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20 Novembre 2015Votarsi a Dio a cinque anni; imparare le Sacre Scritture a dodici; andare in eremitaggio a venticinque, nel folto di una foresta, e non uscirne più fino a quarantatre anni, restando per un quarto di secolo in compagnia delle piante e degli animali, ma senza più vedere un solo essere umano. E poi imbarcarsi, partire, viaggiare da un paese all’altro, da un continente all’altro, sempre in cerca della Verità, sempre in cerca di Dio, attraverso tutte le fedi e tutte le civiltà, percorrendo migliaia di chilometri a piedi, vistando tutti i principali luoghi santi della Terra; sostando ora di più, ora di meno, frequentando le persone di ogni classe e di ogni razza, i più piccoli e più grandi: e questo per altri 40 anni. Infine ritornare alla propria terra d’origine, e sempre a piedi, dopo aver percorso mezza Asia senza altro aiuto che le proprie gambe, valicando catene di montagne, attraversando fiumi; e poi subito rimettersi in cammino, questa volta per visitare i luoghi santi del proprio Paese, come ogni buon fedele della propria religione, alla bella età di ottant’anni suonati, con vigore giovanile, senza mostrare apparenti segni di stanchezza. E così, alla fine, chiudere il cerchio, ritornare a casa e predisporsi all’ultimo viaggio: quello che richiede di abbandonare il corpo e di proseguire senza di esso, perché là dove si è diretti, non ci si può caricare del peso della materia, della carne, con le sue debolezze e imperfezioni: l’ultimo grande viaggio verso il paese dell’eternità, per vedere faccia a faccia quel Dio che si è cercato e servito per tutta la vita, e trovare in Lui il senso di ogni cosa, del proprio peregrinare, del proprio esistere.
Questa, in sintesi, è stata la vita di un uomo eccezionale, di un santo, di un illuminato dalla ferrea volontà: così energico che non si spaventava di nulla; così affabile che poteva incantare i sovrani più potenti con il fascino che emanava dalla sua persona; così tenace che non temeva lo scorrere degli anni, quando si era prefisso un obiettivo; così forte ed equilibrato da non curarsi della solitudine assoluta, che avrebbe spaventato praticamene chiunque avesse dovuto affrontarla non per ben venticinque anni, come lui, ma anche solo per qualche settimana; così puro da attirare a sé perfino le bestie feroci, mansuete come agnelli, le quali si presentavano davanti alla sua capanna; e così colto da poter insegnare le cose più profonde, le nozioni più difficili, le conoscenze più avanzate e più segrete, come se fossero state cose relativamente semplici: e sempre con modestia assoluta, senza mai farsene un vanto, sena mai considerare tutto ciò come un merito proprio, anzi, donandolo spontaneamente e generosamente, come un tesoro che si è ricevuto in custodia, ma che non si ha il diritto di considerare come una cosa propria, ma che, al contrario, si può e si deve condividere con gli altri, con coloro che se ne mostrano degni, perché sono animati da un simile spirito di verità, di abnegazione, e da un’analoga sete di assoluto e di eterno.
Il nome di questo grandissimo uomo, che seppe farsi piccolo come un perfetto sconosciuto, e che ancora oggi è noto quasi solo nel suo Paese, mentre il resto del mondo, che pure dovrebbe onorarlo come una delle maggiori personalità mai vissute, praticamente lo ignora, è Govindananda Bharati, meglio conosciuto come Shivapuri Baba, e su di lui circolano voci e leggende d’ogni tipo. I suoi dati biografici son tali da lasciare perplessi e sconcertati: pare che la sua via terrena sia durata ben centotrentasette anni: è certo, ad ogni modo, che egli rimase sempre lucido, estremamente vigoroso, intelligentissimo eppure distaccato, curioso di tutto, eppure sommamente spirituale, raccolto, modesto, benevolo. Era ancora nel pieno delle sue energie e godeva di una salute straordinaria ad una età in cui la maggior parte degli esseri umani danno segni di stanchezza e di decadenza, perdono la lucidità e la memoria, si rattrappiscono fisicamente, subiscono una quantità di piccoli e grandi problemi di salute. Il suo giro del mondo a piedi, fatto all’epoca in cui Verne scriveva il suo «Giro del mondo in 80 giorni» (ma immaginando che i suoi eroi si servissero di mezzi quali il treno e la slitta, oltre alle navi a vapore), gli valse il nome di "Magellano dell’India".
Era nato nell’India sud-occidentale, a Jayanthan Nambudiripad, situato nello Stato del Kerala, nel 1826: e all’età di soli nove anni era già rimasto orfano di entrambi i genitori. Il nonno, che avrebbe esercitato una influenza decisiva su di lui, si prese cura del nipote e della sorellina nata insieme a lui da un parto gemellare, e decise di accompagnare entrambi sul cammino della realizzazione spirituale e della rinuncia al mondo, cammino che era già stato deciso per essi fin dall’inizio. Shivapuri Baba morì nel 1963, dopo aver fatto in tempo ad approvare la sua biografia scritta da un inglese, J. G. Bennet, intitolata «Il lungo pellegrinaggio».
Un archeologo e saggista statunitense, William Sullivan, ha così delineato la sua figura nel contesto di una monografia dedicata alla fine della civiltà incaica (da: W. Sullivan, «Il mistero degli Incas»; titolo originale: «The Secret of the Incas», 1996; traduzione dall’americano di Daniele Ballarini, Casale Monferrato, Alessandria, 1996, pp. 414-416):
«Noi viviamo in un’epoca in cui la più grande forma di coraggio consiste nell’agire come se la nostra vita fosse importante. Il mito ci vuol dire proprio questo, e che l’uomo possiede poteri meravigliosi capaci di svelare la saggezza del cosmo: se bussiamo, ci sarà aperto. Alla fin fine ciò che resta è il mito universale degli antichi dagli anziani di una volta, versati nella preziosa sapienza arcaica. Indipendentemente dal sapere antico, ora perduto e ora ritrovato nelle ère in successione dell’ascesa umana verso la luce, può anche darsi che la natura della conoscenza sia meno importante dell’esistenza del mito stesso. Il mito testimonia di un archetipo che è sepolto in noi, di una catena di trasmissione ininterrotta energizzata dall’amore per la specie. Esso ci spinge a non venir meno al presente, ci fa cenno di tornare in noi, di ritornare al momento attuale, alla realizzazione che il mito è adesso.
Noi siamo una razza antica. Nonostante i lati oscuri della nostra natura, siamo riuscirti non solo a sopravvivere ma a sfidare il tempo conservando parte delle strie epiche. Non è sempre facile ricordare questi racconti, e spesso è anche arduo credervi. Tuttavia, essi sono stati tramandati e perpetuati, forse perché non sappiamo vivere senza le nostre storie. Per cui mi sembra opportuno chiudere con un’altra storia, quella di un libro e di un santo, e che parla degli antichi ancora oggi, trasmettendo idee risalenti forse all’ultima Èra Glaciale.
Il libro a cui faccio riferimento è "The Arctic Home in the Vedas" (1903) che G. B. Tilak scrisse quando era rinchiuso in una cella delle prigioni del Governatore inglese dell’India. Tilak, un insigne studioso di sanscrito, che inseguito divenne amico e collaboratore di Gandhi, analizzò in questo libro i movimenti della volta celeste come venivano presentati dagli antichi testi vedici, traendo la conclusione che tali osservazioni potevano essere state eseguite solo dal Circolo Polare Artico. Sebbene chiunque dia una scorsa a questo raro testo lo trovi notevole e nonostante che le scopette geofisiche e archeologiche successive non possano escludere l’ipotesi dell’autore, il libro resta virtualmente ignoto, un’altra "curiosità" che disturba parecchie persone.
Il santo a cui mi riferivo è Shivapuri Baba, che nacque con una sorellina da un parto gemellare nel 1826 in Kerala, India, da una famiglia di stirpe bramina. Non appena vide i gemelli, suo nonno dichiarò che si era realizzato definitivamente l’obiettivo della discendenza familiare. La bambina fu destinata, come il fratello, a fare voto di povertà e a ritirarsi dal mondo, come una "sannyasin". A cinque ani, Shivapuri iniziò il tirocinio formale e all’età di dodici sapeva recitare i "Veda". A diciotto, si ritirò nella foresta, e pochi anni dopo – suo nonno era già morto -, scomparve nella foresta Narbada per seguire il sentiero della Realizzazione Assoluta di Dio Al Di Là di Tutte le Forme e Immagini. Non avrebbe più visto nessun essere umano per 25 anni. Compiuto questo dovere, nel 1875 usci dalla foresta e, seguendo le istruzioni lasciategli dal nonno, dissotterrò un tesoro di diamanti accantonato da diverse generazioni della sua famiglia al fine di finanziarsi un pellegrinaggio.
Di solito, con pellegrinaggio si intendeva un viaggio in tutti i luoghi sacri indiani, ma in questo caso, come aveva spiegato bene il nonno, Shivapuri Baba doveva viaggiare per il mondo, a piedi e in barca. Allora, si diresse verso ovest, attraversò la Persia, fu ammesso ala Mecca, giunse a Gerusalemme, poi a Roma, e quando arrivò in Inghilterra fu accolto dalla regina Vittoria. Sebbene i suoi diciotto incontri con Shivapuri vennero in seguito espunti dal suo diario dalla Principessa Beatrice, si sa che la Regina gli chiese (cioè non gli ordinò) di restare in Gran Bretagna fino alla propria morte. Così, egli ci restò quattro anni, fino al 1901, quando riprese il pellegrinaggio, che lo portò ad attraversare l’America e a visitare le isole del Pacifico; dopo 40 anni, nel 1915, tornò in India, avendo camminato anche per tutta a Cina e l’Asia sud-orientale.
Infine, dopo aver eseguito il pellegrinaggio in India di cui dicevamo, si ritirò sull’Himalaya per trascorrere gli ultimi giorni della sua vita in una capanna di bambù grazie a un piccolo appannaggio concessogli dal governo nepalese. Un leopardo usciva sempre dalla foresta per accoccolarsi ai suoi piedi.
Poco prima della sua morte, avvenuta nel 1963, ricordando i sollevamenti politici indiani nelle fasi iniziali del suo lungo pellegrinaggio, gli chiesero se aveva conosciuto uno degli attivisti, G. B. Tilak. Allora, Shivapuri Baba rispose di sì, che lo aveva conosciuto e che "gli aveva insegnato un po’ di astronomia" (John G. Bennett, "The Long Pilgrimage", San Francisco, Rainbow Bridge, 1975, p. 21).»
Fra i discepoli di Shivapuri Baba, dunque, vi fu anche una delle figure più prestigiose della politica e della cultura indiana contemporanea: quel Bal Gangadhar Tilak (1856-1920) che, come Gandhi e forse anche più di lui, svolse una parte decisiva nella conquista dell’indipendenza del suo Paese nei confronti dei colonizzatori britannici, dopo aver fondato il Congresso nazionale indiano. Era un bramino come Shivapuri e un fiero erede della tradizione induista, che volle riportare ai suoi antichi fasti: la sua azione politica, infatti, fortemente impregnata di nazionalismo, si prefiggeva di catalizzare le forze indipendentiste sotto il segno del ritorno alla religione dei padri, il che lo pose in rotta di collisione con i nazionalisti islamici e fu uno degli elementi della futura, irreparabile scissione fra la componente indù e quella islamica del partito del Congresso, con la successiva divisione del subcontinente, nel 1947, al momento della partenza degli Inglesi.
Tilak non fu solo un uomo politico, ma anche un grande studioso e un sottile esegeta delle Scritture: la sua prima opera, «The Orion or Researches into the Antiquity of the Vedas», vide la luce nel 1893; la seconda, ancora più originale e affascinante, «The Arctic Home in the Vedas», fu terminata nel 1898 e pubblicata nel 1903 (ma non sarebbe più stata ristampata fino al 1971). Tuttavia, il suo capolavoro resta il grande commento esoterico alla «Bhagavad-Gita», scritta in lingua marathi, e composta mentre l’autore si trovava in prigione a Mandalay, in Birmania, per opera degli Inglesi, ove rimase dal 1908 al 1914; così come il saggio sulle antiche conoscenze astronomiche dei "Veda" era stato redatto in prigione, e sempre per ragioni politiche, ossia per le sue attività indipendentiste e anti-britanniche. La sua liberazione, alla vigilia dello scoppio della Prima guerra mondiale, fu dovuta all’intercessione in suo favore di alcuni eminenti studiosi europei; Tilak aveva goduto, infatti, di una notevole stima e rinomanza fra gli specialisti dei Veda e degli altri testi sacri indiani, e, fra essi, da parte di un filologo, linguista e orientalista germanico, Friedrich Max Müller (1823-1900), che viveva in Inghilterra e aveva una cattedra di Filologia comparata a Oxford, dove era considerato uno dei "mostri sacri" della cultura accademica nell’età vittoriana.
Quanto a ciò che William Sullivan scrive a proposito del mito, come espressione della capacità dell’uomo di bussare al mistero del cosmo, di attingere alla sua antichissima saggezza, per scoprire che il mito è dentro di noi, è un archetipo che vive con noi, e che il suo tempo è "adesso", ossia un eterno presente che travalica i secoli e i millenni, ci sembra una intuizione giustissima, che anche noi avevamo avuto occasione di trattare a suo tempo (cfr. gli articoli: «Il pensiero mitico è diverso, non certo inferiore a quello scientifico», e «Il mito, per Eliade, dà valore e significato al mondo e alla vita», pubblicati sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente, il 15/01/2008 e il 16/11/2010). Sta forse qui il segreto della semplicità, della vitalità, del sorriso ineffabile di Shivapuri Baba?
La vita di Shivapuri Baba ci offre un esempio straordinario di ricerca teologica razionale e di misticismo; e ci appare, essa stessa, come un sorprendente intreccio di storia e mito. Come può un uomo fare tutto quel che egli fece, vivendo, oltretutto, per poco meno di centoquaranta anni? Ma la cosa più sublime, forse, è la sottile ironia di quella frase: «Gli ho insegnato un po’ di astronomia»…
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