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La politica di Ottone I in Italia nella prospettiva storica di Giacinto Romano

Giacinto Romano, nato a Eboli (in provincia di Salerno) nel 1854 e morto a Milano nel 1920, è stato uno dei nostri massimi medievalisti, all’interno di quella ricca stagione storiografica italiana che, tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, si è illustrata per una fioritura di studi innovativi a parte di storici del calibro di Pasquale Villari e Gaetano Salvemini, nonché di filosofi come Benedetto Croce e Giovanni Gentile.

Tra le opere di Giacinto Romano — uno studioso che si è mostrato particolarmente attento alla nascita e allo sviluppo delle signorie come premessa dell’unità d’Italia, si segnala una monografia, oggi pressoché dimenticata, su «Le dominazioni barbariche in Italia»: in pratica un grandioso affresco della storia d’Italia, che va dalla divisione fra l’Impero Romano d’Oriente e quello d’Occidente, avvenuta alla morte di Teodosio, nel 395, fino alla morte di Enrico II, re di Germania e imperatore, nel 1002, che segna, in pratica, l’estinzione anche giuridica del regno d’Italia quale entità politica autonoma.

In questa vasta opera, Romano descrive la politica di Ottone I in Italia come favorevole ai vescovi e alla Chiesa: una interpretazione piuttosto tradizionale, specie da parte di chi, come l’autore, si poneva in un’ottica, se non proprio "ghibellina" (egli fu un grande ammiratore dell’imperatore Federico II, proprio per i caratteri di "laicità" e di "modernità" della sua politica), certo assai critica nei confronti della Chiesa medievale o, per dir meglio, del ruolo da essa svolto a livello politico, che ostacolava fortemente e ritardava, quanto più possibile, la formazione di una monarchia nazionale; interpretazione che ha illustri predecessori, primi fra tutti Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini, e che oggi è ormai talmente diffusa, da rappresentare quasi la "versione" ufficiale della storiografia politicamente corretta.

Ne riportiamo alcuni passaggi fondamentali, per poi svolgere qualche riflessione in proposito (da: G. Romano, «Le dominazioni barbariche in Italia», Milano, Francesco Vallardi Editore, 1909, pp. 703-04):

«Quando Ottone conquistò il regno italico, le chiese o erano già divenute o s’avviavano a divenire signorie politiche. Prescindendo dalla gratitudine che egli doveva sentire verso coloro che lo avevano chiamato e a cui specialmente doveva il suo innalzamento, sarebbe stato poco meno che impossibile disfare l’opera del tempo e distruggere uno stato di cose, che aveva già messo forti radici nel paese. D’altra parte, l’uomo, che in Germania innalzava e favoriva i vescovi per difendere l’unità del governo contro le usurpazioni dei duchi, non poteva seguire in Italia una politica diversa, salvo che, essendo qui diverse le condizioni di ambiente, diverso doveva essere anche il procedimento. In Italia s’era formata, da una parte, una nuova nobiltà di conti e di marchesi, che premeva sul principe con ripetute usurpazioni; dall’altra il potere vescovile aveva guadagnato terreno nelle città, in molte delle quali la popolazione non riconosceva altro capo che il vescovo. Era necessario dare a tutti questi conti e marchesi e vescovi disciplina uniforme per creare un’unità di governo a presidio dell’unità dello Stato. Ottone ciò fece rispettando lo stato di fatto trovato nel paese e dando sanzione giuridica a tutti quegl’interessi, che avevano oramai acquistato valore di diritti acquisiti. Per raggiungere questo intento, piuttosto che intraprendere una vasta opera riformatrice negli ordini civili e politici, si accontentò di emanare particolari disposizioni basate sul riconoscimento dei diritti fino allora esercitati e non permettendo che nessuno dei poteri od uffici pubblici si conseguisse senza il consentimento imperiale. Così la posizione di fatto, acquistata da chiese e monasteri, fu conservata, e ad altre chiese furono fatte nuove e più ampie concessioni. A Parma, per esempio, il vescovo diviene governatore della città con giurisdizione sulla campagna fino ad un circuito di tre miglia; a Reggio questo viene esteso fino a quattro miglia; al vescovo di Modena, oltre i consueti privilegi si concede l’abbazia di Nonantola; ad Asti di confermano le precedenti concessioni del mercato, del distretto e di ogni pubblica funzione nelle città fino a due miglia, con completa rinuncia, da parte del rappresentante della potestà pubblica, ad ogni molestia o contraddizione.

Conservati ai vescovi i loro poteri nelle città, ai conti rimasero i centri minori e le campagne, dove d’allora in poi si svolgerà a preferenza la nuova feudalità ottoniana in una ricca fioritura di famiglie signorili. Quanto ai conti e ai marchesi più potenti, Ottone cercò di frenarne le usurpazioni e di legarli a sé coi benefici e premiandone la fedeltà e il valore. Così ricomponendo tutte le forze divise nel gran quadro politico, che accentrava nel principe la feudalità laica ed ecclesiastica mediante il rapporto feudale, Ottone poté dare all’Italia un ordinamento saldissimo, quale non s’era più veduto dopo Carlo Magno.»

Il giudizio apertamente elogiativo di Giacinto Romani sulla esperienza di governo ottoniana in Italia si basa su solidi dati di fatto e su una coerente, persuasiva linea di ragionamento: Ottone fu un realista, che, valutate e soppesate le forze sociali ed economiche in campo, assunse a principio fondamentale quello di bilanciarle ed equilibrarle in vista del buon funzionamento dell’insieme; l’aver favorito la funzione anche politica dei vescovi nelle città, lasciando ai feudatari le campagne ed i paesi, corrispondeva alle condizioni effettive di sviluppo delle forze sociali e, nello stesso tempo, favoriva il disegno di instaurare, o restaurare, nella Penisola, una struttura di governo quanto più possibile solida e durevole. Egli fece ampie concessioni al potere episcopale, sia perché ciò sembrava il partito migliore, nella turbolenza degli interessi e delle lotte cittadine, sia per erodere la forza e la superbia dei conti e dei marchesi, da troppo tempo abituati ad effettuare impunemente usurpazioni che, se andavano, nel presente, soprattutto a detrimento della Chiesa, in una prospettiva di lungo periodo non potevano che indebolire il restaurato potere imperiale in Italia, ciò che avrebbe perpetuato indefinitamente quella condizione di anarchia feudale cui egli si era fermamente proposto di porre rimedio, di disciplinarla e di dominarla.

Nello stesso tempo, egli favoriva l’ascesa di una nuova nobiltà, a lui personalmente legata, per opporla all’antica, prevalentemente di origine franca o, addirittura, longobarda; proprio come all’interno dell’alto clero egli favoriva i vescovi di nuova nomina per contrastare e indebolire la potenza temporale della Chiesa e per fiaccarne preventivamente, se così possiamo dire, ogni velleità di risorgere per contrapporsi alla sua azione unificatrice e centralizzatrice (nei limiti, beninteso, in cui si possono adoperare termini come "unificazione" e "centralizzazione" nella frammentata realtà politico-sociale italiana della tarda età feudale). Ottone, peraltro, non era uomo da mezze misure e, individuato un avversario, puntava al cuore della sua forza: in questo senso, il Privilegio ottoniano, che gli conferiva il potere di confermare l’elezione del pontefice — che allora si svolgeva per opera del clero e del popolo romano — pose stabilmente il Papato nell’orbita della sua politica e di quella dei suoi successori, facendo della Chiesa quasi una dipendenza dell’Impero.

D’altra parte, non era difficile immaginare che una situazione del genere non avrebbe potuto durare indefinitamente, e che, prima o poi, sarebbe comparso un papa energico, il quale – approfittando di qualche situazione di debolezza dell’Impero -, avrebbe preteso di restaurare la piena indipendenza della Chiesa, cosa che, nella prospettiva teocentrica e teocratica della cultura medievale, rappresentava la premessa indispensabile e assolutamente irrinunciabile per poter esercitare anche una piena libertà d’azione nell’ambito specificamente spirituale e religioso. Certo, la decisione di Ottone nasceva dalla amara esperienza delle lotte incessanti, della indomabile irrequietezza del popolo e dei nobili romani, della loro irresponsabile anarchia, che avevano provocato incessanti contese nella città di Roma, trascinando sempre più in basso il prestigio della Chiesa come sorgente di autorità morale e contribuendo, inoltre, alla instabilità politica dell’intera Penisola.

Ottone, dunque, si trovava nella situazione di chi, davanti ad un male estremo, deve ricorrere a un estremo rimedio; ma che, da uomo intelligente e generoso qual era (talmente generoso, ad esempio, da consentire che la moglie di Berengario II, Willa, da lui catturata sull’isola di San Giulio, durante l’ennesima guerra contro il deposto re d’Italia, tornasse illesa dal marito, che pure gli resisteva nella rocca di San Leo), probabilmente intuiva che la propria opera, per le forze stesse di cui si stava servendo, a cominciare dai vescovi-conti, e per le modalità della sua azione, creando e deponendo i pontefici a suo arbitrio, non avrebbe potuto non provocare, alla lunga, l’insorgere di una reazione tale da compromettere i vantaggi temporaneamente acquisiti.

Il dilemma di Ottone era, in sostanza, quello di governare un Paese ingovernabile, come l’Italia, per giunta da un centro politico che era ben fuori di essa, in Germania, e precisamente in Sassonia, e avendo ancora parecchi altri fronti aperti, che richiedevano la sua presenza ed il suo tempestivo e continuo intervento: da quello degli Ungari, che minacciavano la Germania e tutta l’Europa centrale, e che egli riuscì alfine a battere nella battaglia di Lechfeld, in Baviera; al duca di Polonia, scomodo e irrequieto vicino, che riuscì, del pari, a sconfiggere e a costringere a pagargli il tributo feudale; ai Bizantini nell’Italia meridionale, i cui territori egli cercò di assorbire per via diplomatica, mediante il matrimonio tra suo figlio, Ottone II, e la principessa bizantina Teofano; ai Musulmani di Sicilia, sempre più forti e aggressivi, i quali, dopo aver fiaccato, nel corso di una lunghissima campagna, la resistenza di Bisanzio, si sarebbero presti affacciati sulle coste della Penisola e avrebbero rappresentato — era facile prevederlo – un problema politico-militare di prima grandezza, se non per lui, certo per i suoi successori.

Per tutte queste ragioni, nonché per venire a capo della cronica turbolenza della feudalità nell’Italia settentrionale, Ottone concepì un disegno a largo raggio, straordinariamente ambizioso per l’epoca e tenendo conto dei modesti mezzi a sua disposizione: quello di unificare, in un modo o nell’altro, l’intera Penisola e di ricondurla all’obbedienza verso la sua casata: perché solo così i diversi problemi e le svariate forze centrifughe operanti dalla Valle del Po alla Calabria e alla Puglia, ancora in mano ai Bizantini, avrebbero trovato una sistemazione complessiva. Disegno ambizioso, abbiamo detto, ma reso apparentemente possibile, e quasi a portata di mano, dalla definitiva sconfitta di Berengario II e soprattutto dalla tutela energicamente esercitata sul Papato, con la nomina di uomini a lui favorevoli, come Leone VII (che era addirittura un laico) e come Giovanni XIII, sì da avere sotto controllo l’intero vertice della Chiesa.

Il giudizio storico di Giacinto Romano appare quindi, sostanzialmente, condivisibile, anche se non sembra tenere conto a sufficienza del fatto che la grande politica non deve limitarsi a operare su ciò che già esiste, ma deve anche suscitare le potenzialità sinora inespresse, e tuttavia latenti nel corpo sociale. In Italia esistevano, all’epoca di Ottone, almeno tre forze fondamentali, delle quali una qualsiasi forma di autorità centrale doveva tener conto: la feudalità settentrionale; il Papato; la presenza bizantina nella parte meridionale (cui si aggiungeva la minacciosa avanzata musulmana). I Comuni non erano ancora sorti e il poderoso sviluppo della borghesia mercantile erano ancora da venire. Apparentemente, quindi, il problema politico di Ottone — instaurare saldamente il potere della sua casata in Italia — era più semplice di quello che si sarebbe presentato agli imperatori dei tre secoli successivi, ad esempio al grande Federico I di Svevia. I papi, per contrastarlo, non potevano contare su una ancora inesistente borghesia urbana, ma solo sulla infida nobiltà romana e sugli umori imprevedibili del popolo romano: l’una e l’altro, tutto sommato, più inclini a uno stato di disordine permanente che al sorgere e all’affermarsi di un potere papale forte e prestigioso, perché solo così avrebbero potuto seguitare l’andazzo cui erano abituati da tempo immemorabile.

Il dramma di Ottone fu, in sostanza, quello di aver visto e compreso tutti i termini del difficile problema politico italiano, ma di non aver potuti fare altro, per far combaciare le tessere del sempre mutevole e complicatissimo mosaico, che creare delle forze nuove, come la nuova aristocrazia del Nord e i vescovi-conti, o perseguire delle politiche vecchie, come l’imposizione di una sorta di protettorato sulla Chiesa e una linea di alleanza dinastica con Bisanzio, che non promettevano di dare buoni risultati, se non nel breve e, forse, nel medio periodo. Forse è abbastanza per mostrare la grandezza di un uomo politico; ma non abbastanza per fare realmente grande anche la sua politica…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Biswajeet Mohanty from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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