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29 Novembre 2015Enrico Mattei è stato una meteora nella storia italiana recente: l’importanza della sua opera è stata così grande che difficilmente potrebbe essere sopravvalutata; ed è stato, allo stesso tempo, una figura quanto mai anomala, un imprenditore sorto dal nulla, un geniale dirigente pubblico, un autentico patriota, nel senso più profondo del termine, talmente innamorato del suo Paese, da sfidare il mondo intero per assicurargli un margine crescente di autonomia energetica, presupposto indispensabile per l’autonomia economia e, quindi, politica. Seguace di Machiavelli, non guardava tanto per il sottile nell’uso dei mezzi: comprava giornali così come cercava di comprare partiti; eppure era anche un puritano, un moralista rigoroso nella sfera privata, al punto da regalare tutto il suo stipendio ad un orfanatrofio.
Quando mai si riuscirebbe a trovare un uomo del genere, nell’economia e nella politica dell’Italia odierna? Nemmeno a cercarlo con il lanternino di Diogene; e nemmeno ai suoi tempi, per la verità — quando pure il livello etico della vita pubblica italiana era tanto più alto, e questo è indubbio -, doveva essere cosa tanto facile. Mattei è stato unico: unico nelle sue intuizioni straordinarie, che gli hanno permesso di trovare enormi giacimenti di metano nella Pianura Padana; unico nel suo coraggio d’imprenditore e di stratega "politico": in fondo, il più grande politico che l’Italia abbia avuto nella seconda metà del Novecento, anche se, paradosso supremo, non era un politico e della politica si serviva, ma senza mai permetterle di servirsi di lui. Giocava con le carte sue, di un mazzo nuovo: non si fidava, e a ragione, di nessuno, tranne che di se stesso; perché in tutta Italia non solo non c’era nessuno capace di stargli alla pari, ma neppure nessuno capace di comprenderlo veramente. C’è un autentico abisso fra lui e gli uomini politici, anche i più grandi, del suo tempo (quando morì, nel 1962, in quel misterioso incidente aereo, De Gasperi era uscito di scena da una decina d’anni), per non parlare dei maggiori imprenditori e dei banchieri. Egli viaggiava, letteralmente, in un’altra dimensione.
Non è che vogliamo gonfiarlo, magnificarlo, divinizzarlo. Aveva dei gravi difetti e, soprattutto, si muoveva sul filo di una costante, pericolosissima ambiguità: non si gioca col fuoco senza scottarsi le dita; non si ricorre alla corruzione politica senza risentirne, anche se le intenzioni sono buone e anche se, personalmente, si è integerrimi. Però era un cavallo di razza: un genio in un mondo di mediocri, di conformisti, di furbastri. In fondo, era semplicemente un imprenditore e un dirigente pubblico dalle grandi capacità, che si era fatto da sé (era figlio di un carabiniere), che pensava in grande, che non si scoraggiava mai, davanti a nulla e a nessuno: un uomo che nei Paesi "normali" avrebbe fatto una onesta carriera e avrebbe potuto giocarsi la partita con altri uomini del suo livello, magari in veste di avversari, sia imprenditoriali, sia politici, però degni di lui; e che avrebbe visto riconosciuti i suoi meriti, forse, ma che certamente avrebbe trovato le strade per svolgere al meglio la sua azione, per reperire i mezzi necessari a condurre la sua strategia di sovranità nazionale. Nei Paesi "normali", un uomo come Mattei trova sicuramente dei nemici, ma anche settori dello Stato che lo sanno apprezzare, valorizzare e mettere in condizione di procedere al servizio dell’interesse comune, del pubblico bene. In un Paese come il nostro, Mattei si è trovato solo; ha dovuto procedere costantemente in salita; ha dovuto scendere a compromessi e a operazioni estremamente disinvolte per poter fare il bene pubblico, non il suo interesse privato.
Questa è la grande, incolmabile anomalia dell’Italia: che gli uomini come Mattei non li sa utilizzare, danno fastidio, sono troppo bravi, suscitano troppe gelosie, e perciò vengono bloccati, trasferiti, rimossi, perché smuovono le acque stagnanti della palude, dove tanti ranocchi altro non chiedono di poter diguazzare in santa pace, a spese del pubblico interesse. Oppure vengono ammazzati, magari in maniera così abile da far sembrare che il loro assassinio sia stato un fatale incidente. Il dubbio resta e resterà per sempre, però le prove non salteranno mai fuori. E i ranocchi che imperano nella palude se ne infischiano dei sospetti, della cattiva reputazione, perfino del disonore: hanno quattro dita di pelo sullo stomaco, non si turbano per così poco. L’opinione pubblica può pensare quel che vuole: l’importante è che le inchieste non si facciano, o, se si fanno, che vengano debitamente insabbiate., prima che qualche nome eccellente salti fuori. I ranocchi sono pieni di complici, di amici e di amici degli amici, di servitori, di spie, di calunniatori di professione, di depistatori a tempo pieno: se la intendono a meraviglia con la Massoneria, con la politica, con le banche, con le grandi imprese, e più ancora coi poteri forti internazionali
Nel caso di Enrico Mattei, lo si sa benissimo, i sospetti più pesanti ricadono sulle Sette Sorelle, che lui aveva coraggiosamente sfidato. Su questo non possono esserci dubbi: era un guanto della sfida, quello da lui lanciato alle multinazionali petrolifere statunitensi; al punto che Amintore Fanfani e i suoi amici della sinistra democristiana, come Giorgio La Pira (ma aveva davvero degli amici, Enrico Mattei?), dovettero inventare una espressione quanto mai stravagante, "neoatlantismo", per mascherare la realtà effettiva della politica energetica perseguita da Enrico Mattei: un vero e proprio sganciamento dalla linea statunitense e una progressiva conquista di autonomia dell’Italia non solo economica, ma, in ultima analisi, anche politica. Il fatto che poco dopo la sua tragica morte, il suo ex braccio destro alla guida dell’E.N.I., Eugenio Cefis, che lui stesso aveva costretto a dimettersi perché aveva scoperto che era un uomo della C.I.A., venne reintegrato come vicepresidente e ne divenne poi presidente, ci sembra più che eloquente; così come è eloquente il fatto che su Cefis non sia mai stata aperta ufficialmente alcuna inchiesta. Ma l’Italia, si sa, è il Paese dei misteri, e quello della fine di Mattei, in fondo, è solo uno della lunga serie.
Così ricordava la statura dell’uomo e la gravità delle conseguenze della sua scomparsa una intelligente giornalista tedesca della «Süddeutsche Zeitung» di Monaco di Baviera, Hanne Krammer, sul numero del 29 ottobre 1962, in un articolo intitolato «L’Italia ha perduto uno dei suoi uomini più potenti» (riportato nel vol. XXVI della mitica raccolta «Stampa e oro» de «Il Gatto Selvatico», intitolato «La vetta»e interamente dedicato alla figura di Enrico Mattei, Roma, 1963, 509-511):
«Roma, 20 ottobre [1962; ma deve trattarsi di un errore per "29 ottobre"; l’aero di Mattei cadde il 27 ottobre]. Non si sa ancora perché il re del petrolio" italiano, Enrico Mattei, sia precipitato con il suo modernissimo aereo privato sia precipitato in un paludoso campo di riso a pochi chilometri di Milano. Solo le indagini ufficiali stabiliranno se l’uomo che disponeva di milioni di tonnellate di petrolio si sia trovato effettivamente senza carburante, se si sia trattato di un guasto tecnico al motore o di un attentato. In verità al capo della holding statale italiana, dalle imprese a raggio mondiale, i nemici non mancavano; ancora pochi mesi or sono gli estremista francesi dell’OAS lo avevano minacciato di morte se avesse continuato a sostenere l’FNL algerino. Anche i neofascisti italiani vedevano in lui il loro principale nemico.
Ma in questo momento l’ipotesi di un attentato appare per lo meno discutibile [invece sarà confermata, e sia pure moltissimi anni dopo, da una in chiesta che nel 2003, pur chiedendo l’archiviazione per i mandanti e gli esecutori, stabilirà definitivamente che l’aereo venne distrutto in maniera dolosa].
Enrico Mattei era uno degli uomini più potenti d’Italia. I suoi ammiratori gli attribuivano un ruolo di primo piano nel "miracolo italiano"; i suoi nemici temevano che fosse diventato ormai troppo influente e che il suo influsso sulla politica fosse ormai maggiore di quanto una democrazia possa permettere. Egli venne al mondo il 29 aprile 1906 in un remoto villaggio delle Marche, figlio, altri quattro, di un maresciallo dei Carabinieri. Da giovane, Mattei fu un convinto fascista. Una delle non poche leggende che si annodano alla storia del suo successo vuole che una volta egli abbia strappato completamente la barba ad un esponente socialista. Ma dopo l’entrata in guerra dell’Italia egli divenne antifascista. Si unì ai partigiani cattolici n e nelle loro file arrivò rapidamente ad un posto di comando. Quando la guerra fu finita egli ottenne dal nuovo governo italiano l’incarico di liquidare l’AGIP, una società petrolifero fonata da Mussolini nel 1926 e che era sempre solo costata danaro.
La vendita dell’AGIP doveva fruttare quattro o cinque milioni di marchi. Ma quanto più pressantemente Roma chiedeva quando l’azienda sarebbe stata sciolta, tanto più caparbio si mostrava Mattei. Egli inseguiva segretamente l’antico sogno di reperire del petrolio nella pianura Padana. A dire il vero non lo trovò, ma nel marzo del 1946 trovò invece qualcos’altro: enormi giacimenti di metano. Mattei sfruttò il tesoro insperato in un tempo lampo. Costruì metanodotti nelle zone industriali, all’occorrenza anche di notte, e contro la volontà dei proprietari dei terreni, sotto la scorta dei suoi amici partigiani. Allacciò due milioni e mezzo di consumatori privati alla sua rete di distribuzione. Senza di lui l’Italia oggi dovrebbe importare cinque milioni di tonnellate di carbone in più.
Mattei non si accontentò di questo. Nel 1953 costituì l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), una società che incominciò ad occuparsi di petrolio e di carburanti d’ogni genere. Egli incominciò la sua battaglia contro le "sette sorelle, le sette compagnie petrolifere più importanti del mondo (Esso, Shell, B. P., Texaco, Gulf Oil, Caltex, Mobil Oil). Il primo colpo contro il monopolio mondiale delle sette sorelle gli riuscì in Iran. Egli offrì ai governi il 75 per cento invece della ripartizioni in parti uguali (50 e 50) che si era usata fino ad allora. Così poté metter piede in Egitto, in Marocco ed in Tunisia. Egli si considerava sempre come una specie di Davide in lotta contro i Golia dei cartelli petroliferi, ma quando nel 1958 concluse un contratto con l’URSS per una fornitura di milioni di tonnellate di petrolio grezzo in cambio di gomma e di attrezzature tecniche per l’estrazione del petrolio, le ditte concorrenti lo accusarono chiamandolo "traditore dell’Occidente".
Ma Enrico Mattei non si scompose. Cominciò a costruire raffinerie ed oleodotti (quello tra Genova ed Ingolstadt, per esempio), acquistò fabbriche chimiche, creò presso Milano un centro amministrativo e di ricerca scientifica, organizzò una flotta di navi cisterna. L’originale serraglio dei suoi marchi di fabbrica — un lupo a sei zampe che lancia fiamme, per la benzina, una serpe, per l’olio lubrificante, un gatto verde scuro, per il metano — marciava senza sosta al di là delle Alpi avanzando verso il Nord. In Italia, l’AGIP ha costruito quasi diecimila stazioni di servizio, di cui molte abbinate a motels accoglienti.
Quest’uomo alto e snello riuniva in sé molteplici contraddizioni. I comunisti lo accolsero come il pioniere della statalizzazione. Egli però dirigeva le imprese statali secondo i concetti caratteristici dell’economia privata. Egli, che era personalmente un cattolico osservante, apparteneva all’ala sinistra della Democrazia Cristiana e l’apertura a sinistra — l’avvento dei socialisti di Nenni al governo — viene attribuita alla sua iniziativa. Regalava regolarmente il proprio stipendio ad un orfanotrofio; non poteva essere sostituito che con un decreto del Presidente della Repubblica. I suoi nemici lo accusavano di voler corrompere la stampa con le somme colossali con cui finanziava le proprie inserzioni. Egli aveva il proprio quotidiano ("Il Giorno" di Milano) e dominava magistralmente la tastiera delle relazioni pubbliche.
Era uno degli uomini più dinamici d’Italia. Le conseguenze della sua morte sono incalcolabili.»
La lezione della parabola di Enrico Mattei e della sua improvvisa e misteriosa scomparsa non è stata appresa in tutta la sua importanza. Essa suggerisce e conferma il sospetto che l’Italia sia un Paese nel quale esistono dei poteri occulti, i quali, ben lungi dal perseguire l’interesse generale, esercitano tutta la loro influenza per ostacolare e, se necessario, eliminare chi si impegni seriamente per servire lo Stato e il pubblico bene. Si tratta di una rete vischiosa, ramificata, onnipresente, alla quale non sfugge nulla, e che impone al Paese il mantenimento di una classe di politici, di funzionari e di amministratori pubblici estremamente mediocri, perché, se tali non fossero, si rivolgerebbero contro di essa. Questo è il nodo fondamentale che impedisce all’Italia di essere un Paese normale, e di sfruttare a fondo le sue grandi possibilità. Contro questa piovra ha lottato Enrico Mattei; e ha perso.
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