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La matematica, per Fantappié, è scienza non solo dell’essere, ma del poter essere, cioè metafisica

Quella di Luigi Fantappié (nato a Viterbo il 15 settembre 1901 e morto, nella sua città natale, il 28 luglio 1956) è una figura tanto affascinante quanto poco conosciuta, specialmente dalle ultimissime generazioni, alle quali i divulgatori scientifici del politically correct si sono guardati bene dal presentarla ed illustrarla, come essa avrebbe meritato, forse per non turbare i placidi sonni di una cultura scientista e laicista sempre più chiusa, indurita e fossilizzata nella propria presunzione di essere la sola depositaria della verità, secondo i dogmi da lei stessa stabiliti, e ad esclusione di qualsiasi interpretazione di segno — horribile dictu — spiritualista o, addirittura, religioso.

Ci eravamo già occupati di lui in alcuni vecchi articoli (cfr. «Luigi Fantappié e l’altra idea della scienza», e «La scienza moderna è una degenerazione del vero concetto di scienza», pubblicati sul sito di Arianna Editrice il 10/12/2007 e il 19/12/2007, e recentemente ripubblicati su «Il Corriere delle Regioni»). Torniamo a parlare di lui perché la sua opera geniale e poderosa, stroncata da una morte prematura, per trombosi, all’età di cinquantacinque anni, ha molto da dire non solo nei contenuti specificamente fisici e matematici, che permettono di accostare il suo nome a quello di scienziati universalmente celebri, come Hartley, Einstein, Minkowski e Schrödinger, ma anche a livello filosofico: Fantappié, infatti, è stato uno dei pochi matematici del XX secolo che non hanno peso di vista la dimensione speculativa, di portata universale, della loro disciplina, e non l’hanno trattata come una forma di sapere a sé stante, quasi avulsa dall’universo complessivo del conoscere, tranne che per le ricadute e le possibili applicazioni di ordine tecnologico.

Così come, in quanto scienziato, Fantappié fu il sostenitore di una teoria unitaria ("sintropica") del mondo fisico e biologico, egli fu anche un vero matematico-umanista, perfettamente consapevole della connessione che lega ogni ramo del sapere e, in particolare, della necessità di condurre la ricerca matematica nella prospettiva, molto più ampia, di un sapere totale: egli non smarrì mai la consapevolezza — tramontata, in Occidente, dopo la stagione rinascimentale – che lo spirito specialistico non deve prendere il sopravvento sullo spirito di ricerca, il quale deve essere il più ampio possibile, perché la realtà, in ultima analisi, è una, e una deve essere la conoscenza, anche se, nel perseguirla, gli studiosi sono costretti, in un certo senso, a specializzarsi sempre di più. Ma guai a dimenticarsi che lo specialismo è solo e unicamente un mezzo, e non certo il fine o lo scopo, della ricerca stessa! Guai a dimenticare che la scienza non è fatta per gli specialisti, ma che gli scienziati si servono delle loro specializzazioni per contribuire, ciascuno nel proprio particolare ambito di ricerca, a delineare, migliorare e arricchire quel grandioso affresco della conoscenza umana, sempre provvisorio e sempre limitato e imperfetto, che si esprime nell’incessante e inesausto richiamo dello spirito scientifico, che è spirito di conoscenza e amore della verità.

Ecco: questo è stato, a nostro parere, il contributo più vivo e originale dell’opera di Luigi Fantappié, non alla matematica o alla fisica, in quanto scienze del particolare, ma alla visione ragionata e armoniosa del reale, che è l’obiettivo della vera filosofia: il perseguimento di un sapere sempre più ampio, sempre più bisognoso del coordinamento e della interrelazione fra i diversi rami della ricerca, e, nello stesso tempo, il chiaro senso del limite umano e la consapevolezza dell’esistenza di una realtà invisibile, non esperibile con i sensi, la quale, sola, è suscettibile di unificare veramente i diversi aspetti della realtà e di offrire all’uomo quella spiegazione totale dei fenomeni alla quale egli aspira, ma che non riuscirà mai a trovare in se stesso, fino a quando il suo orizzonte speculativo rimarrà ostinatamente chiuso in una prospettiva immanentista e materialista.

Riportiamo i passaggi finali del saggio del professor Zeno Pycha «L’origine del principio di causalità», apparso nel volume «Realtà e razionalità», (Udine, 1951; riportato in: «Quarant’anni del Liceo Scientifico "G. Marinelli", 1923-1963»Udine, Del Bianco, 1963, pp. 155-156 e 157-160):

«Per raggiungere la comprensione dell’esperito che continua a crescere coll’aumentare delle nostre esperienze, il pensiero si evolve verso concezioni sempre più larghe, aventi cioè sempre maggiore generalità, in modo da riuscire a comprendere con enti e relazioni precedenti. Questi enti e relazioni devono perciò sempre essere colti da tutte quelle esperienze che s’intendono considerare sotto un aspetto unico. Ma la comprensione dell’esperito non può essere raggiunta mediante idee o "essenze" aventi un’esistenza autosufficiente, vale a dire aventi un significato indipendente dal resto del reale, ma viene invece raggiunta mediante l’elaborazione dialettica di quel "tutto" problematico che si intende unificare con una veduta complessiva, alla quale il significato di ogni "parte" di quel "tutto" rimane subordinato. Perciò quest’inquadramento organico della realtà non può mai essere inteso come definitivo, perché coll’aumentare delle esperienze il "tutto" da considerare muta di prospettiva. Una nuova veduta complessiva deve quindi subentrare alla primitiva. Di conseguenza anche le singole parti del reale non possono avere un significato definitivo, ossia essere degli "universali" nel senso aristotelico-scolastico. Questo carattere di universalità non viene infatti ad essere conferito da un a priori del pensiero, ma a posteriori dal quadro complessivo della realtà esperita. Col crescere di questa attraverso nuove esperienze, il cosiddetto "universale" deve adattarsi ad una nuova prospettiva sintetica. In questa la sintesi primitiva non è radiata, ma rimane compresa come "figura logica con validità parziale". Quest’ultima circostanza spiega anche il fatto ben noto nella storia del pensiero scientifico, che le nuove concezioni non smentiscono del tutto le concezioni primitive, ma le superano per maggior validità. Questa viene precisamente apportata dall’arricchimento di significati che acquista il quadro della realtà complessiva mediante la sintesi fra le concezioni primitive e quelle ad esse contrastanti, sintesi in cui le nuove esperienze sopraggiunte vengono a trovarsi legate alle esperienze primitive da nuovi enti e relazioni, che conferiscono all’esperito complessivamente considerato una nuova figura logica. […]

A proposito di quest’evoluzione di idee nel pensiero scientifico L. Fantappié così si pronuncia: "Vediamo dunque che in fisica, dall’inizio del nostro secolo, si verifica questo fatto importantissimo che in due teorie centrali di tutta la fisica moderna, quali sono la teoria della relatività, teoria fondamentale del macrocosmo, e la meccanica ondulatoria, teoria fondamentale del microcosmo, la matematica non entra più soltanto in un secondo tempo per la sola precisazione quantitativa delle teorie stesse, ma entra invece fin dall’inizio, fornendo addirittura le nuove categorie filosofiche, i nuovi sistemi concettuali, assolutamente necessari per poter pensare senza contraddizione i fatti stessi che ne sono oggetto di studio" (L. Fantappié, "Il problema di Dio e la scienza moderna", Roma, 1949, pp. 121-22). Riguardo al principio di causalità, l’illustre scienziato dichiara che "… il principio di causalità (meccanica), categoria fondamentale della filosofia tradizionale, con cui si era fino allora costruita tutta la scienza, si presenta inadeguato e deve quindi sostituirsi per ottenere una rappresentazione razionale di questa parte dell’universo, con schemi logici che non sono più tratti dall’intuizione comune, o dall’ordinaria filosofia, ma invece da quel mondo matematico di cui abbiamo parlato nel numero precedente, e cioè usando come nuova categoria di pensiero, veramente più adeguata ed efficiente, la teoria degli operatori funzionali o un’altra delle teorie ad essa equivalenti. Con ciò più che una negazione del principio di causalità, come spesso si afferma erroneamente, ha luogo in realtà un suo sviluppo e perfezionamento, operato di matematici con queste nuove teorie (ibidem, p. 117).

Con queste parole il Fantappié più che interpretare la causalità semplicemente come qualcosa che conferisce l’intelligibilità all’esperito, intenderebbe ancorare questa stessa intelligibilità ad un razionalismo metafisico. Infatti egli, nello stesso lavoro, sostiene chiaramente un realismo logico: "La matematica oggi non si può più considerare come una scienza della natura, ma piuttosto come una vera e propria scienza metafisica, una vera e propria "ontologia" moderna, in quanto essa non si occupa più di proprietà, sia pur generali, ma astratte dei corpi concreti, come la "forma" o le "dimensioni" di questi corpi, ma studia invece "puri enti di ragione" (come la superficie di Veronese e tante altre meravigliose figure degli spazi a più di tre dimensioni, figure che non possono essere quindi astratte da nessun corpo concreto, visibili coi nostri occhi materiali), e in sostanza tutti quegli enti che sono logicamente possibili, nel senso che possono considerarsi insieme, nelle loro mutue relazioni, senza contraddizione. Poiché tutti gli enti effettivamente esistenti sono evidentemente possibili, è chiaro che essi rientrano quindi tutti nel dominio logico della matematica, la quale anzi si presenta come una scienza non solo dell’"essere", ma come una scienza, ancor più generale, di ciò che "può essere"

Ma noi vogliamo qui osservare che "una scienza di ciò che può essere" presuppone l’esistenza di categorie a priori, capaci di resistere perennemente al giuoco della dialettica della viva esperienza di pensiero. Soltanto allora il pensiero matematico potrebbe vivere in un mondo autosufficiente. Ma esso attinge invece quelle "formalità relazionali" che costituiscono la sua sostanza, da strutture conosciute attraverso l’elaborazione dialettica di ciò che abbiamo esperito in una attualità in continua evoluzione. Infatti, se così non fosse, la matematica non potrebbe essere una "scienza nella quale non si sa di che si parla, né se quel che si dice sia vero" (B. Russell). Perciò il pensiero matematico non può, come vorrebbe il Fantappié, essere un processo che si svolge in modo assolutamente indipendente dalla dialettica dell’esperienza di un’ontologia definitiva, vale a dire come processo metafisicamente condizionato ad un a priori. […]

Nella situazione attuale della scienza una cosa deve essere notata: la fede in un mondo "oggettivo",indipendente dall’osservatore, che ispirava la fisica classica, sembra irrimediabilmente scossa. Ciò non può sorprendere quando si tiene presente che ogni esperienza richiede un soggetto che la constati e la comprenda, e che quindi la figura logica dell’esperito rimane anche legata a volontari interventi attivi del soggetto nella realtà. Questa poi è nella sua vera concretezza un’incessante attualità, continuamente presente alla consapevolezza del soggetto.

Appare perciò anche chiaro che la conoscenza scientifica non può essere una semplice collezione di fatti, come intendono i positivisti, perché – come abbiamo osservato – i singoli fatti non sono intesi "per sé", ma traggono il loro significato da un tratto più o meno esteso dell’esperito, in cui essi entrano assieme ad altri fatti, ai quali rimane legata a loro comprensione: intendere i singoli fatti significa precisamente comprendere tutto quel tratto di cui essi fanno parte. In tale tratto ogni identità viene intesa per contrapposizione all’alterità, ogni concetto ha il suo significato legato agli altri in una organicità dialettica che si attua nella contrapposizione di significati in tutto quell’esperito che si considera coll’intenzione di capirci qualcosa. Così i fisici certamente non hanno eseguito le esperienze colla camera di Wilson, credendo di far progredire la conoscenza della natura con la semplice collezione o descrizione di atti da considerarsi isolatamente. Tali esperienze furono infatti eseguite partendo già da una "figura logica" trovata per la natura attraverso le esperienze fisiche del passato, con l’intenzione di verificarla, fin dove si regge, e di ampliarla o modificarla con nuove concezioni.»

Non siamo d’accordo con ciò che sostiene questo Autore, quando rimprovera al Fantappié, come fosse un errore concettuale, di aver immaginato il pensiero matematico come un processo che si svolge in modo indipendente dalla dialettica dell’esperienza e che è metafisicamente condizionato ad un a priori. Negare l’a priori del pensiero matematico, significa negare la possibilità stessa di un discorso matematico; e, a maggior ragione, negare che il discorso della matematica possa diventare significativo per una più ricca ed esaustiva conoscenza del reale. Al contrario, l’intuizione di Fantappié che nulla, in un certo senso, si sottrae alla speculazione matematica, perché la matematica è una riflessione su tutto ciò che, essendo logico, potrebbe esistere, e non solo su ciò che effettivamente esiste (ma quante cose, prima ignorate, si è scopeto che esistono, grazie ai progressi della ricerca, a cominciare dalla dimensione sub-atomica del mondo fisico?), è una intuizione notevolissima, che, da sola, gli merita un posto speciale nella storia del pensiero matematico e lo proietta ancora più oltre, verso le vette della filosofia pura (ambito nel quale, invece, il suo nome è pressoché ignorato da quell’altra categoria di "specialisti" che sono, appunto, gli storici della filosofia, al cui insindacabile giudizio bisogna affidarsi per sapere cosa è notevole, e cosa non lo è, nella evoluzione del pensiero matematico e scientifico).

Qui risiede la grandezza filosofica di Fantappié, che il Pycha ha bensì riconosciuto, ma, forse, non ben compreso: nell’avere visto come la matematica non sia più da considerarsi, alla luce dei suoi progressi più recenti (e pensiamo non solo alle ricadute della teoria della relatività, ma anche alla "scoperta" delle geometrie non euclidee, avvenuta quasi un secolo prima), come una scienza della natura, ma come una scienza metafisica, cioè come una vera e propria ontologia. Quello che al citato Autore pare un limite o un difetto, a noi sembra il segno della vera genialità della concezione di Fantappié: se la matematica moderna si pone come una vera e propria ontologia, allora è chiaro che essa ammette l’esistenza di un centro di gravità, di un punto focale, di un significato ultimo che trascendono la matematica in quanto scienza del particolare e presuppongono, invece, un "a priori", logico e ontologico, che ciascuno è libero di chiamare come preferisce, ma che è, nella sostanza, precisamente ciò che i filosofi dell’antichità e del Medioevo chiamavano l’Essere. La matematica, dunque, diviene una scienza sussidiaria della scienza dell’Essere, e, come tale, una scienza che rimanda oltre se stessa; mentre tanti, troppi matematici e scienziati moderni, continuano a guardare verso di essa, press’a poco, come coloro i quali scambiano il dito per la Luna e, invece di guardare la cosa indicata, guardano ciò che la mostra.

In definitiva, osserviamo che il progresso del sapere procede attraverso l’evoluzione delle idee; e, considerata l’origine storica del principio di causalità, appare sempre più inadeguata la concezione meccanicistica del reale, con la conseguente impossibilità di stabilire qualsiasi determinismo universale.

Ecco, allora, l’intuizione folgorante di Luigi Fantappié: se deve esistere una teoria unificata della realtà materiale, fisica e biologica, e se i mondi sub-atomici dischiudono singolari analogie fra microcosmo e macrocosmo, allora deve essere possibile individuare anche una teoria unificata del tutto, che comprenda la dimensione invisibile e non fisica, ma spirituale, del reale; e non solo il reale effettivamente esistente (ora), ma anche tutti i reali "possibili" (e futuri). La realtà, infatti, è solo la punta dell’iceberg, ossia la parte visibile del reale, quella che ricade sotto il dominio della scienza; ma Fantappié, uomo e studioso pervaso da un sentimento autenticamente e profondamente te religioso, ben comprendeva come sia puerile limitare lo sguardo sul reale alla sola dimensione visibile e fattuale (si pensi soltanto alla teoria degli universi paralleli: tutti possibili, perché logicamente coerenti e non contraddittorî); e come la scienza, di conseguenza, non possa pretendere di porsi come l’ultima parola di verità sul mondo, ma solo come un prezioso strumento di avviamento e approssimazione al Vero…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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