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Anima del Friuli, pagana o cristiana?

É pagana o cristiana, l’anima friulana? Posta così, la domanda potrebbe sembrare quanto meno strana. Siamo nel terzo millennio: che senso ha domandarsi se una società sia pagana o cristiana? E poi, che cosa vuol dire una espressione come "l’anima friulana"? Forse che un popolo possiede un’anima collettiva? E i Friulani sono un popolo? E che cos’è un popolo? Esistono ancora dei popoli, oggi, nel mare magnum della globalizzazione, e per quanto tempo ancora sopravvivranno?

Andiamo per ordine. In quanto cittadini del terzo millennio, potremmo anche pensare che le questioni religiose non si pongano più, almeno a livello di collettività; che esistano, al massimo, come questioni personali. Decidere tale questioni significa prendere posizione riguardo al fatto del sacro e alla tensione verso l’assoluto. Per chi ritiene, come fanno i materialisti (i quali rappresentano, oggi, il 90% e più delle élites politiche, culturali, filosofiche, artistiche e scientifiche), che tanto il senso del sacro, quanto la tensione verso l’assoluto (fatta, a sua volta, di due elementi fondamentali: la coscienza del limite e il sentimento del mistero), siano prodotti culturali acquisti e non bisogni essenziali della natura umana, non c’è più spazio per un discorso religioso a livello diffuso: la civiltà moderna è radicalmente desacralizzata e non tornerà mai più a Dio, le persone non rivolgeranno mai più a Lui le loro energie, attese e speranze,  né il loro progetto di vita. Se, viceversa, si pensa – come noi pensiamo – che il senso del sacro e la tensione verso l’assoluto siano elementi primari e costitutivi della natura umana, e che l’uomo, anche volendolo, non potrebbe mai strapparli definitivamente via da sé, così come non potrebbe imporsi di vivere senza nutrirsi, senza idratarsi e senza concedersi alcun riposo, allora ne deriva che, terzo millennio o quinto o sesto, la questione religiosa resta sempre all’ordine del giorno: si tratta, semmai, di vedere quali forme abbia assunto, e da quale finestra sia rientrata, magari abusivamente e terribilmente deformata, dopo essere stata cacciata dalla porta. Infatti, un culto abnorme della ricchezza, o del potere, o del successo e del prestigio sociale (e sia pure di un successo di scandalo, o di un prestigio di dubbia provenienza), può essere la forma che il sentimento religioso, deviato dal suo alveo naturale, ha preso attualmente, sotto la pressione dell’economia consumista e con l’incoraggiamento della intellighenzia, la quale, oggi, è dichiaratamente o larvatamente su posizioni ateiste, laiciste e filo-massoniche (forse perché in gran parte al servizio dei poteri occulti finanziari).

La domanda a proposito della religiosità friulana non è, pertanto, né oziosa, né cervellotica: nessun popolo, a nostro parere, può vivere senza una qualche forma di religiosità. Per un popolo come quello friulano, che è stato investito dall’ondata della piena modernità solo in tempi assai recenti (a partire dagli anni Cinquanta del ‘900), si tratta ancora, almeno in parte, della religione tradizionale e non dei suoi più recenti surrogati, sia religiosi (che vanno dalle pseudo-religioni orientali, alle sette pseudo-religiose, fino alla religione rovesciata del satanismo vero e proprio) che laici (il culto del denaro, l’ossessione del sesso, ecc.): e si dovrà vedere, allora, quale sia la religione tradizionale di quel popolo. Nel caso dei Friulani, il dubbio circa il primato del paganesimo rispetto al cristianesimo potrebbe venire sia in conseguenza di un preciso retaggio storico – che vide il cristianesimo arrivare relativamente tardi, almeno in forma massiccia, rispetto ad altre parti dell’Impero Romano e dell’Italia stessa, e persistere ancora per parecchi secoli, al contrario, le migrazioni e le invasioni di popoli non cristiani, dai Visigoti agli Unni, dagli Ostrogoti ai Franchi, dai Longobardi agli Avari, dagli Ungari ai Turchi -, sia in considerazione della "rusticità" e della condizione relativamente appartata della società friulana rispetto alle altre regioni italiane, che ha consentito, più che altrove, la lunga sopravvivenza di forme di vita e di strutture culturali (la villotta, per esempio: poesia popolare intensamente emotiva) tipicamente pre-moderne.
Il "paganesimo" su cui c’interroghiamo non è, ovviamente, quello greco-romano, che in Friuli, forse, non arrivò mai, se non superficialmente e per le classi sociali più elevate: ma quello celtico – i Carni, gli antichi abitanti del Friuli pre-romano, erano di stirpe celtica, come i Galli -; e, più ancora, quello importato dagli invasori germanici della tarda antichità e dell’alto Medioevo, Ostrogoti prima, Longobardi poi, i quali erano in parte di religione ariana, ma in parte ancora legati alla religiosità germanica più antica, che si esprimeva in un politeismo a sfondo animistico, in quanto le divinità tradizionali erano in gran parte l’espressione di una concezione naturalistica, e avevano in sé le caratteristiche delle forze naturali, a cominciare dai luoghi di culto, che erano sempre all’aperto, nelle radure fra i boschi o in riva ai torrenti, essendo la natura, in fondo, non solo la cornice, ma il soggetto principale della religiosità germanica.

Ebbene, in molte tradizioni friulane degli ultimi secoli e decenni (come i pignarui, o falò dell’Epifania; o anche, meglio ancora, come i tîr des cidulis, propri della Carnia: ruote di legno incendiate che vengono scagliate dall’alto dei colli, in diversi giorni dell’anno, a seconda delle località), si può intravedere un riflesso di miti e riti assai più antichi, che certamente erano precedenti alla diffusione e al consolidamento del cristianesimo, e che quest’ultimo ha integrato nella propria tradizione culturale, pur avvertendone la sostanziale estraneità; oppure con i quali ha convissuto, ma ciascuno rimanendo nel proprio ambito, quasi in una pace armata e costantemente vigile, dovuta alla consapevolezza delle due parti contrapposte che nessuna di esse era abbastanza forte da poter sopraffare ed eliminare definitivamente l’altra. I cidulis, ad esempio, sono certamente di origine celtica, e la Chiesa li ha accettati o sopportati, magari collocandoli nel giorno del santo patrono, o all’Epifania, o a Natale o a Pasqua; nondimeno, il fatto che siamo concentrati, per la maggior parte, intorno al solstizio d’inverno, fa pensare che abbiano a che fare — come del resto i pignarui — con i riti del fuoco, che sono caratteristici di tutto l’arco alpino e che risalgono all’antichità, non solo pre-cristiana, ma anche pre-romana.

Un’anima popolare collettiva certamente esiste, a nostro parere (così come esiste anche un’anima dei luoghi); un’anima che non è la pura somma numerica degli individui che formaono un popolo, ma il retaggio spirituale e perenne di quel popolo, che si trasmette di generazione in generazione e che travalica, pertanto, la vita dei singoli individui, ponendosi come un modello di riferimento, un insieme di valori e un destino collettivo, che i singoli, in qualche nodo, servono, anche quando pensano di servire unicamente il loro personale progetto di vita, poiché, in ogni caso, si muovono all’interno di coordinate intellettuali e morali che sono proprie di quella comunità e di nessun’altra: infatti non esistono due popoli uguali, così come non possono darsi due individui uguali (cfr. i nostri articoli: «Dove va a finire l’anima dei luoghi?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 29/12/2013; e «Nelle pietre degli antichi edifici continua a vivere il genio della stirpe», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 01/06/2015).

E Friulano, certamente, sono un popolo, per molte ragioni, la più importante delle quali è che esiste una lingua friulana (non un dialetto friulano!), l’amata marilenghe, ossia la lingua madre di quanti sono nati fra la Livenza e l’Isonzo: perché è la lingua che fa un popolo, così come la lingua d’oc e la lingua d’oil hanno plasmato i due popoli di Francia, quello del Sud e quello del Nord, che solo nel corso di parecchi secoli si sono fusi in uno solo, ma non perfettamente, tanto è vero che il provenzale sopravvive come modello culturale ormai subordinato, e nondimeno autonomo, rispetto a quello che si è originato in riva alla Senna, nell’Île-de-France.

Quanto tempo resta da vivere ai popoli, nell’era della globalizzazione, è una domanda cui solo il domani potrà dare una risposta: non molto, comunque, se non si prenderà coscienza del problema e non si tenterà d’invertire la tendenza. Ma è certo che in un mondo senza più confini, senza identità, senza radici, senza senso di appartenenza e senza il sentimento di un comune destino, ove gli esseri umani sono tenuti insieme unicamente da ragioni di opportunismo e di convenienza personale, che possono venir meno in qualsiasi momento, i popoli sono destinati a scomparire all’interno di un amalgama indistinto e perennemente mutevole e provvisorio.

Queste riflessioni vengono in mente osservando una serie di fatti e di situazioni; ad esempio, sfogliando i romanzi di uno dei maggiori scrittori friulani del XX secolo, Carlo Sgorlon (nato a Cassacco 26 luglio 1930 e morto a Udine il 25 dicembre 2009), probabilmente il maggiore, almeno fra quelli che hanno scelto di esprimersi nella lingua italiana; a parte Alcide Paolini (nato nel 1928, vivente), che, però, al mondo friulano ha dedicato un solo libro, oltretutto rivolto a un pubblico giovanile, «Il paese abbandonato», Mauro Corona (nato nel 1950, vivente), che però è prima di tutto un alpinista e uno scultore; e Siro Angeli (1913-1991), che è stato un grande poeta e un drammaturgo, ma non un narratore (cfr. i nostri precedenti articoli: «Una pagina al giorno: l’incontro con la Clautana, di Carlo Sgorlon», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 07/04/2008; «Una pagina al giorno: così muore un paese, di Alcide Paolini», pubblicato sullo stesso sito in data 08/04/2008; e «Tra i muri del paese abbandonato indugia la memoria d’una donna buona», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 19/05/2015; e «Una pagina al giorno: una "Vita nuova" dei nostri giorni, di Siro Angeli», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 27/01/2009).

Già dai titoli di alcuni essi (ad esempio «Gli dèi torneranno», del 1977), ma soprattutto dalla storie in essi narrate, dai personaggi, dalle situazioni, da quella dimensione fiabesca che aleggia ovunque, impalpabile e tuttavia concreta, viva e presente, si respira, nei libri di Sgorlon, una atmosfera che non è soltanto fuori dal tempo e dalla storia, lontana dalla realtà urbana e prepotentemente immersa nel mondo ancestrale della foresta, del monte, della lontananza o della memoria, sostanzialmente estraneo al mondo attuale, qualcosa di primigenio, di pre-cristiano, di pagano: d’un paganesimo naturalistico e quasi animistico, che si riallaccia alle antichissime credenze negli spiriti del bosco, nelle "anguane", le ninfe alpine dei fiumi e delle sorgenti, e, in genere, in un soprannaturale che non è quello cristiano, ma un altro, molto più antico e "primitivo", più vicino agli elementi della natura primordiale e incontaminata.

Nel romanzo «La fontana di Lorena» (1990), ad esempio, il personaggio della protagonista, Eva, una pittrice che vive non lontano dal paese di Adegliano ed è proprietaria, con la sorella Astrid, di un vasto ed antico bosco, chiamato il Bosco del Forzato, l’elemento "pagano", animista, pre-cristiano, emerge con prepotenza fin dalla sua adolescenza. Ancora ragazzina, Eva, che ha sempre sentito una possente attrazione per il bosco e per la sua vita misteriosa, un giorno decide di non rientrare a casa, ma vi si trattiene al calar della notte, spiando gli animali, i suoni, le voci e, infine, immergendosi nell’acqua del fiume per farvi un bagno simbolico nella luce lunare, come le streghe del tempo andato. Sgorlon poi passa a parlare di Giulia, la figlia di Eva, che ha appena avuto le mestruazioni, cosa che induce sua madre a pensare che ella è entrata nel gran mare dell’Eros: Eros che, ella pensa, è dappertutto, è il sottinteso di ogni cosa e circola ovunque, anche negli atti e nei pensieri apparentemente più lontani da esso (e qui sembra di leggere il dottor Freud); Eros che, in fondo, altro non è che il volto nascosto della Natura stessa.

Ci si chiede, a questo punto, se Sgorlon, che si pone come lo scrittore della vera anima friulana, cioè d’un Friuli mitico, sognante, rurale, fiabesco, pre-urbano e pre-moderno, abbia saputo davvero interpretarla in profondità: perché essa non è pagana, naturalistica e animista, ma profondamente e intensamente cristiana. Basta vedere un nonno o una nonna friulani per capirlo al volo. Un "vero" scrittore friulano deve essere interprete della civiltà cristiana del Friuli, indipendentemente — vorremmo dire – dalle sue personali convinzioni in materia religiosa: perché il "vero" Friuli è quello della chiesa e del cimitero, come dice Carducci (ne «Il comune rustico», scritto, appunto, dopo un soggiorno ad Arta Terme): della chiesa che prega e del cimitero che dorme. Cristiana è la civiltà del Friuli, la civiltà del ducato longobardo, poi del patriarcato aquileiese, infine del periodo veneziano e di quello austriaco; e proprio nella religione, oltre che nella sua lingua, il popolo friulano ha sempre trovato l’energia spirituale e materiale per resistere a tutte le invasioni, a tutte le carestie, a tutti i terremoti, a tutte le emigrazioni, a tutte le drammatiche prove della sua storia più che millenaria.

In questo senso, e solo in questo senso, meglio di Sgorlon, a nostro avviso, hanno saputo cogliere l’intima essenza dell’anima friulana due poeti come Pier paolo Pasolini e David Maria Turoldo; anima che è malinconica e sognante, sì, ma intimamente religiosa: perfino quando è esacerbata ed erompe nella ribellione della bestemmia. Il lato "debole" della rappresentazione dell’anima friulana, in Sgorlon, viene da una sorta di soggezione al modello (soprattutto latino-americano) del "realismo magico". La dimensione della magia, del sogno, della visione, però, è, senza dubbio, un aspetto centrale dell’anima friulana (come di quella slava, peraltro): ma nel contesto d’un’anima cristiana…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Biswajeet Mohanty from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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