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Anche negli studi su Odorico da Pordenone aleggia un massonico odor di bruciato

Chi entra nella Chiesa della Madonna del Carmine, a Udine, presso l’antica e merlata Porta Aquileia, troverà, nella cappella a sinistra dell’edificio, una autentica meraviglia della scultura medievale, ricostruita nel 1930: l’arca tombale del beato Odorico da Pordenone (nato Mattiussi o Mattiuzzi, fra il 1265 e il 1270, e morto nel 1313: pressoché coetaneo di Dante Alighieri, dunque), l’illustre frate francescano del quale è in corso, fin dal 1755, il processo di canonizzazione.

Odorico da Pordenone è stato, oltre che un uomo di Chiesa dalle eccezionali virtù cristiane, anche uno straordinario viaggiatore: di pochi anni più giovane di Marco Polo, nel 1318 partì missionario per l’Oriente, raggiunse Bombay, in gran parte per via di terra, indi si imbarcò su una nave e, toccando Ceylon e Canton, giunse a Pechino, alla corte di un nipote di Kublai Khan, chiamato Yesür Temur. Il viaggio era durato da quattro a cinque anni e avevo portato questo religioso friulano nel numero ristrettissimo degli Europei che, attraversando con indomito coraggio le immense distanze fra l’Antico continente e l’estremità orientale dell’Asia, giunsero a vedere la capitale dei Mongoli, a frequentarne la corte e ad accumulare una immensa mole di dati e informazioni sui popoli, sui prodotti, sulle città, sulle piante e sugli animali di terre che erano ancora quasi inesplorate e avvolte in un alone di mistero e di leggenda.

Il viaggio di ritorno, dopo tre anni di soggiorno nella capitale, fu ancora più avventuroso e ancora più affascinante dal punto di vista geografico ed etnologico (come diremmo oggi): infatti si svolse per via di terra e si discostò alquanto dalla "normale" via della seta, deviò verso il Tibet e condusse l’ardimentoso francescano a penetrare, primo fra i bianchi, nella città santa di Lhasa. Da lì, attraverso la Persia e l’Armenia, Odorico arrivò a Trebisonda, sulla costa del Mar Nero, e rientrò a Venezia a bordo di una nave veneziana. Portatosi a Padova, ebbe dal suo superiore, che si rese conto dell’importanza di quel viaggio, il compito di farne la relazione: e così egli dettò le sue memorie a un confratello bassanese, Guglielmo di Solagna.

Il fondatore delle missioni cattoliche in Cina, l’arcivescovo Giovanni da Montecorvino, lui pure membro dell’Ordine francescano – che era giunto a Pechino nel 1294 subito dopo la morte di Kublai Khan ed era entrato poi nelle simpatie del suo successore, Temür Khan, trattenendosi alla sua corte per molti anni (11 dei quali come unico sacerdote cristiano) — aveva ottenuto l’invio di alcuni confratelli dall’Europa e si proponeva di battere il ferro caldo, persuadendo il pontefice, il francese Clemente V, della necessità di implementare le missioni in Estremo Oriente. Il momento era favorevole, perché, con l’avvento della "pax mongolica", pareva non solo che i Turchi avessero trovato una forza capace di tenerli a freno, se non anche di spazzarli via; ma che i Khan mongoli fossero disponibili, se non a convertirsi essi stessi, quanto meno a tollerare, forse anche a favorire, una cristianizzazione graduale del loro immenso impero.

Fu per questa ragione che Giovanni da Montecorvino formulò la richiesta che Odorico da Pordenone si recasse presso la Curia papale, che allora si trovava ad Avignone, per esporre direttamente a voce i risultati del suo viaggio e le condizioni della missione cinese, sollecitando l’invio di altri religiosi. Odorico, obbediente, si mise in viaggio, anche se le sue condizioni di salute non dovevano essere molto buone; e così quest’uomo, che aveva percorso un ventimila chilometri nel cuore dell’Asia, non riuscì a raggiungere Avignone e, malato, si vide costretto a tornare al suo convento di Udine, ove terminò la sua vita terrena e venne sepolto, il 14 gennaio 1313.

Più tardi le sue spoglie mortali vennero deposte nella meravigliosa arca di marmo bianco venato, poggiata su quattro colonne con capitello figurato, che si può ammirare, ancora oggi, nella Chiesa udinese del Carmine, con i bassorilievi che la impreziosiscono, opera di Filippo De Santi o De Santis, tagliapietre e scultore, forse veneziano, ma influenzato dall’arte toscana, eseguita nel 1332. Sui due lati lunghi, si possono vedere il beato, deposto da due angeli su un lenzuolo, sulla faccia anteriore, e lo stesso che predica ai fedeli, su quella posteriore; agli angoli, una Annunciazione e le statue di Ludovico da Tolosa e Nicola da Cosentino.

Ebbene: così come nel caso di Marco Polo, anche per Odorico da Pordenone esiste una nutrita schiera di storici, quasi tutti del Nord Europa, quasi tutti protestanti o massoni, quasi tutti animati da un fortissimo pregiudizio anticattolico, mirante a screditare del tutto la figura e l’opera di Odorico da Pordenone; a sostenere che il frate friulano non giunse mai in Cina, anzi, che non viaggiò affatto in Oriente; che si limitò a scrivere di cose viste e udite da altri, prendendo in giro i suoi lettori e facendo loro credere tutto quel che volle, senza alcun fondamento di verità: insomma, che fu un impostore e un ciarlatano, al cento per cento; o, nel migliore dei casi, un pio frate che la perfida Chiesa cattolica manipolò a suo piacere per servirsene in funzione auto-celebrativa. Sarebbe cosa troppo lunga e complessa vedere, nei dettagli, su quali argomenti si regga una simile critica, che è puramente ideologica e anticattolica, anche se non osa proclamarsi apertamente tale; ma si nasconde dietro il paravento della "scienza", per smontare il racconto di Odorico da Pordenone, e dare l’impressione che esso non merita neanche di essere preso sul serio. E c’è un solo termine adatto per definire un simile atteggiamento, assunto non da un autore isolato, ma da parecchi, nel corso dei secoli — a partire dall’Illuminismo, guarda caso, il movimento anticristiano e massonico per eccellenza — e fino ai nostri giorni: cioè complotto. Il tutto, mentre i crimini e le intolleranze protestanti vengono bellamente passati sotto silenzio (cfr., ad es., il nostro articolo: «Quando nell’Inghilterra "riformata" frati e preti cattolici venivano squartati vivi», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 18/01/2012 e ripubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 09/11/2014.

Affinché il lettore possa farsi una propria idea circa la questione odoriciana, riportiamo alcuni passaggi di un pioniere degli studi su Odorico da Pordenone, cui si era dedicato fin dal 1965: Giulio Cesare Testa, nel suo saggio «Il vero Catai rivelato da Odorico» (nel volume miscellaneo: «Colloquia medievalia pragensia», Praga, Petr Sommer, 2008, pp. 27-28):

«Si apre il corteo [dei denigratori] con Astley, che nel Settecento ha inteso pavesare le lettere britanniche di un sir John "padre della prosa inglese" [il sedicente John Mandeville, autore di un libro di viaggi che circolò in Inghilterra fra il 1357 e il 1371 e fu creduto autentico per un paio di secoli, prima di rivelarsi del tutto inventato] e già per questo "superiore" a Odorico. L’opera del Beato è invece "una relazione molto superficiale, e zeppa dio fandonie", mentre il suo autore "un gran bugiardo" dal momento che "non è mai stato in quei paesi ma ha gabellato al pubblico le poche notizie avute da altre, frammiste a molte sue invenzioni". Meno di cent’anni dopo, invece, dilagavano i dubbi sull’opera e sull’esistenza stessa del plagiario, e si svelavano senza pietà i sacchi da cui era uscita la farina che aveva spacciato per sua. L’Ottocento vede in netta crescita l’interesse e i consensi per il Beato, quanto rimane delle sue osservazioni non aggiunge nulla alle conoscenze dei suoi predecessori". Dalla Cina li rintuzza ora Gu che pone Odorico tra le fonti fondamentali nella storia della Chiesa d’Oriente. E in Italia Menestò giudica oggi la "Relatio" "assolutamente esemplare e d’importanza imparagonabile", grazie a "un testo ricchissimo di notizie geografiche, economiche, etnologiche assolutamente verosimili e di grande importanza, perché rivelate per la prima volta al mondo occidentale".

Ciò malgrado, il credito di Mandeville tra i britannici ha un ritorno di fiamma nel 1968 grazie a Moorman, categorico nel preferirlo a un Odorico "turista e gran raconteur", poiché "molto di ciò che narra è francamente di seconda mano". Peggio ancora – ed è l’unico a rivelarlo — "si sa che certe sue notizie sono tratte da libri-guida dell’epoca". Un Odorico condizionato dalle letture se lo figura pure Wittkover sostenendo che molti viaggiatori medioevali "conoscevano i classici e avevano letto le loro brave enciclopedie cristiane, i trattati di scienze naturali, i romanzi cavallereschi, e osservato sulle carte quei meravigliosi paesi che si accingevano a raggiungere". Come non invidiare allora la biblioteca del conventino di Udine? Sarebbe comunque proprio quel suo "fantasioso resoconto" a smascherare le frottole del frate, com’è accaduto ad altri che "finsero di avere visto quelle meraviglie". Scordandosi però che Pollard mezzo secolo prima aveva già ammonito: "Chiunque raffronti Odorico con i Viaggi di Mandeville vedrà come questo compilatore ha usato i suoi materiali, e come questi siano di per sé interessantissimi".

In Italia Ginzburg è andato a martellare l’Inquisizione proprio a Udine, dove Odorico è sepolto e monumentato. Stranamente però, malgrado il meticoloso rastrellamento nell’archivio arcivescovile, il frate friulano vi risulta un autentico "desaparecido", mentre il falsario inglese ne esce trasfigurato da "man of letters" che "registrava realtà o credenze esotiche", e largiva la sua "innocente narrazione" come "un’eco della tolleranza religiosa medievale". Ai "Travels" si riferiva infatti proprio l’eroe del "repêchage, un saccente mangiapreti finito sul rogo nel 1599 (terzo e ultimo quell’anno in Friuli, quando da decenni in Inghilterra, patria putativa del preteso "innocente", imperversava la mattanza di migliaia di cattolici). Qui invece la recidiva d’empietà e blasfemia gli vale la laurea a filosofo proletario e la palma di martire del pensiero. Senza alcun imbarazzo filologico nel dover occultare — come allora fu fatto allo sventurato, magari per pietà — la vera fonte de suo sapere. Non già l laicismo presunto del "dandy" sfottitore di papisti, bensì, per grottesco paradosso, il cattolicismo "vissuto" di un ruvido co,paesano, il lascito devoto ch’era stato carpito con destrezza all’umile "furlano" il quale non solo era credente ma addirittura frate, missionario e pure beato.

Ancora da sinistra Le Goff disapprova, nella paludata "Storia d’Italia" dell’editore Einaudi (noto fiancheggiatore del comunismo italiano), i missionari di "un Vangelo che non interessa affatto i pagani, e ben presto li irrita". Ma non fa una parola della stima con cui invece il sovrano di quegli stessi pagani ospitava gli evangelizzatori Montecorvino, Odorico, Andrea, e Marignolli. La reticenza contagia altri storici dell’organigramma, solidali nel tacitare Odorico (Antonelli-Bianchini, Bologna, Cardona), e per Zoli i viaggiatori videro "le novità anche fantastiche di quel mondo con gli occhi degli antichi". Pure nel Catai! Renucci arriva a precisare che "le relazioni di viaggio, eccettuato Marco Polo, sono dovute a toscani", e fa scomparire Odorico e Montecorvino, due frati in un colpo. Soltanto Battaglia Ricci cita il Beato, in cui però fiuta "l’arsenale consueti del viaggiatore medievale (…) onde assicurare al proprio racconto uno standard di credibilità". Il defilé della maison torinese si chiude con Perini: Mandeville torna alla ribalta come solerte "raccoglitore" cui si deve, fra gli altri meriti, lo scoop di una beata plaga d’Oriente "fondata sul comunismo agricolo".

Il coro dei coscritti sembra sincronizzato su certo zelo, per non parlare di strategia aziendale, nell’eludere un intero filone di fonti come la "Relatio". Cosicché nella patria del beato fanno scuola storici, cattedratici e accademici, anche di grido, che però si piegano a raccattare le fandonie del suo famigerato plagiario. Non certo per ignoranza, bensì per il precetto ideologico-laicista di liquidare l’opera di Odorico perché indigesta all’establishment culturale, magari fino a rimuovere la sua stessa figura dalla storia, come unicona devozionale di cui la cultura laica può fare tranquillamente a meno. Purtroppo la prassi della disinformazione finisce per giovare alla moneta falsa, e concorre a scacciare quella buona al punto che, come apertamente già Tucci deplorava, ornai certi "comparatisti di testi giungono ad accusare di plagio proprio lui e non il mistificatore".»

L’Autore è stato chiarissimo. John Moorman (un vescovo, ma anglicano!), Rudolf Wittkover, (uno storico dell’arte; ma tutto fa brodo), Leone Ginzburg (figlio di cotanti genitori: Leone e Natalia), Jacques Le Goff: tutti autori ideologicamente schierati da una certa parte della barricata; tutti autori (ed editori) che, da tempo, perseguono, come Votaire e Gibbbon tre secoli fa, una ben precisa politica di irrisione, denigrazione e falsificazione sistematica del "nemico". Eppure, tutti acclamati e riveriti, tutti tenuti in gran conto nei migliori salotti della cultura internazionale. Anche se, nel formulare i loro giudizi e le loro tesi, non si fanno troppi scrupoli a manovrare i fatti a piacer loro…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Biswajeet Mohanty from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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