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Sul capo degli «inetti» tozziani pende la minaccia di distruzione dell’io

Il mondo poetico di Federigo Tozzi (nato a Siena il 1° gennaio del 1883 e morto a Roma il 21 marzo 1920, subito dopo che la critica aveva avuto la bontà di accorgersi di lui e della sua notevole opera letteraria) è popolato di figure umane dolenti, ferite, ripiegate su se stesse, spezzate e senza più un profondo legame con la vita, senza più delle serie ragioni per continuare a credere nella vita, dunque potenzialmente o fattivamente auto-distruttive, a seconda dello stadio che hanno raggiunto nella loro discesa verso l’abisso del disincanto.

È un tema che abbiamo già trattato (cfr. il nostro precedente articolo: «Remigio, ne "Il podere" di F. Tozzi, si offre come agnello per (l’inutile) immolazione», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 28/05/2015). Ci resta da considerare un altro aspetto della questione: la minaccia della distruzione del loro "io" che grava come una spada di Damocle su codesti sconfitti ed "inetti" e che equivarrebbe, per loro, a quella "morte secunda" di francescana memoria, che fa assai più paura della dissoluzione materiale, perché scende molto più in profondità della morte fisica, sino al centro vitale dell’anima.

Con parole chiare ed efficaci, questo concetto è stato espresso dal critico letterario, e scrittore egli stesso, Elio Gioanola (E. Gioanola, «Gli occhi chiusi di Federigo Tozzi», in «Otto/Novecento», IV, 1, 1980, p. 40):

«Ciò che pende sul,m capo di Remigio, e del protagonista tozziano in generale, è la minaccia della distruzione dell’io, dalla quale appunto è provocata la regressione schizofrenica, che va in cerca di salvezza nelle difese arcaiche delle prime fasi orai. La violenza è una forma arcaica di difesa e s’innesta alle fantasie distruttive sadico-orali, così come un’altra forma di difesa è il rifugio nelle imago materne consolanti, della madre nutrice, del seno buono; in ogni caso il mondo dei rapporti umani è precluso, il protagonista è essenzialmente solo, in preda alle sue paure o tenerezze, perennemente padroneggiato da dolcezze e crudeltà che gli preclusono ogni attivo e concreto rapporto con gli altri. Per questo la metafora della cecità, degli "occhi chiusi", assume significati che vanno ben oltre quello indicato da Debenedetti, di punizione edipica: essa indica la totale inabilità a vedere le cose nei loro rapporti reali, e cioè la condanna al fantasmatico, per la quale tutto viene allucinato secondo le proiezioni crudeli o tenere, nell’inesorabile fuga regressiva che allontana da ogni possibile varco sul reale: "Tutta la vita", pensa Remigio, SEMBRAVA (è stato Baldacci ad indicare acutamente il dominio dei verbi d’impressione soggettiva: sembrare, parere, credere, ecc.) CHIUSA DENTRO UN SACCO, da cui non c’è modo di mettere fuori la testa.»

La vita chiusa dentro a un sacco e la testa impossibilitata a uscirne fuori, anche solo per respirare una boccata d’aria fresca e gettare un’ultima occhiata allo spettacolo del mondo e della vita "vera": si potrebbe immaginare una rappresentazione più cupa, più pessimista, più orribile, del destino che viene riservato all’uomo della modernità, come conseguenza della sua perdita di equilibrio interiore e del giusto orientamento spirituale?

Tutti i personaggi della narrativa di Federigo Tozzi – di questo grande pessimista che possedeva la pietà per i suoi "vinti", ma non la forza e l’umiltà per credere possibile la loro redenzione — sono come dominati da una oscura fatalità: su di loro pende la minaccia della distruzione dell’io, dello smembramento e della dissoluzione della loro coscienza, della disintegrazione dello stesso principio di realtà: come avviene, ad esempio, a Pietro, il protagonista di «Con gli occhi chiusi», che s’innamora di Ghisola, ma senza mai riuscire a vederla per ciò che ella realmente è, sino alla scioccante rivelazione finale (complice una lettera anonima) che gli permette di sorprenderla non solo incinta di qualcun altro, ma anche intenta a prostituirsi in un bordello.

Alcuni di loro reagiscono a questa minaccia incombente aggrappandosi alla vita nei suoi aspetti più grossolani: i fratelli Gambi, nel romanzo «Tre croci», che vivono al limite del fallimento economico e come sospesi in un mondo irreale, riversano la loro fame insoddisfatta di vita e di realtà in un appetito animalesco, in una smania di cibo, in una bulimia che diventa il surrogato e la consolazione infelice (ci si passi l’ossimoro) della loro triste e sconsolata esistenza, nella quale è come se una invisibile parete di cristallo li tenesse separati dal mondo dei vivi. Di fatto, sono dei morti che camminano: la more fisica, che verrà a bussare alla porta di ciascuno di essi — Giulio, impiccatosi nel suo negozio perché è stata scoperta la sua cambiale falsa; Niccolò, malato di gotta, per un colpo apoplettico; Giulio, dopo essere stato cacciato di casa ed essere diventato un accattone, all’ospizio dei poveri — sarà anche, in un ceto senso, una liberazione.

E che dire di Remigio, il protagonista de «Il podere», che finisce massacrato con la scure da uno dei suoi contadini, così, per uno scatto d’ira insensato, per mera invidia e malvagità gratuita: non è forse anche lui un forzato della vita, un uomo sull’orlo della dissoluzione interiore, perché costretto a entrare in possesso di una eredità non voluta, troppo pesante per le sue spalle — quella del padre — e a combattere una battaglia in cui non crede, quella contro i falsi amici e i nemici dichiarati, che vorrebbero insidiarla; e non è forse la sua morte una liberazione? Non è la sola uscita possibile dal vicolo cieco nel quale si è venuto a trovare, la risposta allo scacco matto che le beffarde circostanze gli hanno dato: finire schiacciato da un bene che non ha voluto, e del quale farebbe volentieri a meno, se lo potesse? Non è forse un agnello sacrificale che non crede nemmeno al valore del proprio sacrificio, e che si arrende a un destino più grande di lui?

Davanti alla minaccia della distruzione dell’io, i personaggi tozziani si rifugiano nel seno di una donna protettiva, o nel cibo su cui si gettano come se volessero distruggerlo, oppure in una disperata auto-reclusione spirituale, che corrisponde al mettere la testa dentro un sacco per non vedere più, non sapere più, non udire più le voci della vita: una anticipazione della morte che non ha nulla di mistico, di distaccato, e neppure di veramente rassegnato; è solo un estremo atto di difesa che già non crede più in se stessa, un prepotente desiderio di oblio e di quella che il regista Valerio Zurlini chiamerà "la prima notte di quiete": la quiete del nulla, della morte. Gli antieroi tozziani sono dei perdenti sia nella loro vita, che nella morte. Fanno venire in mente i versi di «Desolazione del povero poeta sentimentale» del crepuscolare Sergio Corazzini (1886-1907): «Perché tu mi dici: poeta? / Io non sono un poeta. / Io non sono che un piccolo fanciullo che piange. […] Io non so, Dio mio, che morire. / Amen».

Il mondo poetico di Federigo Tozzi risente pesantemente di un cattolicesimo triste e rassegnato, di un pessimismo antropologico che richiama la fase più cupa del pensiero agostiniano, quella della polemica anti-manichea, dominata dal senso di totale incapacità e impotenza dell’uomo a fare il bene, a collaborare attivamente all’opera redentrice di Dio; quella che piacerà tanto a Lutero e che sarà alla base della sua teologia riformata. Sia come sia, al di là del giudizio che si può dare del suo pessimismo, tanto sul piano antropologico e religioso che su quello poetico e letterario, resta il fatto che Tozzi ha saputo vedere e rappresentare, con notevole acutezza e sensibilità squisita, il dramma fondamentale dell’uomo contemporaneo, dramma che, negli anni XX del Novecento — poco meno di un secolo fa — non era poi così evidente come ci appare oggi, e poteva ancora essere esorcizzato dall’effimero vitalismo delle avanguardie, delle rivoluzioni, dei programmi di rigenerazione universale dei totalitarismi.

Nello stesso tempo, vi è, nell’opera di Federigo Tozzi, una sorta di vastità umile, di grandiosità modesta e silenziosa, che ne fa un unicum nel panorama letterario del nostro Novecento. Quando si pensa che uno scrittore come Alberto Moravia, rivelatosi con un solo romanzi leggibile, «Gli indifferenti», per poi parassitare per oltre mezzo secolo la cultura e i premi letterari, vivendo di rendita e sfornando una serie di libri non solamente osceni, ma brutti e insignificanti, tanto più ci si rammarica per la morte prematura (a soli trentasei anni) e per l’insufficiente notorietà dell’opera di questo piccolo, grande scrittore della profonda provincia toscana, di questo disperato delle lettere che visse nascosto per gran parte della sua vita, di questo autodidatta senza titoli e senza laurea, che sbarcava il lunario come impiegato delle ferrovie, ma che aveva più stoffa di scrittore — con lampi e intuizioni che lo pongono, talvolta, quasi al livello di un Dostoevskij o di un Gogol, certamente a quello di Kafka o di Musil – di tanti altri che avevano solo una immensa faccia tosta e una serie di amicizie giuste nei posti giusti, così da usurpare una fama immeritata.

Di amicizie potenti, Tozzi non ne ebbe mai; la sua unica amicizia importante, quella con lo scrittore cattolico Domenico Giuliotti (1877-1956), con il quale collaborò alla rivista quindicinale «La Torre», cattolica e nazionalista, non era certo tale da favorirgli la carriera o l’affermazione letteraria, al contrario. E se ancora oggi di Tozzi si parla poco nelle scuole e ancora meno presso il grande pubblico, benché la critica lo riconosca, ormai, come uno dei maggiori scrittori italiani del XX secolo, ciò si deve appunto, crediamo, alla sua posizione di intellettuale scomodo e isolato, solitario e controcorrente, difficilmente inquadrabile e classificabile: basti dire che, nei suoi libri, non si riesce a trovare, pur con tutta la "buona" volontà di questo mondo, nemmeno uno spunto autenticamente marxista e progressista (a parte una giovanile e generica simpatia per il socialismo, che ha lasciato pochissime tracce nella sua opera), e si comprenderà facilmente per quale ragione Tozzi è rimasto tagliato fuori dalla operazione culturale di "ripescaggio" di tanti e tanti (troppi, decisamente!) scrittori che esordirono, o svilupparono gran parte della loro carriera, negli anni travagliati della guerra e del primo dopoguerra, o in quelli del fascismo (ma non è il suo caso, visto che morì nel 1920), ma che poi, per non si sa quale piroetta sociologica e ideologica, sono stati immersi in un bagno di verginità modernista e progressista, e presentati al pubblico come geniali anticipatori della denuncia sociale contro la borghesia decrepita e fatiscente. Se si pensa al ruolo che ha, nelle opere di Tozzi, il fattore inconscio, ci si stupisce inevitabilmente del fatto che l’onnipotente cultura psicanalista non lo abbia arruolato, e sia pure a posteriori, nelle file delle sue armate vittoriose: l’unica spiegazione che si può dare di questo apparente paradosso è che, nel cattolico Tozzi, l’inconscio coincide, in ultima analisi, con il mistero "religioso" dell’anima, con gli abissi e con i lampi del peccato e della Grazia; e pertanto non è utilizzabile nel senso che i freudiani, e anche gran parte degli junghiani, ritengono utile alla loro Vulgata.

Ma la sua diagnosi antropologica era, ed è esatta: addirittura spietata. Per cui si tratta di vedere se, negli ultimi 100 anni, con il progressivo crescere del malessere, l’uomo contemporaneo ha preso coscienza almeno delle ragioni del suo dramma interiore, della sua scissione, della minaccia di dissoluzione dell’io che lo sovrasta inesorabilmente: oppure se nulla è stato fatto, a parte il vittimismo, il nichilismo, il tetro "cupio dissolvi" mascherato da edonismo; e, in particolare, se qualcosa è stato fatto dagli uomini di cultura, dagli scrittori, dai filosofi, dagli artisti, oppure se sono stati proprio costoro a soggiacere per primi alla malattia interiore e a spargere i suoi germi a piene mani, con tutto il peso della loro autorità, ritagliandosi in quel modo una visibilità ed una notorietà che possono aver gratificato il loro ego, ma al prezzo di un ulteriore auto-disprezzo inconscio, della discesa di un altro gradino nell’abisso dell’auto-degradazione, magari camuffando ciò con il furore rivoluzionario e millenaristico o con l’ansia di redenzione universale (ah, quanti "astratti furori" e quanti intellettuali velleitari e patetici, simili al Gran Lombardo di Elio Vittorini hanno popolato questi nostri anni).

Quel che appare evidente è che, con la crisi e il tramonto delle ideologie, l’uomo contemporaneo, nella fase che stiamo vivendo, ha abbandonato anche i sogni di palingenesi universale e le facili formule di riscatto politico e sociale e si è chiuso sempre di più in se stesso, in una specie di ottundimento dei sensi e dell’anima, in una sorta di auto-cauterizzazione del proprio sentire, del proprio sperare, della propria capacità di amare. Egli ha smesso di credere nelle proprie illusioni, ma non perché abbia trovato il coraggio di mettersi in piedi e di affrontare le conseguenze delle proprie scelte sbagliate, ma semplicemente perché ha smesso di credere in qualsiasi cosa ed è ormai divenuto simile ad un morto vivente, anche se non pare rendersene conto, il che rende la situazione quasi grottesca. Sorgerà anche per lui, dopo l’oscurità del sepolcro, l’alba della resurrezione?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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