e che una Chiesa che cessi di annunciare il Vangelo sarebbe già morta in se stessa, o rassegnata alla fine inevitabile, minata da quel male oscuro che si chiama relativismo, il quale, dall’indifferentismo religioso, conduce di necessità verso la perdita della relazione con Dio e, in ultima analisi, anche alla perdita della relazione autentica dell’uomo con se stesso, con i propri simili e con il creato intero.
Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio (Raffaello)