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La civiltà migliore al mondo? Ovvio: quella americana

Qual è la civiltà migliore al mondo, passata, presente o futura? Ovvio: quella a stelle e strisce. Di ciò il cittadino medio americano è fermamente convinto, e su ciò si basa il suo radicato complesso di superiorità verso tutti e verso tutto, compresa la vecchia, decadente e caotica civiltà europea. Perfino i cugini inglesi stentano a uscire dal quadro negativo, pur se alcuni americani, e specialmente alcuni intellettuali e teorici della superiorità delle razze "nordiche", sono disposti ad ammettere che, sì, in mancanza d meglio, anche la civiltà inglese può andare, almeno rispetto alle altre del Vecchio Continente; e anche, ma con le debite precisazioni e limitazioni, quelle della Scandinavia, dei Paesi Bassi e forse perfino la Germania, se solo i Tedeschi fossero un po’ meno antipatici, sia come popolo che come temibili rivali nella competizione per la conquista dei mercati mondiali. Una eccezione significativa si poteva fare, ed è stata fatta, per i Canadesi, visti come fratelli o come cugini molto stretti (nonostante la componente francofona e cattolica); e magari, per la stessa ragione, per gli Australiani ed i Neozelandesi. Ma quando, esattamente, è nato questo sentimento di orgogliosa superiorità e di supponenza nei confronti degli altri popoli e delle altre civiltà, e specialmente della vecchia Europa? Oppure esso è sempre esistito? Che sia sempre esistito, è difficile sostenerlo; anche se è un fatto che i Padri Pellegrini del «Mayflower» erano animati dalla fiera convinzione di essere chiamati alla santità, e che Dio stesso avesse messo loro a disposizione un nuovo continente, appunto per realizzare la società dei santi, la Nuova Gerusalemme. Ma i Padri Pellegrini, anche se hanno dato l’impronta iniziale alla colonizzazione inglese del Nord America, erano solo una minoranza, rispetto alle ondate successive degli immigrati europei (più tardi, anche asiatici). In fondo, i coloni inglesi continuarono a sentirsi leali cittadini britannici fino a quando non insorsero i gravi dissapori con la Madrepatria, soprattutto per questioni economiche e fiscali; e ciò avvenne solo dopo la Guerra dei Sette anni contro la Francia (1756-63).

Dopo la conquista dell’Indipendenza, la fierezza americana si sviluppò in fretta, mano a mano che sempre nuovi, immensi territori entravano a par parte degli Stati Uniti e che la marcia verso l’Ovest, verso il Pacifico, e il "Manifesto Destino" di diventare una grande nazione bi-continentale, accrescevano nei cittadini statunitensi il sentimento della propria forza. Il punto di rottura con la tradizione europea, o meglio, del complesso di inferiorità (mai ammesso apertamente) verso l’Europa, fu, senza dubbio, non tanto la Guerra d’Indipendenza, ma la Guerra del 1812 contro l’antica Madrepatria: su di un piede, ormai, di parità strategica, oltre che di contrapposizione ideologica (democrazia yankee contro monarchia liberale e costituzionale): tanto è vero che gli Americani, ingenuamente e spavaldamente, già pregustavano il lauto banchetto dell’annessione del Canada, anche se dovettero ben presto rinunciarvi e badare, anzi, alla difesa del proprio territorio (con tanto di occupazione britannica di Washington e d’incendio del Campidoglio). Poi, la dottrina Monroe rafforzò il senso della propria forza e indusse gli Americani a vedere se stessi, in una cornice mondiale, nelle vesti di generosi custodi e difensori delle libere repubbliche del Nuovo Mondo, contro i tentativi di restaurazione del colonialismo europeo.

La Guerra civile americana impose una battuta d’arresto alla dottrina Monroe e consentì a Napoleone III di giocare la carta dell’invasione del Messico (e perfino alla Spagna di tentare il recupero di una parte dell’ex Vicereame del Perù); ma, ancor prima che le ostilità fossero terminate con la vittoria del Nord (mentre le potenze europee avevano parteggiato, sia pure tiepidamente e più che altro per ragioni commerciali, per il Sud), i Francesi si erano reimbarcati, segnando, con ciò stesso, la caduta e la tragica fine di Massimiliano d’Asburgo. Cresciuti a dismisura acquistando la Louisiana dalla Francia, la Florida dalla Spagna, tutto il Lontano Ovest dal Messico (dopo averlo duramente sconfitto: Pace di Guadalupe-Hidalgo, 1848) ed essersi divisi il Territorio dell’Oregon con la Gran Bretagna, infine dopo aver comperato l’Alaska dalla Russia zarista, nel 1867, gli Americani erano fieri di aver raggiunto la massima espansione possibile: il mito della frontiera era terminato, anche se i suoi riflessi perdurarono a lungo nella psicologia americana, e, probabilmente, persistono ancor oggi. Adesso restava solo da "pacificare" le tribù di pellerossa, vale a dire, press’a poco, sterminarle o rinchiuderle nelle riserve, a vivere di elemosina governativa, di turismo e ad abbrutirsi con l’alcolismo. Si tenga presente questo fatto: è assai probabile che, nel sentimento di angoscia dell’americano moderno, che traspare da tanti romanzi, da tanti film, da tanti atteggiamenti, vi sia un rimorso mai riconosciuto per il genocidio cui furono sottoposti i popoli nativi. Per cui al sentimento della forza e della giovinezza americana, al mito auto-celebrativo di un popolo libero e padrone di sé, capace di forgiare da solo il proprio destino, si mescola, ma in maniera sotterranea, e quindi con cattiva coscienza e con segreti sensi di colpa, la consapevolezza di aver fondato la propria nazione sopra una colossale ingiustizia storica, in stridente contrasto con i principi di libertà e democrazia esteriormente sbandierati.

Giungiamo, così, in piena crescita demografica causata dalla massiccia immigrazione europea (che altro non era se non l’ondata di ritorno della crisi agraria provocata, in Europa, dalla spietata concorrenza dei cereali statunitensi), e in piena urbanizzazione e industrializzazione, alla svolta di fine secolo. Gli Stati Uniti dichiarano guerra alla Spagna, nel 1898, e si trasformano, per la prima volta in modo esplicito, in una potenza imperialista, anche se molti politici e una buona parte dell’opinione pubblica cercano di non vedere questo fatto, e tentano di giustificare l’annessione di Portorico e l’occupazione delle Filippine (poi anche delle Isole Hawaii) come delle operazioni necessarie e, probabilmente, temporanee, tali da non inficiare l’assunto politico fondamentale americano: che gli Stati Uniti sono i custodi della libertà e della democrazia a livello planetario e che non fanno alcuna guerra se non per aiutare altri popoli, più deboli e bisognosi del loro aiuto (come il popolo cubano), a raggiungere l’obiettivo della indipendenza nazionale. Nondimeno, vi furono alcuni intellettuali e alcuni uomini politici che si resero conto dello snaturamento delle linee portanti della cultura politica americana e che riconobbero la natura interessata, finanziaria, industriale e commerciale, degli interveti statunitensi, specialmente in America Latina (a Panama, per costruire il Canale, il governo americano giunse al punto di provocare una secessione dalla Colombia); ma rimasero una piccola e inascoltata minoranza.

A partire dalla Prima guerra mondiale gli Americani si trovarono a tu per tu con la grande politica mondiale, non impegnati in modesti conflitti locali, ma come ago della bilancia nella lotta decisiva fra i due blocchi di potenze, l’Intesa e gli Imperi Centrali; schierandosi per le democrazie contro le autocrazie, non fecero che trarre le logiche conclusioni della loro concezione dei rapporti internazionali, perché, secondo il loro punto di vista, non avrebbero potuto assistere inerti alla eventuale vittoria del "militarismo" prussiano (ed è la stessa situazione che si ripeterà nel 1940-41, quando Hitler minaccerà lo sbarco in Gran Bretagna). Ma subito dopo la guerra, subentrò una violenta ondata isolazionista: la guerra non era mai stata popolare; e, del resto, Wilson era stato eletto con la promessa menzognera ai suoi elettori che avrebbe tenuto il Paese fuori dal conflitto. Il tentativo wilsoniano, alla Conferenza di Versailles, di imporre l’idealismo internazionale come nuovo asse portante della politica americana, trovò una fiera opposizione interna, a cominciare dal Congresso; il suo progetto di fondare la Società delle Nazioni venne sonoramente bocciato, e gli Stati Uniti rifiutarono di aderire alla creatura partorita dal loro Presidente.

È da quegli ani, a nostro modo di vedere, che data l’elaborazione definitiva del senso di superiorità americano rispetto all’Europa. Fino alla Prima guerra mondiale, l’Europa aveva ancora esercitato un fascino incontestabile sugli uomini di cultura americani, anche se sempre di meno, e sempre più commisto alla diffidenza e ad un certo disdegno: si pensi al «Fauno di marmo» di Nathaniel Hawthorne, o al celeberrimo «Ritratto di Signora» di Henry James. Dopo la guerra il fenomeno proseguì (Eliot, Pound), ma ormai ristretto a cerchie limitatissime o a personalità isolate: il sentimento prevalente era cambiato, l’Europa era diventata un continente inaffidabile e sospetto, pieno di tensioni e irrequietezze, di conflitti irrazionali e, per giunta, di debiti. E l’avidità americana non vide, non seppe vedere, quanto sarebbe stato meglio per il mondo intero adottare una linea più generosa nei confronti delle nazioni europee indebitate dopo il 1918, sia le vinte che le vittoriose. Le banche americane esigevano la restituzione dei prestiti con tutti gli interessi e il governo restava neutrale, lasciando che l’economia e la finanza se la sbrigassero da sole.

A partire dall’inizio degli anni Venti del ‘900, l’Europa, nell’immaginario americano, decadde definitivamente al rango di un continente impoverito e dissestato, dove succedevano troppe cose strane, e i cui abitanti avevano delle abitudini discutibili e un po’ sgradevoli, insomma non erano "civili" come lo erano loro, gli Americani. Non sapevano fare ordine in casa propria, non trovavano un po’ di stabilità e non riuscivano neppure a pagare i debiti. Una folla di intellettuali americani, come Hemingway o come Gertrude Stein, si riversarono sull’Europa e la percorsero in lungo e in largo, soggiornando ovunque per un tozzo di pane, tanto era favorevole il cambio della moneta, e ostentando le loro inquietudini esistenziali e sessuali (come i triangoli amorosi di Hemingway o la omosessualità sbandierata della Stein); emettevano sentenze, giudicavano con molta superficialità, portavano e accrescevano ulteriore confusione, tentando tutti gli esperimenti artistici, sbizzarrendosi in tutte le avanguardie. Ovunque andassero, a Londra, a Parigi, a Roma, a Berlino, a Cannes, a Sankt-Moritz, gli Americani si sentivano portatori di una civiltà "superiore" e guardavano con degnazione quei piccoli e buffi Europei che si arrabattavano così maldestramente fra rivoluzioni e controrivoluzioni, svalutazioni e recessioni, colpi di stato di destra e di sinistra, fanatismi ed estremismi. Era facile, per quei ricchi turisti, fare di tutta l’erba un fascio e, soprattutto, ignorare i mali, più nascosti, ma non meno profondi, della propria civiltà; era sin tropo facile, e non molti ebbero il buon gusto e l’intelligenza di rendersene conto. Chi lo fece, innamorandosi speditamente dell’Europa, si trovò poi a dover pagare un prezzo nei confronti dei propri connazionali: si pensi solo al caso di Ezra Pound. Oppure si pensi, qualche anno dopo, nel 1936, alla leggenda di Hitler che non volle stringere a mano al velocista Jesse Owens, vincitore alle Olimpiadi di Berlino; mentre la verità è che a non volerlo ricevere fu proprio il presidente americano, Franklin Delano Roosevelt. Gli Americani vedevano il razzismo europeo, e specialmente l’antisemitismo, ma non il proprio, e fingevano di non sapere quel che facesse il Ku-Klux-Klan.

Uno dei migliori storici americani — e, forse perciò, dei meno conosciuti, specialmente fuori degli Stati Uniti -, Merle Curti (nato nel 1897 e morto, quasi centenario, nel 1996), ha bene analizzato questo stato d’animo diffuso, questa radicata convinzione del cittadino medio americano circa la superiorità e l’eccellenza della propria civiltà nei confronti di tutte le altre, compresa quella europea, sviluppatisi, appunto, subito dopo la Prima guerra mondiale (da: M. Curti, «Storia della cultura e della società americana»; ma il tiolo originale è sensibilmente diverso: «The Growth of American Thought», New York, Harper and Brothers Publishers, 1951; traduzione dall’inglese a cura di Francesco Mei, Venezia, Neri Pozza Editore, 1959, pp. 672-674):

«Il sentimento popolare reagì non soltanto contro la guerra stessa [dopo il 1919] ma anche contro il concetto dell’idealismo internazionale e contro quello affine della responsabilità americana in certe misure di controllo pianificato delle forze internazionali.[…]

Lungi dall’assumersi una qualsiasi responsabilità per il benessere dell’Europa, la tendenza predominante fu espressa da quel membro del Congresso che dichiarò: "Adesso gli Stati Uniti desiderano che l’Europa faccia un po’ di pulizia in casa propria senza perdere tempo". La stessa idea fu formulata da un altro quando affermò che l’Europa, piena di debiti e demoralizzata, doveva "fare piazza pulita e pagare". In grandissima parte gli americani guardavano dall’alto in basso lo "stato arretrato, la decadenza, il caos politico" dell’Europa. Si burlavano del suo insuccesso nel risolvere difficoltà che datavano da secoli. Non vedevano che la profonda disgregazione era il risultato quasi inevitabile del sorgere di un’interdipendenza tecnologica rivoluzionaria che stava in netto contrasto con le convinzioni e le abitudini ereditate. Un numero impressionante di turisti del ceto medio americano invasero l’Europa per ammirare i villaggi pittoreschi e gli strani [sic] paesaggi. Ma molti se non quasi tutti ritornarono ringraziando il Signore che il loro governo s’era lavato le mani a proposito di tutta quella confusione europea.

Gli Americani non soltanto ripudiavano i doveri e le responsabilità internazionali, ma più fiduciosi che mai si gloriavano della loro superiorità americana. Il "Ladie’s Home Journal" dichiarò in un articolo di fondo che "al giorno d’oggi esiste unicamente una civiltà di prim’ordine a questi mondo, ed è proprio qui, negli Stati Uniti… ". La stessa superiorità fu ammessa graziosamente per il Canadà. Alcuni attribuirono la superiorità degli Stati Uniti al predominare della cosiddetta "razza nordica" senza rendersi conto che il popolo americano era in realtà un conglomerato di popoli, e trascurando la pretesa dell’Inghilterra di essere considerata come una rappresentante migliore di "razza nordica". In ogni caso, Lothrop Stoddard e William Mc Dougall divulgarono la dottrina della supremazia della "razza nordica" e tentarono di giustificare i loro argomenti con uno sfoggio suggestivo di "prove biologiche" e psicologiche. Il fatto che queste credenze furono ampiamente accettate contribuisce a spiegare il grado considerevole di tolleranza e perfino di appoggio il rinato Ku-klux-klan, un ordine segreto anti-negro, anti-semita e anti-migrante e anti-cattolico, che fiorì dal terzo decennio del secolo tra la parte più bassa dei ceti medi. La fede nella superiorità nordica contribuì anche alla decisione di restringere ‘immigrazione e di fare una discriminazione, nel numero limitato di immigrati futuri, a favore degli Europei settentrionali. Altri attribuirono la superiorità dell’America alla moralità superiore del suo popolo. Thomas Dixon Carver, professore di economia a Harvard, scrisse che la buona fortuna dell’America era stata soltanto il risultato del buon comportamento americano, ed era dovuta al fatto che gli Americani avevano sempre cercato "il regno dei Cieli e la rettitudine". Lo stesso tema fu sviluppato dal dottor Frank Crane, un giornalista molto popolare. Questo mentore clericale del popolo credeva che l’unica difficoltà dell’Europa consistesse nel fatto che, a differenza dell’America, non aveva mai imparato a lavorare e ad amare il lavoro. Molti pensavano che l’America, esportando in Europa fabbriche, tecniche e organizzazioni industriali efficienti, avrebbe immediatamente risollevato il vecchio mondo da uno stato di decadenza quasi senza speranza. Le aspre repliche del’Europa a tutte queste chiacchiere sulla superiorità americana e l’americanizzazione del’Europa trovarono poca risonanza negli Stati Uniti. In ogni caso, indipendentemente dai benefici che secondo i patrioti l’Europa avrebbe derivato dall’esportazione di merce americana, la maggior parte degli americani era d’accordo con Calvin Coolidge quando in effetto egli si pose ad ogni importazione, sia industriale che intellettuale o politica.

Eppure, agli occhi di molti patrioti, l’evidente superiorità degli Stati Uniti non venne apprezzata adeguatamente nel paese ed aveva bisogno di metodi ad alto potenziale per essere sostenuta. Molti trovarono un grande sfogo emotivo nell’organizzare manifestazioni di propaganda patriottica. Il patriottismo era naturalmente in parte l’espressione idealistica di un’emozione che aveva le sue radici nell’educazione del passato e in tutta la cultura del paese. Il movimento dell’"americanismo al cento per cento" rispecchiava inoltre il senso di proprietà, poiché il patriottismo era spesso legato alla sicurezza del possesso.»

Inutile dire che negli Stati Uniti, dopo l’isolazionismo prevalente negli anni Venti e Trenta, con il loro ingresso decisivo nella Seconda guerra mondiale, e con l’assunzione della responsabilità di superpotenza mondiale, nonché di baluardo difensivo dell’intero "mondo libero", e davanti allo spettacolo della rovina, materiale e morale, dell’Europa, oltre che delle sue colpe morali (di nuovo, gli Americani vedevano i crimini nazisti, ma non si rimproveravano le atomiche di Hiroshima e Nagasaki), il sentimento dell’orgoglio patriottico e della propria superiorità sono cresciuti in misura esponenziale e perdurano tuttora. Un esempio per tutti: se una cittadina americana, come Amanda Knox, viene giudicata e riconosciuta colpevole di omicidio da un tribunale europeo — italiano, in questo caso -, l’intera opinione pubblica americana si mobilita, perché sente ciò come una intollerabile ingiustizia e quasi come un affronto. Come osano, quei piccoli e buffi Europei, con i loro ridicoli tribunali, condannare un cittadino della nobile patria della Democrazia e della Libertà?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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