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Che cosa è veramente centrale e basilare per il nostro senso di esistere?

Il nostro senso di esistere si basa su alcune certezze fondamentali, intuitive, rassicuranti, che ci avvolgono, ci fasciano, ci sostengono e che sono, per così dire, lo sfondo di tutta la nostra vita interiore, di tutta la nostra consapevolezza e della nostra esperienza.

La prima di queste, secondo Antonio Rosmini, era il sentimento dell’essere: un sentimento così immediato e naturale, e, nello stesso tempo, così necessario, anzi, indispensabile, che solo grazie ad esso noi possiamo sentire tutto il resto, pensare e capire tutto il resto, interrogarci e stupirci su tutto il resto. Davanti a un cielo azzurro, o davanti al nostro gioire e godere di quel meraviglioso spettacolo, quel che troviamo alla radice è il sentimento dell’essere: prima di essere azzurro, il cielo è; prima di stupirci, noi siamo; prima di essere così come sono, belle o brutte, nuove o vecchie, grandi o piccole, le cose sono, esistono, e noi esistiamo, noi siamo: altrimenti o vi sarebbe il nulla, o noi saremmo immersi nel caos e non sentiremmo nulla.

Eppure, accanto al sentimento dell’essere, vi è, silenzioso ma certo, costante, perenne, anche un altro sentimento, che ne è praticamente l’opposto: il sentimento che le cose potrebbe anche non essere così come sono; che noi non sappiamo nulla della loro essenza; e che noi stessi potremmo essere altrimenti, o potremmo sentire, pensare, agire altrimenti da come sentiamo, pensiamo ed agiamo: che ogni cosa è, per così dire, sospesa nel vuoto e che fluttua fra innumerevoli e perfino opposte possibilità. Noi sentiamo, insomma, che l’essere non è una realtà rigida e fissata irrevocabilmente, ma che si esprime e si manifesta attraverso infiniti modi o accidenti, e che noi siamo affacciati sul pontile di un oceano dalle dimensioni sconosciute.

Questo sentimento completa e, per così dire, integra l’altro: se quello ci conferisce un senso di stabilità e di certezza, questo ci procura un vago senso di vertigine, un capogiro abissale, così come abissale è il mistero che vi si cela. Tanto che, indugiando smarriti davanti ad esso, ci vien fatto di chiederci che cosa sia veramente centrale e basilare per il nostro senso di esistere. Se le nostre certezze non sono che abitudini; se esse posano su null’altro che una mappa mentale da noi stessi disegnata, che è tutt’altra cosa, però, dalla realtà del paesaggio dell’essere, quanto una carta geografica differisce dal reale paesaggio terrestre da essa rappresentato: allora ciò significa che, dopotutto, noi non abbiamo a che fare con la realtà vera, ma solo con la nostra rappresentazione di essa: e che la vita intera, come dice Pedro Calderon de la Barca, è solamente un sogno, nel quale non sappiamo neppure quando sogniamo d’essere desti.

C’è da restare turbati, sconvolti. Chi siamo noi, allora, veramente? Chi o che cosa sono gli altri? Cosa è la vita? Un sogno e nient’altro che un sogno?

Molti filosofi e scrittori hanno trattato, dai rispettivi punti di vista, questo problema; fra i secondi, l’ebreo austriaco Arthur Schnitzler (Vienna, 1862-1931) lo ha sovente considerato nella sua opera narrativa, entro la quale spicca l’enigmatico racconto «Doppio sogno»m scritto nel 1925 e pubblicato nel 1926, dal quale il regista statunitense Stanley Kubrick ha tratto, nel 1999, il suggestivo film «Eyes Wide Shut», il suo testamento spirituale, uscito postumo, dopo due anni di riprese e di lavoro particolarmente intenso (e revisionato dal regista Steven Spielberg), essendo morto improvvisamente d’infarto il suo autore.

Vi è una pagina del racconto, che qui riportiamo, in cui emerge con particolare evidenza il tema dell’ambiguità e della elusività del reale (da: A. Schnitzler, «Doppio sogno» (titolo originale: «Traumnovelle»; edizione italiana a cura di Giuseppe Farese, Adelphi, Milano, 1977, pp. 14-17):

«Albertine, forse perché, fra i due, era la più impaziente, la più sincera o la più indulgente, trovò per prima il coraggio di fare una esplicita dichiarazione; e con voce un po’ esitante domandò a Fridolin se si ricordava di quel giovane che la scorsa estate sulla costa danese era stato seduto una sera con due ufficiali al tavolo vicino al loro, aveva ricevuto un telegramma durante a cena e si era quindi rapidamente congedato dai suoi amici. Fridolin annuì. "Ebbene?" chiese.

"L’avevo già visto la mattina" rispose Albertine "mentre saliva in fretta le scale dell’hotel con la sua borsa gialla. Mi aveva osservata di sfuggita ma, fatti alcuni gradini, si fermò, si girò verso di me e i nostri sguardi dovettero incontrarsi. Non sorrise, mi sembrò, anzi, che il suo volto si rabbuiasse, e lo stesso capitò a me, poiché ero agitata come non mai. Me ne stetti tutto il giorno trasognata sulla spiaggia. Se mi avesse chiamata – così pensavo – non avrei potuto resistergli. Ritenevo di essere pronta a tutto; mi credevo pressoché pronta a sacrificare te, la bambina,il mio avvenire e allo stesso tempo – puoi capirlo? – mi eri più caro che mai. Proprio quel pomeriggio, devi ancora ricordartene, capitò che parlassimo di mille cose, anche del nostro comune futuro e della bambina, così intimamente come non accadeva più da tempo. Al tramonto eravamo seduti sul balcone quando lui passò; camminava lungo la spiaggia senza sollevare lo sguardo, e fui felice di vederlo. Tuttavia ti accarezzai la fronte e ti bacia i capelli e nel mio amore per te c’era allo stesso tempo tanta sofferta compassione. La sera ero bellissima, me lo dicesti anche tu, e avevo una rosa bianca nella cintura. Forse non fu un caso che lo straniero sedesse coi suoi amici vicino a noi. Non mi guardò, ma io m baloccai con l’idea di alzarmi, andare al suo tavolo e dirgli: Eccomi, mio atteso amante – prendimi. In quel momento gli portarono il telegramma, lo lesse, impallidì, sussurrò alcune parole al più giovane dei due ufficiali e, sfiorandomi con uno sguardo enigmatico, lasciò la sala."

"E poi?" domandò asciutto Fridolin, quand’ella tacque.

"Nient’altro. Il mattino seguente mi svegliai con una certa apprensione. Non so, né lo sapevo allora, se temevo di più che fosse partito o che potesse essere ancora là. Tuttavia quando non ricomparve neanche a mezzogiorno, tirai un sospiro di sollievo. Non farmi altre domande, Fridolin, ti ho detto tutta la verità. E poi anche tu hai avuto qualche avventura su quella spiaggia – lo so."

Fridolin si alzò, si mise a camminare avanti e indietro per la stanza poi disse: "Hai ragione". Stava presso la finestra, il viso in ombra. "Di mattina", cominciò con voce velata, un po’ ostile, " a volte anche molto presto, prima che ti alzassi, ero solito camminare lungo la riva allontanandomi dal paese; e sebbene fosse presto, sul mare brillava già un sole chiaro e forte. Da quelle parti, vicino alla spiaggia, c’erano, come sai, delle villette isolate, ognuna come un piccolo mondo a sé, alcune col giardino recintato da uno steccato, altre circondate ance solo dal bosco, la strada e un pezzo di spiaggia separavano i capanni dalle case. Era difficile che incontrassi qualcuno così di buon’ora; e bagnanti non se ne vedevano mai. Ma una mattina scorsi ad un tratto una figura femminile che fino ad allora mi era rimasta nascosta: procedeva cautamente sullo stretto terrazzino di uno dei capanni piantati nella sabbia, mettendo un piede avanti all’altro e con le braccia tese indietro lungo la parete di legno. Era una ragazza giovanissima, forse quindicenne, coi capelli biondi sciolti che le ricadevano sulle spalle e da una parte, sul seno delicato. La ragazza guardava l’acqua dinanzi a sé, scivolando adagio lungo la parete e si spostava, senza alzare lo sguardo verso l’altro angolo e tutt’a un tratto venne a trovarsi proprio di fronte a me; tese ancora di più le braccia all’indietro, come per aggrapparsi meglio, alzò gli occhi e improvvisamente si accorse di me. Un tremito la scosse, quasi dovesse cadere o fuggire. Ma poiché su quella stretta striscia di legno non si sarebbe potuta muovere che lentamente, decise di fermarsi – e restò così, il viso dapprima impaurito, poi arrabbiato, infine impacciato. A un tratto però sorrise, sorrise meravigliosamente; nei suoi occhi c’era un saluto, un invito, – e allo stesso tempo una leggera derisione nel modo come sfiorò fuggevolmente l’acqua ai suoi piedi che mi divideva da lei. Poi distese il corpo giovane e snello, quasi lieta della sua bellezza e, come si poteva facilmente notare, fiera e deliziosamente eccitata per il luccicare del mio sguardo che sentiva fisso su di sé. Restammo così, uno di fronte all’altra, forse dieci secondi, le labbra semiaperte e gli occhi scintillanti. Tesi istintivamente le braccia verso di lei, nel suo sguardo si leggeva passione e gioia. Ma all’improvviso ella scosse violentemente la testa, staccò un braccio dalla parete e mi fece imperiosamente cenno di allontanarmi; e poiché non mi decisi a ubbidire subito, i suoi occhi di bambina assunsero una tale espressione di preghiera, di implorazione, che non mi restò altro che andarmene. Proseguii il mio cammino più in fretta che potei; non mi girai a guardarla neppure una volta, non proprio per riguardo, ubbidienza o cavalleria, ma perché il suo ultimo sguardo aveva suscitato in me una tale commozione, superiore a ogni altra esperienza, che mi sentivo vicino a svenire.»

Tutta l’atmosfera del duplice, reciproco racconto, della moglie al marito e del marito alla moglie, è pervasa da un che di onirico; si tratta di due storie simmetriche d’infedeltà, ma soltanto immaginata e desiderata, non portata a compimento. Né Albertine, con il suo bel sconosciuto visto all’albergo, né Fridolin, con la ragazzina incontrata sulla spiaggia nelle prime ore del mattino, si sono spinti oltre la dimensione della fantasticheria, del sogno ad occhi aperti; entrambi, però, con il desiderio, hanno varcato quella soglia e hanno effettivamente tradito il coniuge, e assaporato il piacere aspro e sensuale dell’amore adultero. Si può considerare un vero tradimento, tutto questo? Il sogno ad occhi aperti di Albertine, è stato realmente un adulterio? E lo è stato il breve, ma intenso desiderio di Fridolin, davanti alla giovanissima ragazza che pareva offrirsi a lui, in un abbandono tanto subitaneo e inaspettato, quanto totale e conturbante? Non è forse vero che solo l’inaspettato, inesplicabile ritrarsi della bella sconosciuta lo ha trattenuto, quand’era già quasi sull’orlo dell’abisso? Che cosa avverrebbe, se noi dovessimo porre i nostri segreti desideri sullo stesso piano di giudizio di ciò che effettivamente diciamo e facciamo, nel corso della nostra vita cosciente? Quante volte saremmo costretti ad abbassare lo sguardo, arrossendo, se dovessimo confessare alle persone che ci stanno intorno la vera natura dei nostri pensieri, dei nostri impulsi, dei nostri desideri, i quali, talvolta, ci entrano nell’anima all’improvviso, come ospiti non attesi, né annunciati, ma così, di prepotenza, eppure trovando in noi segrete corrispondenze, come se, anche senza rendercene conto, li avessimo effettivamente invocati ed evocati, ed essi avessero semplicemente risposto? I nostri impulsi e i nostri segreti desideri avrebbero, dunque, una potenza sconosciuta così grande, così terribile, da materializzare i propri oggetti e da portarceli davanti, nella vita reale, come se fossero usciti dalla dimensione del sogno?

Sono strani pensieri, senza dubbio; eppure non sono pensieri futili e oziosi, al contrario: perché da essi, probabilmente, si accede alla soglia segreta della verità, là dove si colloca il malcerto confine fra l’essere e il poter essere, e tutto diventa possibile, anche ciò che, razionalmente, ci sembrerebbe assurdo. Ad Albertine, ad esempio, sarebbe sembrato assurdo il pensiero di tradire il proprio marito, che amava, fino al momento in cui si è trovata davanti l’immagine seducente del giovane sconosciuto, seduto con due amici sulla terrazza dell’hotel, sulla costa danese, durante quella certa vacanza estiva, simile a tante altre. Ma assurdo, perché? Forse perché ella non aveva mai osato rivolgere lo sguardo in profondità dentro se stessa, e interrogarsi, senza veli e senza ipocrisie, sulla reale natura dei suoi desideri, compresi quelli sessuali? Assurdo, perché troppo in contrasto con l’idea di se stessa, della propria "serietà" e onorabilità, che la donna si era costruita, per poter mostrare al mondo la sua faccia migliore, la più onorabile? Ma dunque quell’idea era solo una facciata, e, al di sotto di essa, la realtà vera era ben diversa, ed era la realtà di una giovane donna in calore, di una prostituta, pronta a giacere col primo venuto, a offrirsi come una donna di strada, senza nemmeno sapere niente di lui, così, semplicemente per un impulso subitaneo della carne, irresistibile, quasi animalesco? Ecco come diventa importante imparare a leggesi dentro.

Quanto poco sappiamo di noi stessi, e quanto poco degli altri; eppure, non appena ci accade di gettare uno sguardo, anche fuggevole, sulla dimensione del possibile, di quel che potremmo fare, se osassimo farlo, il più delle volte ci ritraiamo spaventati, come se avessimo intravisto qualcosa d’inquietante. Non si tratta solo della consapevolezza che indossiamo abitualmente delle maschere, come per Pirandello; è molto di più: è l’intuizione che il reale è il regno del possibile, e che questo non è solo quel che vogliamo e crediamo di volere, ma anche quell’altro, che mai oseremmo dire…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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