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Il Cristianesimo, cuore e motore della civiltà medievale ed europea

Il Cristianesimo, checché ne dicano le lobbies plutocratico-massoniche di Bruxelles, non è stato un fattore storico che si possa mettere fra parentesi e sul quale si possa tirare una riga, come nulla fosse; esso è stato, al contrario, il cuore e il motore della civiltà medievale ed europea e, dunque, della civiltà mondiale, nella misura in cui quest’ultima è debitrice da quelle per ciò che è diventata e per ciò che potrà diventare.

Senza il ruolo svolto dalla religione cristiana nei secoli del Medioevo, noi non avremmo l’Europa, né avremmo il mondo, così come oggi ci appaiono, come si sono formati e assestati, anche passando attraverso momenti di violenta ribellione anticristiana (alcune eresie medievali, prima; l’Illuminismo, la Massoneria, il Liberalismo, la Democrazia, il Socialismo, poi), ma sempre servendosi dei materiali che la cultura cristiana e la spiritualità cristiane avevano messo loro, per così dire, a disposizione.

Anche le radici antiche, classiche, della civiltà europea — cioè, in buona sostanza, la filosofia greca e il diritto romano — non sono state tali, per l’Europa, senza la mediazione del cristianesimo: quelli che a noi sono giunti, dalle rovine della civiltà antica, sono stati la filosofia greca mediata dal cristianesimo e il diritto romano mediato, anch’esso, dal pensiero cristiano, e arricchito dal diritto canonico, creazione della Chiesa cattolica medievale.

Dunque: niente cristianesimo, niente Europa; l’Europa senza le sue radici cristiane è un non-senso, una falsificazione storica e una impossibilità logica: questo lo ammettono tutte le persone di buon senso e intellettualmente oneste, di qualunque tendenza siano dal punto di vista filosofico, storico, politico, religioso, morale. Parlare dell’Europa, anche al presente, ignorando il cristianesimo, è come parlare della pioggia, facendo finta che non esista il ciclo dell’acqua e pensando alla pioggia come ad una precipitazione che viene dal cielo, chissà come e perché, e che cessa di esistere nel momento in cui cade al suolo.

Il problema è che la civiltà europea moderna non solo rifiuta il cristianesimo come religione e come sistema di valori, ma lo rifiuta anche come pura e semplice tradizione storica e culturale, poiché essa teme che, anche ridotto anche entro queste proporzioni puramente oggettive e naturalistiche, esso riesca, in qualche modo, a trasmettere qualcosa della propria dimensione propriamente religiosa; anche se la civiltà moderna è irreligiosa, atea e materialista, nondimeno essa teme, in maniera tipicamente superstiziosa, che quel Dio dichiarato morto e sepolto, possa risorgere dal sepolcro e venire a scompaginare tutti i suoi bei progetti.

I quali progetti sono presto detti: sostituire la millenaria tradizione cristiana con una cultura razionalista, mondialista, cosmopolita, massonica, omologante e, soprattutto, funzionale a quegli oscuri poteri finanziari i quali, stando sullo sfondo, manovrano come tanti burattini tutti i volonterosi paladini del laicismo, dello scientismo, della cultura dei "diritti", questi utili idiori, zelanti "intellettuali" del relativismo, dell’indifferentismo, del nichilismo, dell’omosessualismo, della globalizzazione, della porta aperta all’invasione dei migranti, la quale ultima è, per chiamarla con il suo vero nome, una sistematica sostituzione di popolazione, avente l’obiettivo di far scomparire fisicamente, biologicamente, oltre che culturalmente e spiritualmente, quel che resta degli Europei, dell’Europa e della sua millenaria civiltà. Ed ecco spiegato anche perché il livore illuminista contro il Medioevo non si è affatto smorzato, dopo due secoli e mezzo di accuse e recriminazioni sistematiche: denigrare il medioevo, infatti, vuol dire anche sminuire l’apporto del cristianesimo alla costruzione della civiltà europea e dunque, in un certo senso, creare le premesse per rimuoverne anche il ricordo dall’orizzonte storico del presente.

La centralità dell’esperienza medievale per l’Europa attuale è stata assai ben sintetizzata dallo storico Raffaello Morghen (nato a Roma nel 1896 e morto, nella stessa città, nel 1983) nel suo ormai classico «Il Medioevo cristiano» (Bari, Laterza Editore, 1951; 1962, p. 17):

«Il Medioevo non è un oscuro e incomprensibile iato inserito da non si sa quale demiurgo tra gli ultimi splendori della cultura antica e i nuovi splendori della Rinascita, ma piuttosto la più compiuta espressione della civiltà mediterranea, dalla quale dobbiamo riattingere i motivi eterni che hanno fatto della civiltà europea la civiltà umana per antonomasia.

La forza centrale di questa nuova civiltà è il Cristianesimo che, esautorata la religione pagana, prese il posto che prima era stato dell’Impero romano. Nella consapevolezza di questa altissima funzione, la Chiesa della "regalis potestas" degli Imperatori sostituì la "sacrata pontificum auctoritas"; Agostino con il "De Civitate Dei" indicò il dovere e il diritto della Chiesa di guidare politicamente e spiritualmente e politicamente la società umana; Gregorio Magno accordò cristianesimo e romanità per cui la "libertas" assunse il compito di portare l’uomo nella legge civile e nel perfezionamento morale; Benedetto da Norcia con la sua "regola", cristiana e romana ad un tempo, "raccolse intorno a sé i VOLGHI DISPERSI", li rieducò all’amore degli uomini e dei campi; Leone III ricostituì l’Impero "non più nemico ma alleato di Cristo", cioè con finalità politico-religiose; Carlo Magno nel segno della Croce unificò l’Europa romano-germanica; infine, lo Stato, consacrato dalla Chiesa, assunse il compito di "guidare il popolo di Dio" attraverso la peregrinazione terrena verso l’immortale gaudio della Gerusalemme celeste.»

Ripensare al nostro legame con civiltà medievale non significa, dunque, indulgere ad una forma di passatismo fine a se stesso, ma tornare ad attingere a quella fonte che ha assicurato all’Europa, per circa mille anni, una straordinaria compattezza sociale e spirituale, che, pur fra mille difficoltà e minacce, interne ed esterne — pestilenze, invasioni, guerre — le ha consentito di superare ogni crisi, di ritrovare ogni volta se stessa, di non smarrire mai del tutto, nemmeno nei momenti più critici, il senso della vera civiltà: che è ricerca della sintesi fra pace e giustizia terrena, da un lato, e ricerca di Dio e dei valori eterni, dall’altro; concetto dal quale ci siamo a tal punto allontanati, da averne smarrito perfino l’intimo significato e, di conseguenza, il bisogno e lo stesso desiderio. Il che è quanto dire che abbiamo costruito, negli ultimi tre secoli, una contro-civiltà, una contro-cultura, una contro-spiritualità; così come una contro-economia, una contro-socialità e una contro-educazione, il cui risultato è la corsa, sempre più precipitosa, sempre più disordinata, verso il precipizio del caos e dell’autodistruzione. Come se — è impossibile non pensarvi, almeno qualche volta – qualcuno ci stesse sospigendolo deliberatamente verso una tale Nemesi.

L’uomo medievale possedeva il senso del limite. Le corporazioni di mestiere ed i loro statuti sono la prova del fatto che, nella civiltà del Medioevo, il lavoro, la produzione e l’economia erano al servizio dell’uomo, così come lo erano le banche, e non viceversa: la proibizione della pubblicità, la severa limitazione della concorrenza, la stretta vigilanza contro le adulterazioni e ogni atro procedimento produttivo contrario al bene comune e all’onorabilità delle stesse arti e dei mestieri, nonché la condanna dell’usura (con tanto di scomunica e di rifiuto del funerale religioso agli usurai), mostrano come fosse cosciente del fatto che, senza gli opportuni correttivi all’egoismo individuale, produzione e risparmio si sarebbero trasformati nel campo di battaglia ove è destinato a vincere sempre il più avido e privo di scrupoli, non il migliore, con danno non solo del consumatore, del lavoratore e del piccolo risparmiatore, ma della società intera.

Quando le corporazioni cominciarono a decadere, quando le banche si trasformarono da custodi del risparmio ed erogatrici di credito, in agenzie di speculazione finanziaria sempre più cinica e incontrollata, la civiltà medievale cominciò a morire. Pure, la sua fibra era così forte e sana, che ci vollero ancora alcuni secoli prima che soccombesse definitivamente. Tracce di istituzioni e di mentalità medievali sopravvissero durante l’Ancien Régime, fino alla vigilia della Rivoluzione francese e di quella industriale. Per distruggerle definitivamente, e per consentire assoluta mano libera all’usura finanziaria e alle spietate leggi del capitalismo moderno, furono necessari gli sforzi riuniti della Massoneria, della cultura illuminista, della «Encyclopédie», ma anche delle filosofie razionaliste, sensiste, empiriste, utilitariste, scettiche, libertine, laiciste; nonché il giurisdizionalismo dei sovrani "illuminati", l’avidità smodata della ricca borghesia e l’empia alleanza fra il buonismo velleitario e melenso dei giusnaturalisti e la realpolitik della City, della Banca d’Inghilterra, della gentry vogliosa di enclosures e delle Compagnie commerciali inglesi, francesi e olandesi, potenti come piccoli (o non tanto piccoli) imperi.

La civiltà medievale traeva la sua straordinaria coesione dal radicamento del sentimento religioso: era quello, e non la paura delle pene civili, a trattenere l’uomo medievale entro il senso del limite, a ricordargli la sua condizione creaturale e il suo appuntamento finale con la Giustizia divina, cosa che lo riempiva di sacrosanto timore e tremore. Chi non ha compreso questo, non può comprendere nulla della «Divina commedia», foss’anche il più dotto dantista; nulla di Giotto e delle cattedrali, foss’anche il più colto storico dell’arte; nulla di San Tommaso d’Aquino, quand’anche fosse il più erudito storico della filosofia. L’uomo medievale aveva paura dell’Inferno: e allora? Forse che è migliore il philosophe illuminista, che non teme Dio e si fa beffe delle cose più sacre, ma poi cade in servile adorazione dei suoi nuovi feticci: la Ragione, la Scienza, il Progresso, con altrettanto fideismo superstizioso, ma senza quell’empito di spiritualità e quella capacità di depotenziare il proprio ego, vera e inesausta sorgente di tutti i mali del genere umano? È migliore lo scienziato che mette a punto le armi chimiche e batteriologiche, o il medico che pratica l’aborto e l’inseminazione artificiale, o il bioingegnere che clona piante ed animali, in attesa di clonare anche l’uomo, di manipolare il suo Dna, di fabbricare mostri e chimere a suo talento, per glorificare se stesso e per ubriacarsi d’un pericolosissimo senso di onnipotenza, magari mascherato da filantropismo?

La compattezza della civiltà medievale, la saldezza della società medievale, provengono dalla profondità e dalla coesione del sentimento religioso, che accompagnava tutti, dotti e analfabeti, dalla nascita alla morte, attraverso i sacramenti, il catechismo, i riti e le cerimonie religiose, la preghiera, il digiuno, il pellegrinaggio, la frequente meditazione sui novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso. Certo, quella compattezza e quella coesione erano assicurate anche da una attenta sorveglianza e da una pronta repressione del nemico interno, l’eretico, il lupo travestito da agnello, e del nemico esterno, specialmente gli eserciti islamici che, dopo aver conquistato la Sicilia e la Penisola Iberica e, più tardi, spazzato via l’Impero bizantino, diedero l’assalto in grande stile, per nove secoli ininterrottamente, alla "fortezza Europa", tentando di distruggere il cristianesimo. Fra la battaglia di Poitiers, del 732, nella quale Carlo Martello salva la Francia, fermando gli Arabi, e quella del Kahlenberg, davanti alle mura di Vienna, del 1683, nella quale Giovanni Sobieski salva l’Austria e respinge le orde ottomane, l’Europa ebbe ben pochi momenti di pace e di respiro: dovette restare costantemente con le armi al piede, per difendersi e per difendere la sua fede. Anche se la cultura illuminista e volterriana ha tentato di convincerci che siamo stato noi Europei, per secoli, a insidiare e minacciare i "pacifici" musulmani.

Le vicende dell’Inquisizione vanno lette in quest’ottica, e così pure la cacciata dei marranos e dei moriscos dalla Spagna di Ferdinando il Cattolico e Isabella di Castiglia. L’uomo medievale, attaccato al valore primario della stabilità, non poteva tollerare coloro i quali, dal di dentro o dal di fuori, attentano deliberatamente ad essa, per sovvertire la pace, l’ordine, la giustizia, sulle quali si fondano le condizioni del vivere civile. Si suole presentare l’Inquisizione, ad esempio, come una odiosa tirannia che si sovrapponeva a delle popolazioni impaurite e tremebonde; ma questa è solo una parte della verità. Senza, con ciò, voler giustificare il suo operato repressivo — ma è questo il compito dello storico: giudicare? — la verità, tutt’intera, e non solo parziale, è che l’uomo medievale considerava il seminatore di discordie, religiose, civili, morali, come il peggior nemico del genere umano, e riteneva legittimo colpirlo con la massima severità Quanto ai marranos e ai moriscos, le autorità spagnole — dopo secoli di oppressione musulmana sulla loro terra — si erano persuase che, di quei "sudditi", non avrebbero mai potuto fidarsi; che essi non avrebbero cessato di complottare contro l’ordine costituito. Fu dunque tanto illogico pervenire alla decisione di espellerli?

Noi moderni ragioniamo in tutt’altro modo. Abbiamo acquisito l’idea delle libertà individuali e della tolleranza, dello Stato laico, del secolarismo, del pluralismo culturale. Ci piacerebbe godere anche della stabilità sociale e della pace interna, ma non siamo disposti a "reprimere" nessuno, neanche i peggiori nemici del vivere civile, e tanto meno a negare i "diritti" di chiunque, anche se il perseguimento cieco dei diritti individuali porta dritto alla dissoluzione del tessuto sociale. Insomma, vorremmo la moglie ubriaca e la botte piena: il nostro umanitarismo e il nostro pacifismo ci hanno resi imbelli e nemici di noi stessi; accordiamo clemenza e perdono ai criminali che si aggirano come lupi in mezzo al gregge, e così, per timore di far torto a un innocente, preferiamo lasciare in libertà migliaia di colpevoli. Il nostro stomaco si è fatto troppo delicato: fremiamo di orrore all’idea d’impugnare le armi per difenderci, e intanto neghiamo la realtà in nome di assurde e masochiste ideologie fondate sul senso di colpa e sul ricatto morale. Ci siamo scordati che la vita è lotta, e che lottare non significa fare un torto agli altri; semmai, rinunciare alla lotta equivale a fare un torto a noi stessi. Eppure, la cosa potrebbe ancora andare, se scaturisse da autentica mitezza e da una consapevole rinuncia all’orgoglio dell’Io; invece, questo atteggiamento nasce solo dalla nostra debolezza e dalla nostra cattiva coscienza.

Ma una società che ha per consiglieri la debolezza e la cattiva coscienza, e che si lascia ricattare in permanenza dai sensi di colpa, non è destinata a durare. Il suo tramonto è certo; la sua fine è vicina. Se è davvero questo che vogliamo, per noi e per i nostri figli e nipoti, allora benissimo: continuiamo pure lungo questa strada. E buona fortuna a tutti.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Biswajeet Mohanty from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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