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Da dove trae origine l’idea democratica moderna? (Lasciamo perdere, in questa sede, la democrazia antica, perché richiederebbe un discorso a parte.) Quali sono le sue radici, da dove trae la sua forza espansiva, a quali elementi attinge per costruire la propria mitologia? Per strano che possa apparire, a giudizio di molti acuti osservatori esterni e degli stessi americani, l’idea democratica non nasce che da una brama smodata di benessere materiale: e diciamo "smodata" a ragion veduta, in quanto l’essere smodata è proprio ciò che ne fa il motore di quella. La democrazia spinge a varcare il sottile confine che separa un legittimo e moderato desiderio delle cose necessarie, dalla brama del benessere illimitato, perché essa tende a rimuovere i freni inibitori, sia di natura giuridica e legale, sia, soprattutto, di natura morale e spirituale. La brama diventa allora sempre più cieca, disordinata e patologica, fine a se stessa: non si vive, né si lavora, per soddisfare bisogni reali o per realizzare aspirazioni costruttive, ma unicamente per gettare in un pozzo senza fondo quantità sempre più massicce di beni da consumare in fretta, per poi passare ad altri, in uno spreco esponenziale e in una febbre compulsiva sempre più parossistica.
Da che cosa nasce questo fatto, questa connessione fra l’idea democratica moderna e la brama smodata di assicurarsi un benessere materiale sempre più grande? Secondo noi, dal fatto che l’idea democratica moderna si configura, fin dalla sua genesi, come il veicolo di una concezione del reale dominata dalla volontà di migliorare, perfezionare, arricchire indefinitamente la propria condizione; di rafforzare la posizione di ciascuno con la rivendicazione di sempre nuovi diritti: dal diritto alla vita si è passati al diritto alla libertà personale, poi al diritto alla proprietà, poi al libero pensiero, alla libera stampa e alla libera associazione, al diritto alla salute, allo studio, alla sessualità libera e disinibita. Tuttavia, questa crescita smisurata dei diritti non si è accompagnata ad una crescita nell’assunzione dei corrispettivi doveri, per la buona ragione che i doveri implicano limitazioni, rinunce, sopportazione dei diritti altrui. L’inseguimento della ricchezza materiale, ingannevolmente presentata come "benessere", o come sua condizione necessaria, è l’espressione più immediata dell’idea democratica della crescita, del progresso, dell’avanzare di meta in meta, quasi per rifare la natura e l’uomo stesso: creando un mondo totalmente soggiogato e posto al servizio dell’umano benessere, e un uomo sempre più emancipato, potente, dotato di strumenti fisici e intellettuali sempre più sofisticati per godere in misura maggiore dei suoi predecessori, per sfidare le malattie, la miseria, la vecchiaia e, se possibile (e qui incomincia la follia vera e propria) la stessa morte. Così l’ideologia democratica degenera nell’edonismo, poi nel consumismo e questo, a sua volta, in una contro-religione fondata sul delirio di onnipotenza dell’uomo e, in ultima analisi, sulla sua auto-divinizzazione.
Uno dei primi pensatori moderni che si rese conto della connessione fra l’idea democratica e la brama del benessere materiale è stato il filosofo, sociologo e storico francese Alexis de Tocqueville (1805-1859), autore di almeno due classici del pensiero politico come «La democrazia in America» (in due volumi, pubblicati rispettivamente nel 1835 e il 1840) e «L’antico regime e la Rivoluzione» (apparso nel 1856). Rievocando il viaggio di Tocqueville negli Stati Uniti del 1831, il giornalista e saggista newyorkese Richard Reeves ha scritto, fra l’altro, nel libro «Viaggio americano. Sulle orme di Tocqueville alla ricerca della democrazia in America» (titolo originale: «American Journey», 1982; traduzione dall’inglese di Maria Cairanti, Milano, Edizioni di Comunità, 1983, pp.378-380):
«"In America, scriveva il francese, "la passione del benessere materiale non è sempre esclusiva, ma è generale, e, se non tutti la provano allo stesso modo, tutti però la sentono. La cura di soddisfare i minimi bisogni del corpo e di provvedere alle piccole comodità della vita preoccupa universalmente gli spiriti. […] Quando le classi sono confuse e i privilegi distrutti, quando i patrimoni si dividono e la civiltà e la libertà si diffondono, il desiderio di raggiungere il benessere si presenta all’immaginazione del povero e la paura di perderlo a quella del ricco. Si forma una grande quantità di fortune mediocri. Coloro che le posseggono hanno abbastanza beni materiali per concepire il gusto di essi, ma non tanto da contentarsene. Essi se li procurano con fatica e vi si dedicano con timore (pp. 543-544, "La democrazia in America", edizione italiana a cura di Giorgio. Candeloro, Rizzoli, Milano, 1982).
Centoquaranta anni dopo, il tentativo di soddisfare queste passioni veniva definito, come sempre, un abbandonarsi a un nuovo e quasi universale egoismo — l’entrare a far parte della "generazione dell’io" — ma si sarebbe anche potuto definirlo come qualcosa di "americano". Era possibile che l’ambizione americana non fosse così in declino come pareva agli analizzatori dei sondaggi dell’opinione pubblicato ai professori del Mit; poteva anche essere la stessa ambizione che aveva costruito il paese, adattata però a un ambiente più facile. Il benessere era semplicemente più vicino, nello spazio e nel tempo, nel 1981 che nel 1831
La democrazia aveva fatto questo — aveva cioè avvicinato il benessere — perché era questo che la maggior parte della gente aveva generalmente voluto. I politici democratici potevano essere mediocri, più ancora di quelli che Tocqueville aveva conosciuto, ma non erano i politici a creare o a guidare il sistema. Gli Stati Uniti, la democrazia, erano un contratto tra ogni singolo americano e tutti gli americani associati in un governo […]
Fu la democrazia che divenne il valore americano quando la nazione si unì per combattere le guerre del mondo; nel secolo XX gli americani si erano lasciati convincere a battersi e a morire per assicurare al mondo la democrazia, non il repubblicanesimo. La nuova mitologia consisteva nella democrazia e nell’eguaglianza, espresse in vari modi, da: "Tutti gli uomini sono stati creati eguali…" a "Un uomo, un voto".
In questo tipo di eguaglianza, nell’essere americani, nell’essere uno tra i tanti, ci sono sempre stati orgoglio e paura.. "Siccome nei secoli di eguaglianza nessuno è obbligato ad appoggiare il suo simile e nessuno ha diritto di avere un grande appoggio dal suo simile, ognuno è insieme indipendente e debole", scriveva Tocqueville nel suo secondo volume."[…] L’indipendenza lo riempie di fiducia e d’orgoglio nei confronti dei suoi eguali, la debolezza gli fa sentire di tanto in tanto il bisogno di un soccorso estraneo, che non può attendere da nessuno di essi, poiché sono tutti impotenti e freddi. In questa situazione rivolge naturalmente lo sguardo a quell’essere immenso[…] lo stato". C’era anche una nota a pie’ di pagina, una delle migliori descrizioni del’America che io conosca: "[…] I secoli democratici sono tempi di tentativi, di innovazioni e di avventure. Vi sono sempre moltissimi uomini occupati in un’impresa difficile o nuova, che conducono indipendentemente dai loro simili. Questi uomini ammettono come principio generale che il potere pubblico non debba intervenire negli affari privati; ma, come eccezione, ognuno di essi desidera che esso l’aiuti nell’affare speciale che lo preoccupa e cerca di attirare l’attenzione del governo dalla sua parte, pur volendola restringere da tutte le altre […]" (p. 712).
Ma chi poteva controllare la direzione del’avventura? La democrazia, il fidarsi degli altri, era un rischio: "Le nazioni aristocratiche sono naturalmente portate a restringere troppo i limiti dell’umana perfettibilità, mentre le nazioni democratiche li estendono qualche volta oltre misura", scriveva Tocqueville all’inizio del suo secondo volume. […] A mano a mano che le caste scompaiono, le classi si avvicinano, le leggi, gli usi e i costumi variano con il mescolarsi degli uomini, avvengono fatti nuovi; verità nuove sono messe in luce, antiche opinioni scompaiono mentre altre ne prendono il posto; l’immagine di una perfezione ideale e sempre fuggiti vasi presenta allo spirito umano. […] Così, sempre cercando, cadendo, rialzandosi, spesso deluso, mai scoraggiato, egli tende incessantemente a questa grandezza immensa che intravede confusamente al culmine della lunga strada che l’umanità deve ancora percorrere." (pp. 449-450).
È ovviamente "oltre misura" che si ponga fine alle guerre o che scompaiano le caste. Ma la strada è il’incespicante democrazia.»
Tocqueville vede sia le luci che le ombre della democrazia (in un’altra pagina memorabile parla dell’angoscia americana, originata dal crimine perpetrato ai danni dei nativi, e, quel che è peggio, con tutti i crismi della legalità più ipocrita, cioè mediante "regolari" trattati); non altrettanto il suo esegeta americano odierno, Richard Reeves, cui sfuggono molte sottigliezze del ragionamento del francese, per la solita tendenza americana a prendere per buoni i miti, frettolosi e sovente grossolani, coi quali questa nazione troppo giovane si è data un codice di valori, mentre la vecchia Europa ha avuto bisogno d’un paio di millenni per elaborare il suo.
Tocqueville vede perfettamente quel che di illusorio, e soprattutto di pericoloso, vi è nel costante miraggio americano del benessere; Reeves fraintende il concetto e sostiene che, alla fine del XX secolo, il benessere è divenuto più vicino: dimenticando che un miraggio è sempre un miraggio e che, per definizione, non ci si avvicina ad esso, perché è sempre un passo avanti. E non è nemmeno chiaro se, quando maneggia concetti come "entrare nella generazione dell’io", e quando definisce quest’ultima come una nuova e universale forma di egoismo, per di più tipicamente americana, stia facendo dell’ironia, o se gli sfugga quanta tragicità vi sia in un tale concetto: nel qual caso, crediamo, la voglia di fare l’ironico dovrebbe passare a chiunque.
Tocqueville vede lucidamente la radice contrattualistica della società americana e si rende conto che si tratta di un contrattualismo esasperato, un incrocio fra il buonismo dei giusnaturalisti, con il loro ottimistico razionalismo antropologico, e la tetra severità di un Hobbes, col suo pessimismo e con il conseguente assolutismo quale correttivo all’egoismo umano. Però il francese è figlio del XIX secolo, Reeves è un uomo del tardo XX secolo: e quel che il primo ancora non poteva vedere, il secondo ce l’ha sotto gli occhi. Perciò, se Tocqueville pensa che l’essenza della democrazia consista in un contratto stipulato fra ogni singolo cittadino e tutti gli altri, che si esprime in un governo rappresentativo, Reeves non ha scusanti se non si accorge che l’essenza della democrazia moderna non risiede in un contratto, ma nelle apparenze di quel contratto, e che il vero governo di essa non risiede nei cittadini, ma in un potere occulto e onnipresente, dotato di una immensa capacità di manipolazione e condizionamento dell’opinione pubblica: quello finanziario, e specialmente delle grandi banche. Come non vedere che la democrazia moderna degenera fatalmente nella plutocrazia, e questo proprio per la mancanza di efficaci correttivi al naturale egoismo umano, che esistevano nelle società di ancien régime e anche in quelle dittatoriali moderne (di cui non vogliamo certo fare l’elogio), ma che in democrazia evaporano, proprio perché la democrazia incoraggia ed esalta quell’egoismo, confondendolo con la (legittima) libertà d’iniziativa?
Nelle guerre mondiali del XX secolo, del resto, gli Americani non furono "persuasi" a battersi lontano dai loro confini; furono ingannati, puramente e semplicemente: da Wilson nella prima, da Roosevelt nella seconda, poiché entrambi si fecero eleggere promettendo di mantenere la neutralità e tradirono la promessa subito dopo. E già questo dovrebbe dir molto sull’effettivo esercizio della sovranità popolare, in regime di democrazia moderna. Quanto al fatto che gli Americani andarono a combattere sotto le bandiere della democrazia, per portarla "in dono" agli altri popoli, compresi quelli che non la volevano, come non vedere, in ciò, una degenerazione interna della democrazia stessa, ancor più grave di quella plutocratica: la degenerazione totalitaria? Una democrazia che si espande illimitatamente nel mondo, in una guerra permanente contro tutto ciò che le si oppone (e che si oppone al suo logico corollario, il libero mercato), o, semplicemente, che le rimane estranea, magari in posizione defilata: non è questa la versione capitalista della "rivoluzione permanente" di trotzkista memoria? Ed è una cosa che fa paura…
Tocqueville, poi, vede la contraddittorietà della psicologia democratica: essa proclama uno Stato "minimo", che non s’immischi negli affari privati dei cittadini; però ciascuno di essi si augura che, nel suo caso, lo Stato faccia uno strappo alla regola e si prenda a cuore il suo particolare problema. E questo perché, in democrazia, nessuno si aspetta razionalmente di essere aiutato dagli altri, ma tutti lo sperano inconsciamente: perché tale è la natura umana. L’uomo vorrebbe l’indipendenza e la massima libertà; ma poi, se qualcosa lo minaccia, vorrebbe la protezione di qualcuno… dello Stato, appunto. E questo, allora, diventa il surrogato di quel Dio che essa ha spodestato. Tocqueville, da ateo, non valuta la portata di ciò: non afferra che la democrazia corrisponde alla auto-deificazione dell’uomo e che la dismisura, l’eccesso (concetto da cui eravamo partiti) le è connaturato. Insomma: Dio è al di sopra della democrazia e la democrazia non è Dio. Una democrazia cristiana, perciò, è molto difficile da realizzare, è quasi una contraddizione in termini. E infatti la democrazia americana nasce come democrazia massonica, cioè non-cristiana e anti-cristiana (aspetto sul quale Tocqueville, pudicamente, sorvola: per ingenuità o per collusione?).
Il cristianesimo ricorda agli uomini che c’è un unico Dio, e che Egli non è il benessere materiale; inoltre ricorda loro il senso del limite, la fragilità della creatura, la sua non autosufficienza; mentre la democrazia tende ad essere auto-centrata, auto-celebrativa ed auto-sufficiente, e quindi pretende di essere servita, se necessario, fino al sacrificio della vita: fino a che il suo ultimo nemico non sia stato debellato e cancellato dalla faccia della Terra…
E a quel punto, se mai ciò dovesse avvenire, chi salverà l’uomo da se stesso, dalla sua folle dismisura? E quali forze riusciranno a tenere unita la società, quando ciascun egoismo individuale si lancerà, cieco e sordo, a rivendicare tutti i diritti possibili e ad occupare tutti gli spazi, affrettandosi a sottrarli agli altri? Uomini come Tocqueville sperano che tali forze sorgeranno dallo Stato medesimo; ma ciò è impossibile: non hanno essi teorizzato uno Stato che serva principalmente a garantire la massima libertà di tutti? Per cui, se diventasse uno Stato-Leviatano, come quello di Hobbes, la democrazia entrerebbe in contraddizione con se stessa: si suiciderebbe.
E forse è quel che sta accadendo. La democrazia si sta suicidando, non senza aver prima distrutto i valori delle società tradizionali (che erano monarchiche, aristocratiche e, soprattutto, religiose), i quali facevano da puntelli: erano le forze virtuose che le tenevano unite. E a quel punto, che cosa ne sarà di noi?
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash