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Il vero pensiero di Giovanni XXIII su messa in latino, don Milani, Teilhard e preti-operai

Si dice e si ripete, da parte di quei cattolici che si autodefiniscono — non senza compiacimento — "progressisti", che il Concilio Vaticano II ha relegato in soffitta gli usi liturgici della vecchia stagione cristiana, introducendone di nuovi, radicalmente innovativi e aperti al futuro, secondo la volontà di Giovanni XXIII.

In verità, si tratta di pure e semplici sciocchezze; e, come se non bastasse, di sciocchezze originate dalla mala fede: sciocchezze il cui unico scopo è quello di avvalorare una interpretazione eterodossa e "modernista" del Concilio stesso, attribuendo surrettiziamente la paternità di una simile svolta a colui che meno di ogni altro aveva in mente una operazione del genere: il papa che decise e convocò il Concilio medesimo, ma con tutt’altre intenzioni e con tutt’altra prospettiva rispetto a quelle che gli sono state cucite addosso.

Il fatto che tutti i documenti del Concilio Vaticano II, conformemente alla tradizione, siano stati redatti in latino; il fatto che il Concilio sia stato immediatamente preceduto da un Sinodo romano che tutti gli osservatori hanno riconosciuto di stampo fortemente conservatore, specie per quel che riguarda i doveri dei sacerdoti; il fatto che il papa contasse sul Concilio per avviare il processo di beatificazione di Pio IX, il fautore dell’infallibilità pontificia su qualunque altro organo della Chiesa, concilio compreso; il fatto, infine, che Giovanni XXIII pensasse di concludere i lavori, iniziati l’11 ottobre del 1962, entro la festa dell’Immacolata (8 dicembre) o, al massimo, entro il Natale, vale a dire entro due mesi o due mesi e mezzo dall’apertura: tutti questi fatti, ed altri ancora che potremmo facilmente elencare a volontà, la dicono lunga su quali fossero le vere intenzioni di papa Roncalli e di quanto lontane da esse fossero quelle che gli sono state affibbiate, di voler modificare, se non stravolgere, la vita della Chiesa con una radicale balzo in avanti, che rompesse in maniera sostanziale con la tradizione.

Del resto, è ben noto che il Vaticano II è stato un concilio essenzialmente pastorale: non un Concilio teologico, come quelli di Nicea, di Calcedonia o, più recentemente, di Trento; il suo scopo non era quello di riformare e tanto meno di abolire la Tradizione (stavolta con la maiuscola: cioè nel significato non umano, soprannaturale, divino, della parola), bensì, casomai, di prevenire possibili fughe in avanti di una parte del clero e dell’episcopato, prendendo sul tempo gli innovatori radicali e adoperandosi affinché il concetto di "andare incontro al mondo moderno" non si trasformasse in una abdicazione e in una resa incondizionata di fronte ad esso, ma, al contrario, in uno sforzo per contrapporre alla sua filosofia, al suo stile, ai suoi valori (o disvalori), la forza intatta del Magistero ecclesiastico, saldo sulle sue basi e geloso custode delle sue radici.

Ci sembra più che mai opportuno ricordare, a quei sedicenti cattolici "progressisti", quanto scritto da Andrea Tornielli nella sua biografia «Papa Giovanni XXIII» (Verona, Mondadori, 2003, pp. 219-221):

*«Appare […] del tutto controcorrente, rispetto a una certa immagine unilaterale e falsata del "Papa rivoluzionario", la decisione di Giovanni XXIII di promulgare con il massimo della solennità la Costituzione apostolica "Veterum sapientia", firmata davanti all’altare della Cattedra il 22 febbraio 1962. È il documento che riafferma l’uso del latino come lingua immutabile della Chiesa e tra quelli del suo pontificato è il più dimenticato. Al punto che persino nel Sito Internet della Santa Sede (**www.vartican.va), nelle pagine dedicate a Roncalli, non soltanto non ne compare il testo ma non viene nemmeno citato.*

Già il 20 giugno dell’anno precedente, quando si erano prese alcune decisioni su aspetti pratici del futuro Concilio, il papa aveva detto: "Quanto al latino, è chiaro che esso deve essere la lingua ufficiale del Concilio; ma, data occasione e necessità, sarà consentito di esprimere e di veder raccolto il proprio pensiero nella lingua parlata".

Si è molto discusso sull’origine della "Veterum sapientia" e sulla sua origine [sic]. È noto che già prima della sua pubblicazione la più forte opposizione all’uso delle lingue volgari al Concilio era venuta dal cardinale Giuseppe Pizzardo e dall’arcivescovo Dino Staffa, rispettivamente Prefetto e Segretario della Congregazione per i seminari e le università, i cui argomenti in favore del latino anticipavano il documento papale "invocando il primato di Roma e l’autorità universale e immediata" del Pontefice ("Storia del Concilio ecumenico Vaticano II", diretta da Giuseppe Alberigo, Il Mulino, 1995, vol. I, pag. 226). Sarebbe però riduttivo attribuire interamente la Costituzione apostolica alla Curia romana, immaginando un Giovanni XXIII succube delle pressioni dell’ambiente circostante. Innanzitutto perché questo non risponde affatto al vero, e poi perché […], il Papa bergamasco, pur aperto a certe novità e desideroso di "aggiornare" la vita della Chiesa, non era affatto un "rivoluzionario". Anzi.

"Poiché in questo nostro tempo — scrive Giovanni XXIII — si è cominciato a constatare in molti luoghi l’uso della lingua Romana e moltissimi chiedono il parere della Sede Apostolica su tale argomento, abbiamo deciso, con opportune norme, enunciate in questo documento, di fare in modo che l’antica e mai interrotta consuetudine della lingua latina sia conservata e se, in qualche caso sia andata in disuso, sia completamente ripristinata". "Del resto, quale sia il nostro pensiero su tale argomento, crediamo di averlo abbastanza chiaramente dichiarato quando rivolgemmo queste parole ad illustri studiosi del Latino: Purtroppo vi sono parecchi che, esageratamente sedotti dallo straordinario progresso delle scienze, hanno la presunzione di respingere o limitare lo studio del Latino e di altre discipline di tal genere… Precisamente mossi da questa necessità, Noi riteniamo che si debba intraprendere il cammino opposto. Poiché l’animo si nutre e compenetra di tutto ciò che maggiormente onora la natura e la dignità dell’uomo, con maggiore ardire si deve acquisire ciò che arricchisce ed abbellisce lo spirito, affinché i misteri mortali non siano freddi, aridi e privi di amore, come le macchine che fabbricano’".

"Se in qualche paese, poi — si legge ancora nel documento papale -, per aver adottato un programma di studio proprio delle scuole pubbliche dello Stato, lo studio della lingua latina abbia subito delle diminuzioni, con danno di un insegnamento solido ed efficace, decretiamo che in tal caso sia completamente ripristinato l’ordine tradizionale dell’insegnamento di tale lingua per la formazione dei sacerdoti". [Qui, evidentemente, si fa riferimento alla riforma della Scuola media di Stato che, appunto nel 1962, avrà come effetto, tra le altre cose, l’abolizione del latino come materia d’insegnamento obbligatoria e la sua riduzione a materia facoltativa per le classi seconde e terze, restando solo qualche elemento fondamentale per le classi prime.] Merita una citazione anche il finale, per comprendere il valore che il papa intendeva dare al suo pronunciamento: "In virtù della Nostra Apostolica autorità vogliamo ed ordiniamo che quanto abbiamo stabilito, decretato, ordinato ed ingiunto con questa Nostra Costituzione, resti definitivamente fermo e sancito non ostante qualsiasi prescrizione in contrario, pur degna di speciale menzione". Questo testo giovanneo sarà sbrigativamente messo in soffitta e quindi dimenticato. La riforma liturgica post-conciliare andrà infatti ben oltre il dettato dello stesso Concilio Vaticano II, che aveva stabilito di conservare la lingua di Cicerone nei riti della Chiesa latina pur concedendo l’ingresso delle lingue nazionali in alcune parti della Messa. Il latino sarà di fatto definitivamente abolito meno di quattro anni dopo quel solenne documento.

Va detto che papa Roncalli — il quale da nunzio apostolico a Parigi, nel 1949, aveva definito il fatto che l’altare in alcune chiese fosse stato girato per permettere al celebrante d stare di fronte ai fedeli e non di spalle, "innovazioni liturgiche che poco mi piacciono", ideate da "teste ardenti e un po’ bislacche" — non era contrario all’inserimento delle lingue nazionali in alcune parti del rito.»

Ma, si dirà, la questione liturgica non è stata, in fondo, che un aspetto marginale, o, comunque, secondario del Concilio, in confronto alla "grandiosa" trasformazione della prospettiva dottrinale aperta dal Vaticano II. Può darsi: ciascuno è libero di interpretare i fatti come preferisce; però, fino a prova contraria, senza offendere l’intelligenza, propria e altrui; senza pretendere che i fatti siano altra cosa da quello che sono.

Nel nostro caso, occorre forse ricordare a certi smemorati che Giovanni XXIII, dopo aver letto il libro «Esperienze pastorali» di don Lorenzo Milani, figura simbolo del "neo-modernismo" conciliare, aveva definito il suo Autore «un povero pazzerello fuggito dal manicomio» (lettera di Roncalli al vescovo di Bergamo, Giuseppe Piazzi, del 1° ottobre 1958)?

Occorre ricordare, sempre a quei tali smemorati, i quali vorrebbero arruolare Giovanni XXIII fra i "rivoluzionari" del Vaticano II, che, a proposito della questione dei preti operai, egli si schierò perfettamente in linea con il Sant’Uffizio, che dichiarava quella esperienza come incompatibile con la concezione tradizionale del sacerdozio e ne stabiliva la graduale conclusione (lettera di Roncali all’arcivescovo di Parigi, Maurice Feltin)?

Occorre ricordare, infine, a quanti non si peritano di manipolare la figura e il pensiero di Giovanni XXIII, per farlo passare come il Papa che volle abolire il latino dalla liturgia e porre fine alla "monarchia assoluta" della Chiesa, nonché come il papa che spalleggiò silenziosamente la "rivoluzione" teologica di Teilhard de Chardin, che, a detta di due testimoni che ben conobbero papa Roncalli all’epoca del Concilio, il vescovo di Imperia e Ventimiglia, Angelo Raimondo Verardo, e il notaio del Sant’Uffizio, monsignor Sebastiano Masala, che Giovanni XXIII non fu affatto "costretto" ad adeguarsi al monito emesso dal Sant’Uffizio contro le ultime opere di Teilhard, pubblicato il 30 giugno 1962, ma che, contrariamente a quanto sostenne monsignor Loris Capovilla, egli condivideva in pieno quel giudizio e quell’ammonimento, ritenendo Teilhard un gesuita che era andato troppo oltre, cadendo in una certa qual forma di panteismo?

Da questi fatti (non opinioni), e da altri ancora, che potremmo citare a volontà, emerge un quadro molto diverso, completamente diverso, da quello delineato — e oggi quasi ufficialmente accreditato – da quanti hanno cercato di avvalorare una perfetta equivalenza fra il pensiero e le intenzioni di Giovanni XXIII, le posizioni più avanzate, e quasi estreme, che vennero assunte da alcuni Padri conciliari, e, soprattutto, un non meglio precisato "spirito del Concilio", che, come è stato fatto notare da alcuni, veniva — e viene — adoperato, non sempre in buona fede, per avvalorare non quel che il Concilio aveva realmente detto e fatto, ma quello che avrebbe voluto dire e fare, beninteso se non fosse stato trattenuto, frenato e ostacolato in ogni modo dai vescovi conservatori e dal partito curiale, avverso alle riforme e allergico, per partito preso, anzi, per sua stessa natura, a qualsiasi innovazione.

Non è sufficiente, a tutti costoro, il fatto che Giovanni XXIII giudicasse assurde e pericolose le idee pastorali del tanto celebrato (dai neo-modernisti) don Lorenzo Milani, da essi fatto assurgere alle vette del pensiero pedagogico, nonché del "vero" spirito evangelico e del rinnovamento ecclesiastico; che considerasse come inopportuna e meritevole di essere rapidamente conclusa l’esperienza francese dei preti-operai, in quanto non consona alle finalità e alle modalità liturgiche del sacerdozio; che nutrisse ampie riserve teologiche e dottrinali sull’opera di Teilhard de Chardin, il nume tutelare di quasi tutti i cattolici "progressisti", che essi considerano tale, proprio per il suo confuso e pasticciato tentativo di conciliare la scienza evoluzionista e materialista (la paleontologia di matrice darwiniana) con una visione del Cristo, del destino umano e della relazione fra l’uomo e Dio, che si risolve in una specie di deismo panteistico, nel quale si stenta parecchio a riconoscere ancora qualcosa di cristiano, e specialmente di cattolico?

E non è sufficiente che egli non volesse affatto abolire il latino dalla liturgia, né far rivolgere gli altari verso i fedeli?

Certo: esiste la libertà di pensiero ed esiste la libertà d’interpretare; non, però, quella di falsificare a proprio piacere la storia, e meno ancora la fede religiosa. Se la Chiesa cattolica appare ad alcuni suoi figli troppo chiusa ed angusta, troppo "arretrata" e conservatrice, perché continuano a rimanervi, con la pretesa di scardinare dall’interno la sua Tradizione? Non sarebbe più onesto e leale uscirne e andarsene per la propria strada? Perché non mettere le carte in tavola, e dichiarare apertamente, senza sotterfugi, le proprie intenzioni?

Abbiamo sentito l’altro giorno, nel corso di una intervista televisiva (11 novembre 2015), una giovane ragazza dichiarare, con aria entusiasta, dopo aver partecipato ad un incontro con il papa Francesco: «Il papa è contro la Chiesa; quindi io sto con lui!»; e nessuno dei partecipanti alla trasmissione ha fatto una piega; nessuno, credenti o non credenti che fossero, ha fatto rilevare l’enormità e l’assurdità una simile dichiarazione, la totale inconsapevolezza di cui essa offre testimonianza. Viene da chiedersi se vi siano ancora molte persone capaci di pensare, di ragionare; e quanto sia facile, per chi desidera stravolgere, ma senza averne l’aria, le verità stabilite e consolidate da secoli e millenni, agire su tanta confusione mentale, su tanta superficialità, su tanta inconsapevolezza,portare a compimento il suo disegno.

In un momento storico in cui è possibile affermare qualsiasi cosa, senza minimamente preoccuparsi di documentarlo e di dimostrarlo, bisogna aspettarsi di tutto. Di falsificazione in falsificazione, possiamo essere docilmente condotti versi qualsiasi meta, senza un moto di ribellione, senza un soprassalto di lucidità. Oggi si dice e si ripete che Giovanni XXIII volle rinnovare, capovolgendole, le basi stesse della vita della Chiesa cattolica, attraverso l’opera del Concilio Vaticano II (quel concilio che egli desiderava chiudere in due mesi!); domani, che cosa mai non si riuscirà a far dire ai papi, ai capi di governo, agli esponenti della cultura?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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