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21 Gennaio 2016Le inquietudini del fascismo di sinistra rivelano tutta la complessità dell’ideologia fascista

Per anni e per decenni ci è stato ripetuto che il fascismo non ha avuto una sua propria ideologia, ma che l’ha raffazzonata un po’ qui e un po’ là; che la sua ideologia, insomma, altro non è che un centone discorde e opportunistico di ideologie altrui: ce lo hanno ripetuto così a lungo e con tanta diligenza che, un po’ tutti, abbiamo finito per credervi, pur senza esserci la briga di andare a verificare personalmente come stessero in realtà le cose.
In seguito agli studi di Renzo De Felice, se non altro, ci è posti il problema, prima considerato storiograficamente irrilevante, delle diverse interpretazioni del fascismo: non bastava più dire, come avevano detto i militanti comunisti fin dall’inizio, e ripetuto "ad abundantiam" negli anni dell’antifascismo istituzionale repubblicano, che il fascismo era stato la "risposta" della borghesia, e in particolare degli agrari emiliani, alla prospettiva di una rivoluzione socialista; non bastava più presentare il fascismo, senza nemmeno distinguere fra movimento e regime, come il bastone del capitalismo italiano contro le masse lavoratrici, ovvero — per dirla con Luigi Fabbri — come una pura e semplice "controrivoluzione preventiva".
Il fascismo, dunque, era stato qualche cosa di più, qualche cosa che aveva realmente fatto leva su degli elementi vitali, e non semplicemente retrogradi o rettivi, della società italiana; inoltre, il fascismo andava inquadrato nella cornice dell’agonia dello Stato liberale, agonia incominciata dalla partecipazione italiana alla Prima guerra mondiale e accentuatasi dopo la "vittoria mutilata" e i gravissimi contraccolpi, economici e sociali, del dopoguerra. Insomma, non si può capire il fenomeno rappresentato dal fascismo, senza aver prima compreso il fenomeno rappresentato dalla partecipazione italiana alla prima guerra mondiale: o, se si preferisce, per dirla con Giovanni Gentile, se non si inquadra Risorgimento, Prima guerra mondiale e fascismo in un’unica linea storica, come elementi di un medesimo processo.
La Prima guerra mondiale è stata vissuta, da quanti la vollero e da molti di coloro che vi parteciparono (non tutti, ben s’intende), e specialmente dagli arditi, come la quarta guerra d’indipendenza nazionale, nello stesso tempo, come uno sciopero collettivo contro la "normalità" della vita borghese, contro il vuoto di valori e di tensione morale che le generazioni post-risorgimentali avevano vissuto e di cui erano state sia testimoni, che responsabili. Ebbene, il fascismo è stato anche la protesta di tutti costoro nei confronti della pretesa della classe dirigente liberale di tornare al "prima", di tirare una riga su quella esperienza, drammatica e preziosa, in cui gli Italiani si erano trovati affratellati per un supremo scopo comune, e contro la pretesa socialista non solo di annullare quella esperienza, di cancellarla, di azzerarla, ma d’insultarla e di deriderla, di volgerla in caricatura, d’insultarla e di maledirla. Per i reduci del Carso e del Piave, era come insultare e deridere i compagni morti e mutilati; era come insultare e deridere gl’ideali che li avevano sostenuti in tre anni di sofferenze durissime e sacrifici inauditi; era come insultare e deridere una esperienza della loro vita che essi sentivano come fondamentale e come sorgente di nuovi valori e di un nuovo modo d’intendere la vita.
Ma c’è stato anche molto altro, nella genesi del fascismo. C’è stata la tensione dialettica, la sostanziale ambivalenza nei confronti della modernità, sentita come la grande sfida che investiva, come un ciclone, tutti i popoli e le nazioni, e rispetto alla quale si sarebbe giocata la partita decisiva verso la tradizione, verso l’identità, verso tutta l’eredità culturale, spirituale e intellettuale del passato. Si dice e si ripete che il futurismo ha anticipato il fascismo ed è poi confluito in esso; ed è, in gran parte, esatto; ma bisognerebbe aggiungere che, nel fascismo, sono confluite anche le forze spirituali che si collocavano agli antipodi del futurismo, o che ne coglievano e ne apprezzavano solamente alcuni aspetti, per lo più di natura estetica, rifiutandone però altri, quelli sostanziali: l’esaltazione della macchina, del progresso, della modernità. Vi è, nel fascismo delle origini, una robusta componente di ruralismo più o meno idealizzato, di nostalgia della sana vita di campagna e di ribellione contro la decadenza e la corruzione dell’urbanesimo: una componente che vede il mondo moderno, e specialmente la società americana, che lo rappresenta nelle forme più spettacolari, come qualche cosa di orribile e di pericoloso, una società fatta di gangster e di banchieri senza scrupoli. Ovvia, in questa componente, una tendenza anti-borghese e fortemente sociale, che si traduce in una vicinanza istintiva con le classi lavoratrici e in una malcelata simpatia per la Rivoluzione russa, pur deprecandone alcuni aspetti, e specialmente il totalitarismo ateo di un partito che rifiuta le radici, la tradizione, in ultima analisi proprio il popolo.
Perciò, come si vede, nel ruralismo fascista entrano almeno due componenti, molto diverse e tendenzialmente opposte: quella conservatrice, statica, vicina al cattolicesimo tradizionalista (e, dunque, non anti-borghese, ma piccolo-borghese, antisocialista e anticomunista; e quella rivoluzionaria e anti-capitalista, socialisteggiante, "romantica". Il corporativismo medesimo si trova come preso fra spinte opposte e contrastanti: da un lato si richiama al corporativismo immaginato da esponenti della dottrina sociale della Chiesa, venati di nostalgie medievali o, comunque, pre-moderne e anti-moderne; dall’altro esprime la sensibilità e le speranze della componente rivoluzionaria, movimentistica, antiborghese (e anticlericale) del movimento, che rifiuta il comunismo non perché ne condanna l’aspirazione alla giustizia sociale, ma perché ritiene di sapere massai meglio rispondere a quella aspirazione, facendola propria e fondando il consenso sulle classi lavoratrici: che, nel caso del’Italia, sono appunto prevalentemente rurali, non operaie.
Ma c’è, sul versante opposto, anche un "modernismo" fascista; e, a rendere più complessa la cosa, un modernismo che si propone di aprire le porte alla cultura europea e americana, di svecchiare e rinnovare l’atmosfera provinciale italiana, senza però far sue le punte di contestazione sociale, che sono invece tipiche delle avanguardie culturali: insomma ci troviamo di fronte a un modernismo a scartamento ridotto, che accoglie gli elementi esteriori delle avanguardie, ma ne rifiuta l’obiettivo ultimo, sia pure, talvolta, implicito: lo scardinamento dell’ordine esistente. È, insomma, un modernismo borghese e rassicurante, che aborre gli estremismi, tranne che nel campo puramente estetico, dove non fanno male a nessuno.
Curioso: il modernismo fascista è, all’interno del movimento fascista, una tendenza di destra, laddove il modernismo ha invece, a livello europeo, delle propensioni, o almeno delle velleità, francamente rivoluzionarie, e perciò tendenzialmente di sinistra; mentre il ruralismo fascista si posiziona, nel complesso, a sinistra (o almeno lo sono "Il Selvaggio" di Mino Maccari e il movimento di "Strapaese"), mentre nel resto d’Europa- in Germania, per esempio – il ruralismo si configura come una costellazione conservatrice, quindi di destra. Tanto va detto e chiarito per evitare inutili confusioni, come avviene quando si pretenda di parlare di "fascismo" al singolare per le diverse società europee degli anni Venti e Trenta del Novecento: sia quelle ancora sostanzialmente pre-industriali, come è il caso della Spagna o della Romania, sia quelle altamente industrializzate, come la Germani o la Francia, sia, infine, quelle che stanno vivendo la transizione dall’una all’altra, come è, appunto, il caso dell’Italia.
Romano Luperini ha tracciato un efficace ritratto del fascismo di sinistra come fenomeno ideologico e culturale, di cui riportiamo i passi salienti (da: R. Luperini e altri, «La scrittura e l’interpretazione», Palumbo Editore, vol. 3, tomo 3, pp. 51-53):
«…"Stracittà" e "Strapaese" […] si inseriscono nel dibattito fascista sull’ordine di priorità e di importanza da assegnare a campagna e industria, a politica rurale e modernizzazione. "Stracittà" recupera il modernismo cittadino dei futuristi, "Strapaese" prosegue il sovversivismo antiborghese e campagnolo della tradizione lacerbiana (e infatti è appoggiato da Papini e Soffici).
Il primo dei due movimenti a darsi una rivista fu "Strapaese" attraverso "Il Selvaggio", fondata dal pittore Mino Maccari a Cole Val d’Elsa (Siena) nel 1924. La rivista fu poi spostata a Firenze e per un certo periodo anche a Torino ed ebbe lunga vita (fino al 1943). Dopo una prima fase spiccatamente politica, divenne prevalentemente artistica e letteraria, conservando però un acceso fervore antiborghese. Su di essa Maccari attaccava, con la penna e con le immagini, le tendenze conservatrici del regime e la propensione del fascismo a diventare istituzione. "Il Selvaggio" esalta la tradizione anti intellettualistica e rurale e un filone di letteratura scanzonata, "becera" e provinciale che risalirebbe a Cecco Angiolieri., Pulci, Aretino e in cui andrebbe inserita anche ‘arte di Tozzi. Incessante è la polemica contro il Futurismo, contro "Stracittà", contro le tendenze cosmopolite che annacquerebbero o corromperebbero i caratteri più autentici e popolari della razza italiana.
"Stracittà" ebbe la sua rivista in "900", fondata da Massimo Bontempelli. Essa uscì redatta in francese nel 1926 e 1927, con il sottotitolo "Cahiers d’Italie et d’Europe" […] e con un comoitat0o di redazione internazionale di cui facevano parte, fra gli altri, lo scrittore inglese Joyce e il russo Erenburg. Poi, nel 1928-29, uscì in italiano. Nel suo programma la rivista riprende alcuni aspetti del Futurismo, respingendone altri. Riprende la rottura con il passato ottocentesco e la vocazione a coniugare strettamente arte e modernità, l’interesse per il "nuovo", per il cinema, per il "jazz"; respinge invece l’elemento anarchico-distruttivo e l’ideologia antiborghese. Inoltre si collega alla ricerca del razionalismo tedesco e del "costruttivismo" russo, del "funzionalismo" nell’architettura e nell’urbanistica, analogamente proponendo un’arte "funzionale" alle esigenze dell’uomo moderno. Secondo Bontempelli, lo scrittore deve ispirarsi alla realtà e nello stesso tempo creare atmosfere magiche: l’arte deve essere "avventura", "sorpresa", "atto magico", rappresentare "l’irruzione dell’assurdo nella realtà quotidiana": di qui la complementarità di realismo e immaginazione; e di qui, anche, il carattere di "miti" o di "favole" delle narrazioni novecentiste. Da qui deriva la formula del "realismo magico". Essa rivela una qualche connessione con le proposte surrealiste; ma l’elemento inconscio e onirico del Surrealismo viene subordinato alle regole razionali dell’intreccio. Manca inoltre il carattere di rottura e di ribellione del Surrealismo. […]
La tendenza strapaesana continua negli anni Trenta passando anche ad altre riviste, come "l’Italiano" di Longanesi, e soprattutto influenzando i giovani "fascisti di sinistra" che ne riprendono l’aspetto ribellistico e utopico. Si tratta di un gruppo di giovani, attivo negli anni Trenta a Firenze: Berto Ricci, Dino Garronem, e gli scrittori Elio Vittorini, Romano Bilenchi, Vasco Pratolini Essi collaboravano a "l’universale" (1931-36), rovista diretta da Berto Ricci, e a "Il Bargello", organo settimanale della federazione fascista di Firenze.
I giovani fascisti di sinistra sostenevano la necessità che il fascismo approfondisse le proprie radici popolari e si avvicinasse al socialismo e all’URSS; proponevano di espropriare i possidenti e di dare la terra ai contadini e allo Stato; erano portatori di un progetto utopico volto ad abolire la differenza fra lavoro manuale e intellettuale. Il popolo è per loro sinonimo di cultura, di civiltà, di umanità. In base a tale credo umanitario e a tale acceso populismo, si battevano contro i caratteri elitari della riforma Gentile e della cultura dell’idealismo; affermavano l’esigenza per l’intellettuale d’impegnarsi politicamente rivendicando il diritto al dissenso all’interno del fascismo. "L’universale" e la terza pagina del "Bargello" proponevano insomma la figura del "letterato-ideologo", in polemica contro i "letterati-letterati" e dunque contro i solariani e gli ermetici. In realtà i fascisti di sinistra puntavano a scavalcare la mediazione della burocrazia fascista e ad avvalersi della diretta protezione di Mussolini. La loro illusione durò sino alla guerra di Spagna, quando invano sperarono che i fascismo intervenisse contro Franco, a fianco dei repubblicani. Delusi, alcuni di loro (Vittorini, Bilenchi, Pratolini) si avvicinarono fra il 1939 e il 1940 al partito comunista clandestino, e parteciparono poi alla Resistenza.»
Ed è su questi ultimi che si è appuntata, in maniera pressoché esclusiva, l’attenzione dei critici letterari e degli storici della letteratura dopo il 1945 e fino ad oggi: si trattava, infatti, di rifare una verginità antifascista a scrittori del peso dio Vittorini, Bilenchi, Pratolini, passati sotto la grande ala protettrice del Partito comunista e divenuti, chi sa come, addirittura icone della cultura antifascista militante (dove "antifascista" è divenuta una connotazione non più storica e politica, ma etica e quasi metafisica, così come "fascista" era diventato la quintessenza del Male eterno aleggiante nella storia). Ma che dire di chi non fece un tale salto dall’altra parte della barricata, anzi rimase fieramente sulle proprie posizioni, sia contro il capitalismo internazionale (gli Alleati anglosassoni), sia contro quello nostrano (la finanza e la grande industria italiane)? Che dire di quel Berto Ricci, che, sposo e padre di una figlia, e non più giovanissimo, chiese e ottenne di patire volontario per il fronte nordafricano, ove cadde sotto il fuoco di un mitragliamento aereo britannico, e che scriveva sul suo diario: «Bisogna che ciascuno faccia la sua parte, per veder sorgere un mondo un po’ meno egoista, un po’ meno porco?».
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash