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7 Dicembre 2015Se nulla di ciò che vediamo, sperimentiamo, soffriamo, è indipendente dalla nostra coscienza; se nulla di ciò che esiste, giunge a noi per altra via che la nostra coscienza; se gli altri, gli amici e i nemici, i vicini e i lontani, il passato e il presente, non sono che funzioni, o prodotti, o elaborazioni della nostra coscienza: non dovremo dedurne che la vita è solamente un sogno e che essa, con tutto ciò che contiene, il bene e il male, il bello e il brutto, il vero e il falso, incomincia con la nostra coscienza e finisce con essa, senza che ci sia dato in alcun modo di sapere se alle nostre percezioni corrispondano degli oggetti reali o se si tratti di pure e semplici creazioni della nostra coscienza, fantasmi privi di consistenza fuori di noi, ed esistenti solo e unicamente in noi, che li pensiamo, e solo finché continuiamo a pensarli, o piuttosto a sognarli?
C’è tutto un filone del pensiero occidentale, che parte dalla caverna di Platone e arriva fino a Cartesio, Berkeley, Kant, Fichte, Gentile, che si è variamente affannato intorno a tale questione, e che, pur giungendo a conclusioni differenti, nondimeno ha mostrato quanto fragile sia la nostra credenza nell’esistenza di un "mondo" oggettivo, fuori di noi; a meno che esso non sia che il riflesso di un Pensiero a noi superiore, che pensa anche noi insieme ad esso, e che, pensandolo in noi, ce ne trasmette la percezione e, quindi, la credenza. E c’è tutto un filone del pensiero orientale, che parte dalla «Bhagavad-Gita», e pervade l’intera speculazione indiana attraverso la filosofia del Vedanta, per non parlare del Buddismo Theravada, secondo il quale non esiste qualcosa che corrisponda all’Io individuale, ma solo un aggregato momentaneo di pensieri, sensazioni ed operazioni mentali continuamente instabili, perché mutevoli. E che dire del Taoismo cinese e del dubbio radicale così bene espresso nel celeberrimo sogno di Chuang-tzu: «Una volta Chuang-tzu sognò di essere una farfalla. Era proprio una farfalla, che voleva felice sui fiori. A un tratto si svegliò e si ritrovò ad essere Chuang-tzu, gravato dalla forma. Tuttavia egli si domandava se fosse davvero Chuang-tzu, che aveva sognato di essere una farfalla, oppure se fosse una farfalla, che, in quel momento, stava sognando essere Chuang-tzu».
Non abbiamo certo la pretesa di risolvere, qui, un problema di così vasta portata, anche se abbiamo già trattato la questione, nonché passato al vaglio gli autori sopra citati, in parecchi dei nostri scritti; nondimeno, riteniamo che sia pressoché impossibile giungere a una decisione razionale assolutamente persuasiva e definitiva, sia in un senso che nell’altro, oggettivista o soggettivista, dal momento che nessun argomento, per quanto sottile e ingegnoso, riuscissimo ad escogitare, ci permetterà mai di dimostrare che sia possibile oltrepassare la barriera della coscienza individuale, attraverso il cui filtro niente e nessuno potrebbe mai evitare di passare. Ci interessa vedere, piuttosto, se l’esistenza di differenti convinzioni individuali riguardo alla oggettività del mondo esterno, ciascuna delle quali egualmente legittima, purché sostenuta da adeguati ragionamenti e non buttata lì in base a umori o "sensazioni" personali, rappresenti un ostacolo insuperabile per giungere alla formulazione di una conclusione condivisa riguardo all’atteggiamento complessivo che l’uomo è tenuto ad osservare nei confronti di codesto mondo "esterno": che esso sia oggettivo o soggettivo, che sia materiale o immateriale, che sia reale o illusorio.
In altre parole: cambia davvero qualcosa, vogliamo dire qualcosa di sostanziale, dal punto di vista pratico e morale, se formuliamo la ragionevole ipotesi che il mondo "fuori di noi" sia soggettivo, immateriale e illusorio, invece che oggettivo, materiale e reale? Oppure se giungiamo alla convinzione che esso sia, sì, soggettivo e immateriale, ma non irreale, anzi, estremamente reale (perché le cose possono essere immateriali, ma essere, al tempo stesso, quanto mai reali); oppure che sia materiale, ma non reale, simile, poniamo, ad una realtà virtuale, creata da un gigantesco computer cosmico, all’interno del quale, tuttavia, le cose sono pur sempre cose, i solidi sono pur sempre solidi, e sbattere contro un muro significa, pur sempre, sbattere contro un muro, provando le stesse identiche sensazioni e subendo gli stessi identici effetti (solo mentali o anche fisici, questo nessuno, a rigore, potrà mai affermarlo con assoluta certezza) che derivano dall’impatto con un muro vero e proprio, e non soltanto immaginato o sognato?
Così rifletteva Guido Capitolo, docente di filosofia e poi preside del Liceo Scientifico «Giovanni Marinelli» di Udine, nel suo saggio «La vita come sogno» (da: «Scritti inediti», in «Quarant’anni del Liceo Scientifico "Giovanni Marinelli", 1923-1963», Udine, Del Bianco, 1963, pp. 137-40):
«Narran le istorie che nell’antichità greca un certo Lica, per effetto di alterazione della mente, viveva una sua strana vita: gli pareva di essere continuamente a teatro e percepiva gli eventi del mondo come se fossero finzioni sceniche, tanto che non c’era per lui nulla di reale, ma tutto era spettacolo e divertente commedia. I medici riuscirono a guarirlo, ma non ebbero affatto la sua gratitudine: furono anzi citati in giudizio da Lica, che li accusava di averlo reso infelice, togliendogli la delizia di quella folle visione della vita.Non mi è stato possibile trovare traccia del processo e non so quindi come sia finita per quei medici, ma spero vivamente che sia stata pronunciata sentenza di assoluzione perché spero che i giudici abbiano compreso, sotto la guida di avvocati sapienti, che Lica era affetto, non da una malattia della mente su cui i medici potessero agire, ma da altra, più grave ed inguaribile malattia, che è la costituzione stessa della natura umana. Non si poteva in quei tempi invocare l’autorità di Cartesio, il quale per aver scoperto il "penso, dunque sono", aprì la strada alla riflessione che, in fondo, si ha testimonianza soltanto il proprio pensiero e quindi si è certi solo di una propria solitaria esistenza. Non si potevano neppure invocare l’"esse est percipi" del Berkeley, l’appercezione trascendentale del Kant, l’Io puro di Fichte e l’attualismo gentiliano, che, con leggere deviazioni, portano a concludere che tutta la realtà ha il suo centro in questo punto che è la coscienza individuale, fuori della quale non è possibile saltare e che irreparabilmente è con il soggetto empirico, unico testimone che non può testimoniare se non se stesso. Ma forse anche i giudici di allora potevano comprendere che questo mondo grande e terribile non è che un oggetto del mio pensiero, una serie di mie rappresentazioni che differiscono da quelle dei sogni solo per un certo colore, un’intensità e un ordine che è sempre il mio io personale a porre e ad interpretare.
Scrisse il Novalis che colui che riuscì ad alzare il velo della Dea di Sais "vide – miracolo dei miracoli – se stesso".Vedo me stesso non solo nel pesante ed immane mondo fisico, complesso di qualità sensibili e proiezioni della mente, ma vedo me stesso in tutti gli altri esseri viventi, uomini ed animali, amorevoli e feroci, che io solo esperimento e in me parlano ed agiscono, a me comunicano i loro pensieri, che sono i miei pensieri, lieti e tristi, felici ed infelici, a me favorevoli o contrastanti, avversi o benigni.
Chiuso in me stesso o in rapporto con quelli che chiamo "gli altri" non c’è che questa mia coscienza, che non so come sia sorta, perché non riesco ad afferrarla sua origine; la sento anzi fuori del tempo, concentrata in una attualità che non ha principio né fine. Invano "gli altri" urgono in me per testimoniarmi la loro esistenza indipendente, si affaticano a farmi sentire che non sono solo e mi feriscono, mi umiliano e mi contrastano perché tutto ciò non è che spettacolo del mio pensiero, in cui, anche quando non ci sono le rappresentazioni degli "altri", ci sono contrasti forse più drammatici, umiliazioni e ferite forse più dolorose. Neppure la morte, che mi toglie il fratello o l’amico, che mi sgomenta e mi umilia, riesce nella sua crudele apparizione a rompere questo cerchio chiuso in cui sono prigioniero. In quel cerchio è anche la morte, che invano respingo e che mi costa lacrime e rimpianti, non diversamente da come respingo altri pensieri ed altre esperienze: l’unico pensiero e l’unica esperienza che non potrò mai avere sarà la mia morte, mentre essa sola potrebbe salvarmi dalla solitudine e garantirmi che non vivo in un incantesimo, dove tutto è irreale. Non lo potrà giammai, perché se sopraggiungesse, non sarei io a pensarla e ad esperimentarla, ma quegli altri fantasmi, che invece solo in me pensano e solo in me si agitano.
Né mi salva la storia, perché gli eventi più remoti nel momento in cui li penso sono contemporanei, fanno parte della mia esperienza attuale, da cui non riesco ad uscire fuori, e Cesare e Napoleone, Alessandro il Macedone e le guerre del Peloponneso non sono che mie rappresentazioni di ora, che ordino in una successione temporale, che non esiste, come non esistono nelle pitture la distanza e il rilievo. Per quanti sforzi io faccia, non esco fori dalla mia foresta incantata! Potessi trovare una prova che mi permettesse di evadere dal mio io, che mi togliesse l’angoscia della responsabilità tutta mia dell’universo che contemplo e della storia di tutti gli eventi che mi rimordono! Ma la disperazione mi riassale quando penso che quella prova IO dovrei trovarla ed IO dovrei accettarla come convincente, riassorbendo in quel’istante stesso quell’universo e quella storia che da me vorrei respingere. Ma forse è meglio così: è meglio che io mi senta un mago infelice, prigioniero del mio stesso incantesimo e che io senta tutti gli esseri non disgiunti dal mio, responsabile di tutto il male e di tutto il dolore che travagliano il mondo, in cui non ha importanza se io sono una parte o se rappresento il tutto. Importante è che in questo mondo io mi senta immerso; non interessa che sia un mio sogno o che i fantasmi della mia mente siano copie di una realtà che continuerà ad esistere anche quando avrò cessato di sognare. Cosa può importarmi se il mio bambino che ho nelle braccia, che mi cerca e mi sorride sia soltanto una mia rappresentazione? Che io dorma o che io sia desto, egli è il mio bambino e come tale devo amarlo e devo rispettarlo, come devo amare e devo rispettare tutte le creature che io incontro in questa pazza vicenda che è la mia vita.
Forse è bene che qualche volta io senta la vita come "una follia inconfutabile", come è stata chiamata questa visione solipsistica del reale, se ciò può aiutarmi a non sentirmi indifferente di fronte alle crudeltà della storia, alle prepotenze che si compiono, alle ingiustizie che si ripetono e a tutto il dolore e a tutto il male che mi circondano. Sento gravare su di me, in questa folle e pur saggia visione, una tremenda responsabilità; non posso scrollare le spalle con l’egoistica affermazione che non è in mio potere intervenire e sentirmi giustificato moralmente. Su di me ricade la responsabilità di tutto e nessuna farisaica giustificazione è possibile: il male e il dolore che vedo nell’universo sono in me e a me spetta il compito di combatterli, saranno ombre, ma ombre che non riesco a non prendere sul serio, come le creature di un’opera d’arte, che è intera nella fantasia dell’artista, il quale è però impegnato in quell’opera come nel fine d tutta la sua vita e non ha pace finché la vede imperfetta e incompiuta. È forse nel momento stesso in cui ho rimorso della miseria di alcune mie rappresentazioni e sento, come un artista nei momenti infelici della creazione, che non è bello e non è giusto tutto ciò che si proietta sullo schermo infinito del mio io e questo sentimento si traduce in una reale volontà di aiuto ai deboli, agli oppressi e a tutti gli infelici che in me si muovono come le ombre sulla parete della caverna platonica, in me comincia a compiersi il miracolo di non sentirmi più solo: io sono con quelle ombre, care e dolci creature, a cui vorrei dare vita migliore; sono con tutte, meritevoli e immeritevoli, e tutte formiamo una vita sola, che non sappiamo dove ci conduce, che ci affanna, e ci sgomenta, che qualche volta ci appare insopportabile, ma che è la nostra unica ed irreparabile vita, che e insieme dobbiamo accettare perché insieme siamo prigionieri, in una unità di amore che ci viene dalla comune sventura.
È forse questo il senso del misterioso pensiero di Novalis: "siamo prossimi al risveglio quando sogniamo di sognare". Ed il risveglio non potrà più essere il ritorno alla illusione di quando sentivamo il mondo fuori di noi, massiccio ed indeformabile, al pari degli altri spiriti, a noi contrapposti o a noi indifferenti, il risveglio potrà essere quello di Sigismondo nella tragedia di Calderòn e la Barca "La vida es sueño", di colui che, trascinato dalla reggia alla caverna e dalla caverna alla reggia, non sa più quando sogna e quando è sveglio, non ha imparato che, sia pur la vita una illusione, un’ombra, una frenesia, sia pur verità o sogno, ciò che importa è sognare ed operare bene.»
Non vogliamo dire che l’approccio teoretico, gnoseologico, al problema del reale, sia indifferente in se stesso, ossia nell’ambito della speculazione pura, nell’ontologia e nella metafisica; bensì che potrebbe esserlo, dopotutto, rispetto alle conseguenze pratiche che siamo portati a trarne, nella concretezza della nostra vita. Per esempio, non comprendiamo e, probabilmente, non riusciremo mai a comprendere, come l’attualismo gentiliano, formulando un Pensiero che non si capisce da chi sia pensato, possa giungere, come afferma e pretende, alla percezione così viva e "calda" degli altri, da far sì che noi riusciamo ad immedesimarci in loro, nella loro vita, nei loro problemi, come invece, esplicitamente, Gentile pretendeva (cfr. il nostro recente articolo: «Se tutto il reale è pensiero, chi è che pensa?», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 30/11/2015). Tuttavia, torniamo a domandare: è proprio necessario dividersi in partiti e fazioni contrapposti, quando invece ci appare così necessario, e così urgente, definire, se possibile, una linea comune riguardo alle conclusioni pratiche, sul piano esistenziale, che ciascuna filosofia è orientata a trarre dalle proprie premesse speculative, visto che il "sogno" della vita, se pure è tale, coinvolge, nondimeno, tutti coloro che lo stanno sognando, nessuno escluso, e con la serietà estrema che ciascuno di noi può vedere e constatare ogni giorno, ogni ora?
Che la vita sia una cosa seria, ci pare difficile metterlo in dubbio: e tale serietà non esce diminuita neppure di una quantità infinitesima, qualora si ritenga che la vita stessa non sia altro che un "sogno", nel senso di una creazione soggettiva della mente che la pensa e la sperimenta, ossia della coscienza individuale. Tanto più che un siffatto "sogno" potrebbe essere pensato nella coscienza individuale dalla Mente divina, come sosteneva Berkeley, e, pertanto, essere tutt’altro che estemporaneo e capriccioso: potrebbe essere, al contrario, il prodotto di un Ordine divino stabilito prima che il "mondo" fosse (o s’immaginasse di essere: il che, in tal caso, sarebbe la stessa cosa); e c’è qualcuno che potrebbe mettere in dubbio la serietà di Dio? Certo; alcune filosofie orientali parlano del "mondo" come di un sogno, o meglio di un gioco, cosmico, sognato e giocato nella mente di Dio: "līlā" (cfr. il nostro vecchio articolo: «Il mondo è un gioco divino che l’Essere gioca nelle nostre menti», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 04/02/2010). Tuttavia, e fatta la tara alle difficoltà di traduzione dei concetti — e, ovviamente, delle parole – dell’Induismo in quelli della cultura europea, crediamo che nemmeno per siffatte filosofie si possa considerare un "gioco", nel senso comune dell’espressione, il dramma della vita individuale e di quella collettiva, chiamata storia, nel quale ad ogni istante si spezzano vite, si infrangono sogni, si calpestano desideri legittimi; mentre, dall’altro lato, si assiste così spesso all’apparente trionfo della cattiveria e della "matta bestialità" di dantesca memoria, tanto nella vicenda dei singoli che in quella dei popoli, delle nazioni e delle civiltà.
È possibile, dunque, assumere un atteggiamento comune nei confronti della serietà della vita, sia che la si consideri "vera", in tutto e per tutto, esattamente così come essa ci si manifesta, sia che la si consideri come il riflesso di un sogno, di un gioco divino, di un cosmico "līlā"? Crediamo di sì: preferiamo peccare per un eccesso di ottimismo, piuttosto che di pessimismo. Crediamo che tutte le persone di buona volontà possano riconoscere una tavola di valori universale, alla quale sentirsi obbligate ad attenersi, non per una forma d’imposizione esterna, ma per la libera scelta di restare fedeli alla propria umanità: vale a dire, per rifiutarsi di scadere ad un livello di esistenza al di sotto dell’umano. Il fatto che un simile obiettivo sia percepito — se pure viene posto — come troppo ambizioso e quasi irrealistico; oppure che esso venga immaginato, tutt’al più, in termini laicisti e, quindi, puramente immanentisti, la dice lunga su quanto sia avanzata in profondità la malattia del mondo moderno, che ha fatto perdere di vista agli uomini cose che, per le generazioni passate erano addirittura scontate, tanto esse apparivano chiare ed evidenti, oltre che assolutamente necessarie e irrinunciabili.
Le filosofie immanentiste, negatrici del mistero e del senso del limite, non potranno mai elaborare una simile tavola dei valori, se non altro perché il loro destino inevitabile è il relativismo, e dal relativismo non si può uscire per stabilire dei valori universali. Una civiltà relativista non sarà mai universale: o meglio, non sarà mai una civiltà, ma solo un manicomio e una anticamera dell’Inferno.
I valori implicano la trascendenza, perché solo questa può rendere conto della serietà della vita. Se la vita fosse solo il sogno di una mente individuale, nulla e nessuno ci redimerebbe dalla sua follia: e allora avrebbe amaramente ragione Pirandello di pensare che tutto è solo una assurda pupazzata…
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