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Perdere il significato cristiano della domenica equivale a perde la propria anima

Uno dei segni più evidenti, e tuttavia più silenziosi, e passato quasi inosservato, della marcia trionfale della globalizzazione verso l’appiattimento, l’omologazione e la desacralizzazione del mondo, è stata, senza dubbio, la cancellazione della domenica in quanto tempo sacro contrapposto al tempo profano; cancellazione che si è consumata nel giro di pochi anni e che, salvo qualche voce isolata e perfettamente inascoltata, è passata come fosse la cosa più natale del mondo, mentre, di fatto, ha abolito una tradizione millenaria, fra le più caratterizzanti della nostra civiltà. Come dire che se n’è andato un pezzo della nostra anima, del nostro passato, della nostra tradizione, senza che nessuno fiatasse; senza che la Chiesa facesse udire una parola chiara e inequivocabile, a partire dal più alto livello gerarchico; e senza che il mondo della cultura, non solo cattolico – perché la cultura è un fatto umano e riguarda tutti i membri della società — si ribellasse o avanzasse la più blanda riserva, o mostrasse la più timida perplessità. Nessun intellettuale, né cattolico, né laico, ha trovato scandalosa, o anche solo inopportuna e discutibile, la cosa; tutti, o quasi tutti, complice la crisi produttiva che sembra giustificare qualsiasi strategia volta a restituire forza alla domanda interna — a far ripartire i consumi, in parole povere – hanno trovato la cosa quanto mai naturale: il fatto, cioè, che la Nuova Famiglia Italiana (o quel che di essa rimane) non vada più a celebrare la domenica alla Santa Mesa, pregando e raccogliendosi nella riflessione sui valori morali, oppure che si conceda un meritato riposo o una sana distrazione, magari andando a trovare i parenti anziani o i propri cari defunti; ma che essa si rechi nel tempio pagano per eccellenza: il Supermercato, il Concessionario automobilistico o, meglio ancora, il Centro commerciale, ove si è sollecitati a spendere il più possibile, così, irrazionalmente, anche senza avere un vero bisogno, e ad adorare istintivamente tutte quelle merci scintillanti, quei vestiti, quei televisori, quei computer, quei prodotti cosmetici che promettono l’eterna giovinezza.

L’abolizione della sacralità domenicale e la trasformazione della festività religiosa settimanale nella celebrazione di un edonismo neopagano senza freni né limiti, nella quale, liberi dagli impegni di lavoro, ci si immerge integralmente nel banchetto consumistico, o trascurando la propria famiglia, o, peggio ancora, trascinando la famiglia, a cominciare dai bambini, nel clima perverso di una cieca adorazione delle cose, ha segnato un punto di non ritorno nella nostra visione spirituale della vita; per essere più precisi, ha segnato la distruzione della visione spirituale per sostituirla con una visione grettamente materialistica, edonista e utilitarista, al centro della quale non in vi sono più gli affetti, i valori e la trascendenza del sacro, ma una servile e mortifera divinizzazione degli oggetti, un culto irresponsabile e delirante dell’acquisto, dell’esibizione e dello spreco di sempre nuove merci quali rozzi surrogati dei beni spirituali.

Possiamo distinguere almeno tre distinte componenti in questo evento: la componente culturale, quella giuridica e quella morale.

Da una prospettiva culturale, si tratta del punto d’arrivo di tutta una linea di tendenza della nostra società, sempre più suggestionata dal modello americanista, stregata e sedotta dai suoi miti e dai suoi riti: un esempio per tutti è stato la sovrapposizione, incoraggiata da genitori, maestre e altri adulti, alla commemorazione dei defunti, pia tradizione cristiana ad alto contenuto spirituale, con la festa neopagana, malvagia e satanica di Halloween, la notte delle streghe, dei fantasmi e dei vampiri, nella quale bambini e adolescenti sono sollecitati a tirare fuori la propria parte peggiore, anche con atti di inciviltà e vandalismo, esercitando forme di minaccia e di ricatto nei confronti del prossimo e immergendosi in un clima di trasgressione alquanto diseducativo.

Dal punto di vista giuridico, abbiamo assistito, sotto la presidenza del massone Mario Monti, un presidente non eletto dal popolo italiano, ma nominato sotto la pressione di poteri forti finanziari — gli stessi che, guarda caso, sono interessati alla soppressione della domenica in quanto festività cristiana -, alla abolizione del divieto di apertura festiva degli esercizi commerciali. Tutti coloro che hanno almeno una quarantina d’anni ricorderanno come anche questa tendenza fosse già in atto, e che già da alcuni anni questo o quel supermercato aprisse le porte alla domenica, magari dopo averlo annunciato sulla stampa locale, per poi subire una ispezione da parte della Guardia di Finanza ed essere pesantemente multato. Quindi la decisione del governo Monti ha trovato il terreno preparato da una opinione pubblica, o, quanto meno, da una parte della Confcommercio, che vedevano l’obbligo di chiusura settimanale come una camicia di forza imposta dalle pubbliche autorità, e, pertanto, come un ostacolo da rimuovere quanto prima.

Dal punto di vista morale, infine, e specialmente dal punto di vista della morale religiosa, si è trattato di uno degli eventi più traumatici che abbiano colpito la nostra società, anche se, lo ripetiamo, esso non è apparso tale, perché si è imposto nell’arco di pochissimo tempo e senza quasi che la coscienza collettiva abbia avuto modo di registrarne l’impatto. Per la vita dell’anima, per il suo bisogno di raccoglimento e di silenzio, per i valori negativi che tale trasformazione comporta, non esitiamo a dire che si è trattato di una autentica catastrofe, i cui effetti non saranno meno funesti per il fatto di non essere chiaramente riconoscibili e valutabili. Ma è certo che, in una situazione complessiva della nostra società che già vedeva limitati al massimo gli spazi, anche esteriori, della preghiera, della spiritualità, del sano e doveroso colloquio dell’anima con se stessa (e, per i credenti, con Dio), la chiusura dello spazio più importante, anche per il suo valore simbolico, e, peggio, la sua profanazione e la sua riconversione in uno spazio violentemente, aggressivamente consumistico, non farà che peggiorare lo stato di angustia, di anemia, di disgregazione e sfarinamento spirituale e morale in cui egli versa, aggravando il male fondamentale dell’uomo contemporaneo: l’alienazione dal suo centro interiore.

Ci paiono quanto mai pertinenti le osservazioni con le quali il teologo Raimondo Spiazzi — nato nel 1918, morto nel 2002, domenicano, studioso prestigioso e infaticabile, autore di oltre 2.500 pubblicazioni, molte delle quali di cristologia e di mariologia – concludeva un ampio ragionamento sul significato cristiano della festività domenicale (in: R. Spiazzi, «Scientia salutis. I fondamenti teologici del ministero pastorale» (Edizioni Romane Mame, 1960, pp. 201-203):

«Verso la pienezza della visione in una gloria senza veli tende l’anima cristiana e gravita tutto il cristianesimo. Secondo san Tommaso […], la Nuova Legge, che è perfettiva dell’Antica, è a sua volta provvisoria e imperfetta per rapporto all’ultimo stadio dell’umanità, la partecipazione perfetta alla vita divina nei cieli. Il Cristianesimo è pertanto essenzialmente escatologico e finalistico, è la religione dell’aldilà, che dà all’anima una tensione ultraterrena, anche se non proscrive le cose dell’al di qua, ma insegna a usarne in ordine al cielo (1 Cor., 7, 31).

La domenica è il girono speciale in cui si pensa e si agisce in modo speciale in vista del cielo. È l’"ottavo giorno", il giorno cioè della nuova creazione, inaugurata da Cristo con la sua resurrezione e pervasa da energie divine comunicate dallo Spirito che "rinnova la faccia della terra". Qui come in cento altri aspetti della vita della Chiesa che si svolge nel mondo tra l’Ascensione la Parusia, si riscontra la presenza di un elemento di commemorazione e di un elemento di attesa e di speranza. Viene commemorata la risurrezione di Cristo e si riaccende l’attesa fiduciosa della seconda venuta, , nella speranza del trionfo finale. I due elementi anzi si uniscono in una sintesi, poiché la Chiesa fa passare i suoi figli al Regno dove hanno compimento le loro speranze, attraverso la partecipazione al mistero della morte e della risurrezione di Cristo. Il senso anagogico (come ha detto San Tommaso) della domenica è quello di un giorno in cui la vita cristiana viene sempre più orientata verso la gloria eterna e fatta già inizialmente partecipe della gioia, pace, libertà spirituale, lode di Dio che è retaggio dei giusti in cielo.

Nella domenica pertanto si costruisce veramente la Gerusalemme celeste, la Chiesa come città del cielo, composta di pietre vive, prese dalla terra ma levigate e aggiustate per la costruzione celeste. Il popolo sacerdotale approfondisce in quel giorno la propria sacralità. Celebra i fasti della propria regalità divina. Dà a Dio la testimonianza della sua fedeltà e della sua rispondenza alla vocazione eterna con cui è stato chiamato. I fedeli cessano in quel giorno di essere gli uomini della macchina, del lavoro, dell’agitazione terrestre, per entrare nei padiglioni di Dio quasi godendo, nella contemplazione e nella partecipazione ai divini misteri, un anticipo del riposo eterno.

È la Chiesa che con tutti i suoi membri si esprime come Sposa che chiama insistentemente e ardentemente lo Sposo: Vieni, Signore Gesù! (Apoc., 22, 17, 20). E in questo chiamarlo, con ansia sempre nuova, già a lui si dona, sempre più, si trasforma in lui, diventa suo possesso, suo Corpo, in modo sempre più perfetto, finché venga il giorno pieno. Così si compie il mistero della domenica, in ci si concentra il mistero stesso della Chiesa, come convocazione degli uomini in una celebrazione che è immagine e figura del riposo eterno, che è inizialmente offerto già adesso a coloro che sono diventati "partecipi del Cristo" (Ebr., 3, 14)., ossia di tutti i beni salutari presenti e futuri che egli ci concede "a questo patto: che teniam ferma sino alla fine la salda fiducia che avevamo da principio" (ib.).»

È chiaro, peraltro, che non dobbiamo commettere l’errore di confondere la causa con l’effetto e che, quindi, non dobbiamo pensare che la preservazione o, un domani, l’eventuale ristabilimento della sacralità domenicale (cosa comunque altamente improbabile) porteranno, di per sé, ad un ritorno delle persone verso una vita spirituale più autentica, vissuta in armonia con se stesse e non in funzione dei riti più ottusi e sfrenati del diabolico consumismo. Al contrario: è stato proprio l’allontanamento dell’uomo contemporaneo dalle sorgenti della vita spirituale a rendere possibile il "colpo di mano" del signor Monti e di tanti imprenditori, nonché di milioni di consumatori, dal quale è scaturito l’annientamento del significato religioso e cristiano della domenica.

La nostra presente riflessione vorrebbe essere aperta non solo ai credenti, ma a tutte le persone di buona volontà e di onesto sentire; vorremmo che ciascuna di esse riflettesse su cosa è andato perduto e su cosa è stato guadagnato dal cambiamento in questione. Non si tratta solo di aver sostituito lo squillo gioioso delle campane con il rumore disordinato del traffico automobilistico, il sacerdote con le commesse del centro commerciale, l’Eucarestia con la celebrazione dei riti neopagani del consumo compulsivo; è qualcosa di più e di peggio: è l’ulteriore, drammatico, e — forse – irreversibile allontanamento dell’uomo da se stesso, dal proprio centro di gravità.

Il centro di gravità dell’uomo è la vita dell’anima; per il credente, al centro della vita dell’anima c’è l’incontro con Dio — un incontro che ha bisogno di ritmi lenti, di silenzio, di riflessione, di quiete e di pace. Se l’uomo si allontana da quel centro, perde se stesso: e nessuna merce, nessun vestito firmato, nessun oggetto tecnologico di ultima generazione, riuscirà a riempire quel bruciante senso di vuoto, quella disperante sensazione di abbandono e solitudine. Uccidendo la domenica, l’uomo contemporaneo uccide se stesso: perché la domenica, il giorno del Signore, è anche il giorno in cui si celebra la sua più vera umanità, e in cui ciascuno va alla ricerca della parte migliore di se stesso. La parte migliore di un uomo o di una donna non si trovano fra le vetrine scintillanti dei negozi, ma nel dialogo con Dio e con i propri cari: quelli vivi e quelli che lo hanno preceduto sulla strada dell’eternità, e che non sono meno vivi per il fatto di esser divenuti invisibili.

Ecco, allora, che il sospetto di un grande complotto satanico ai danni dell’uomo contemporaneo, di cui la distruzione della festività religiosa domenicale è solo un anello, si fa strada con forza sempre maggiore: basta riflettere un poco, e ci si accorge che tutto torna, che certe coincidenze diventano significative e vanno a formare, come le tessere di un vastissimo mosaico, un disegno preciso, dai contorni inequivocabili. Accorgersi di questo, vuol dire essere già sulla strada della salvezza. Ecco perché dobbiamo impedire che la domenica diventi la celebrazione del Diavolo: per salvare le nostre anime, attualmente in gravissimo pericolo. Sappiamo bene che dire ciò significa passare per dei profeti di sciagura, per visionari e allucinati. Ma chi è a suggerire simili critiche, a ridicolizzare questo allarme? Egli ha un nome: è l’antico Nemico dell’uomo, che si serve dei suoi docili schiavi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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