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L’uomo, per d’Holbach, è un essere naturale che si risolve interamente sul piano del finito

Paul Henry Thiry d’Holbach è il nome francesizzato di un barone tedesco, Paul Heinrich Dietrich von Holbach (nato a Edesheim, nella Renania-Palatinato, l’8 dicembre 1723 e morto a Parigi il 21 febbraio 1789), che fu uno dei maggiori enciclopedisti e che passa, pertanto, per essere stato uno dei più importanti philosophes della Francia settecentesca, ossia uno dei più importanti diffusori delle concezioni illuministe in Europa e nel mondo.

Materialista, determinista, ateista, anticlericale, utilitarista: nel suo pensiero si raccolgono, con esemplare chiarezza e coerenza, tutti i rivi del grande fiume illuminista, si sviluppano tutte le premesse della filosofia dei "lumi", spazzando via le soluzioni intermedie e provvisorie (come il deismo di Voltaire o di Rousseau, che, in questo, appaiono meno coraggiosi e conseguenti di lui), e viene proclamato un umanesimo integrale, assoluto, intransigente, al di fuori o al disopra del quale nulla esiste, né potrebbe esistere: perché l’uomo, visto esclusivamente come un prodotto della natura (al pari degli altri esseri), rappresenta l’unica realtà sulla quale egli stesso può fondare il suo progetto di razionalità, di benessere e di felicità.

Come tutti i philosophes, Voltaire e Diderot compresi, anche d’Holbach non è affatto un filosofo, se con questo termine si intende un pensatore che sia originale e profondo nel suo interrogarsi di fronte al reale e nella sua ricerca della verità; che sia, inoltre, capace di argomentare razionalmente e coerentemente, esaminando i vari lati e diversi pro e contro di ogni questione, per giungere ad una sintesi finale che non sia, semplicemente, una petizione di principio, o una generica sommatoria delle singole osservazioni e riflessioni svolte, ma che possieda, in più, quel respiro ampio, quella lucidità e quella forza di penetrazione che lo distanziano, e di molto, dai pensieri banali dell’uomo qualunque, abituato a restare in superficie e a giudicare le cose secondo le apparenze, magari con la ridicola pretesa di aver capito tutto e di potere, anzi, di dovere dispensare agli altri le sue inarrivabili perle di saggezza.

La filosofia di d’Holbach è quanto di più piatto, monotono, puerile, si possa immaginare; il suo naturalismo è un atto di fede, senza principio e senza dimostrazione; la sua gnoseologia è un banale sensismo; la sua metafisica non esiste, perché egli la nega e la rifiuta; la sua etica, un grossolano utilitarismo; la sua pedagogia, un pragmatismo scientista; la sua psicologia, un meccanicismo assoluto, che lo porta a definire gli stessi impulsi spirituali come una "risposta", puntuale e prevedibile, alle stimolazioni esterne (cosa che, se fosse stato un vero filosofo, capace di trarre le logiche conclusioni dalle premesse di un discorso, avrebbe dovuto portarlo al più fatalistico determinismo, con buona pace di tutti i suoi sogni, e di quelli dei suoi colleghi, circa il Progresso e le meravigliose sorti che l’umanità è chiamata a costruire da se stessa e per se stessa). Il suo naturalismo, in particolare, è così integrale, che lo conduce a escludere che vi sia null’altro, nell’uomo, o alcuna altra influenza, fuori di quelle che su di lui esercita la natura stessa. Il che porta il suo pensiero, se così vogliamo chiamarlo, a rinchiudersi in un circolo vizioso senza sbocco: se tutto quel che vi è nell’uomo, è di origine naturale, come mai e da dove egli avverte in sé il bisogno di una "risposta" altra alle massime domande che sia capace di porsi: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo — e, soprattutto, perché? D’Holbach risponde che l’uomo, per ignoranza, si è inventato gli dèi; ma che, liberatosi dall’ignoranza, potrà farne finalmente a meno, anzi, deve farne a meno, perché solo così sarà in grado di prendere il suo destino nelle proprie mani.

Che nell’uomo vi sia una tensione metafisica, cioè una tensione verso l’assoluto, la quale non può essere di origine naturale, perché in natura non esiste nulla di simile, né si può trovare, in natura, una risposta ad un tale quesito, è un pensiero che non lo sfiora neppure: e anche da ciò si vede la modestia del suo pensare. Il suo ateismo, infatti, non è tanto il frutto di un ragionamento, quanto la premessa di un postulato: che l’uomo sia completo in se stesso, così com’è, ovvero come è uscito dalla mani della Natura. Perché l’uomo sia compiuto in se stesso, bisogna che Dio non esista, e che egli non sia opera Sua: ed ecco la necessità dell’ateismo. L’ateismo è necessario a d’Holbach per fare da architrave al suo pensiero: non è il risultato di un vero argomentare, di un valutare — in maniera imparziale — pregi e difetti di un certo ragionamento. In fondo, è esattamente lo stesso modo di "ragionare" che sarà sintetizzato da Michail Bakunin cent’anni dopo, con la nota formula: «L’uomo è libero; ma, se Dio esistesse, allora l’uomo sarebbe schiavo; dunque, Dio non esiste». Una logica veramente ammirevole, degna d’un autentico pensatore.

Affinché il lettore possa farsi un’idea del livello filosofico del pensiero di d’Holbach, riportiamo alcuni passaggi centrali della sua opera maggiore, il «Sistema della natura» (citato in: G. Reale — D. Antiseri, «Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi», Brescia, La Scuola Editrice, 1983, vol. 2, pp. 544-546):

«L’uomo è opera della natura, esiste nella natura, è sottoposta alle sue leggi e non può liberarsene, non può, nemmeno con il pensiero, uscirne; vanamente la sua intelligenza tenta di oltrepassare i limiti del mondo visibile, è sempre costretta a rientrarvi. Per un essere formato dalla natura e da essa circoscritto, non esiste nulla al di là del gran tutto di cui fa parte e di cui subisce le influenze; gli esseri che si suppone esistenti al di sopra della natura o comunque diversi da essa, saranno sempre chimere, delle quali non potremo mai avere conoscenze esatte, così come degli spazi da esse occupate e del loro modo di agire. Non c’è e non può esserci nulla al di fuori dei limiti che racchiudono tutti gli esseri. […]

L’uomo è un essere puramente fisico; l’essere spirituale non è altro che questo stesso essere fisico considerato da un particolare punto di vista, cioè relativamente a qualcuno dei suoi modi d’agire, dovuti alla sua particolare organizzazione. Ma non è forse questa stessa organizzazione opera della natura? I movimenti o la capacità d’agire di cui è suscettibile non sono forse fisici? Le sue azioni visibili, come i movimenti invisibili eccitati nel suo interno, provenienti dalla volontà e dal pensiero, sono ugualmente effetti naturali, conseguenze necessarie del suo meccanismo specifico e degli impulsi che riceve dagli esseri dai quali è circondato. […] L’uomo fisico è l’uomo agente sotto l’impulso di cause riconoscibili mediante i sensi; l’uomo spirituale è l’uomo agente per cause fisiche che i nostri pregiudizi ci impediscono di conoscere. […]

[L’uomo]  a causa della sua ignoranza intorno alla natura, si creò degli dei, che divennero gli unici oggetti delle sue speranze e dei suoi timori. Gli uomini non si resero minimamente conto che la natura, priva sia di bontà che di malvagità, non fa che seguire leggi necessarie e immutabili […].

[I concetti teologici] non hanno alcuna realtà, non sono che parole vuote di senso, fantasmi creati dall’ignoranza e modificati da un’immaginazione malata […]. La teologia e i suoi concetti, ben lungi dall’essere utili al genere umano, sono la vera fonte dei mali che affliggono la terra, degli errori che l’accecano, dei pregiudizi che la paralizzano, dell’ignoranza e dei vizi che la tormentano, dei governi che l’opprimono. […] Le idee soprannaturali e divine che ci vengono insegnate fin dall’infanzia, sono le vere cause della nostra abituale incapacità di ragionare, delle dispute religiose, delle guerre di religione e delle più inumane persecuzioni. Riconosciamo infine che queste idee funeste hanno oscurato la morale, corrotto la politica, ritardato i progressi delle scienze, distrutta la felicità e la pace nel cuore stesso dell’uomo. […]

[L’uomo] cerchi nella natura e nelle sue proprie forze quelle risorse che mai sorde divinità gli potranno procurare. Ascolti i desideri del suo cuore, saprà che cosa deve a se stesso e agli altri; esamini la natura e lo scopo della società e non sarà più schiavo; consulti l’esperienza,  troverà la verità e riconoscerà che l’errore non potrà mai renderlo felice. […]

Le azioni degli uomini non sono mai libere; sono sempre conseguenze necessarie del loro temperamento, delle loro idee acquisite, delle nozioni vere o false che posseggono intorno alla felicità, insomma delle loro opinioni e rafforzate dall’esempio, dall’educazione, dall’esperienza di ogni giorno[…]

L’uomo non è dunque libero in ogni istante della sua vita, è necessariamente guidato in ogni suo passo dai vantaggi reali o fittizi che attribuisce agli oggetti che eccitano le sue passioni. […] Sono io forse padrone di non desiderare un oggetto che mi appare desiderabile? Sono forse capace di impedire che le qualità che mi rendono desiderabile un oggetto si trovino in esso? […]

[Ogni uomo tende alla felicità e] tutte le società si propongono lo stesso scopo; è infatti per essere felice che l’uomo vive in società. [La società è] un insieme di individui, riuniti dai loro bisogni allo scopo di collaborare alla conservazione e alla felicità comuni. […]

Se l’errore e l’ignoranza hanno forgiato le catene dei popoli, e in pregiudizi le hanno rinsaldate, la scienza, la ragione, la verità potranno un giorno spezzarle. Lo spirito umano oppresso, durante una lunga serie di secoli, dalla superstizione e dalla credulità, si è finalmente risvegliato. Anche le nazioni più frivole incominciano a pensare; la loro attenzione si fissa sugli oggetti utili, le pubbliche calamità costringono infine gli uomini a meditare, a rinunciare a quelli che possiamo chiamare i giocattoli della loro infanzia. Persino i principi, stanchi dei loro deliri, cercano talora nella ragione un rimedio contro i mali che essi stessi si sono procurati.»

Ci si chiederà come è possibile che un pensatore di così modesto livello abbia potuto essere una colonna portante della «Encyclopédie» e come i moderni storici della filosofia possano ancora tramandare la sua memoria come quella di una delle figure più significative dell’Illuminismo. La risposta è nella comune radice massonica, la quale, come un fiume sotterraneo, si è prolungata fino ai nostri giorni, assicurando rinomanza e rispetto ad entrambi. D’Holbach era un massone — membro della parigina Loge des Neuf Soeurs del Grande Oriente di Francia – e l’«Encyclopédie» è stata l’espressione organica e didattica del pensiero massonico; nessuna meraviglia, del resto: massoni erano pressoché tutti gli esponenti del movimento illuminista sulle due sponde dell’Oceano Atlantico: la sponda americana (Benjamin Franklin) e quella europea (David Hume: tanto per fare due nomi celebri; ma l’elenco competo sarebbe legione). L’«Encyclopédie» era un’opera ideologica ad altissimo tasso di faziosità: non una sola delle sue voci scaturiva da un disinteressato desiderio di spezzare il pane della conoscenza ai doviziosi lettori (il suo costo era enorme); il suo scopo era quello — per usare un’espressione galileiana — di «rifare i cervelli», cioè non solo porre delle nuove idee al posto delle vecchie, ma modificare strutturalmente il modo stesso di pensare. E, se un simile processo dovesse apparire un po’ folle, si tenga presente che esso è in gran parte riuscito.

La cultura contemporanea è figlia dell’«Encyclopédia»: da lì vengono gran parte dei pensatori, degli storici, degli scienziati del XIX e XX secolo; le ideologie politiche che hanno seminato guerre "totali", pulizie etniche, genocidi e sterminî di classe; da lì viene la presunzione scientista degli Angela, degli Odifreddi, delle Hack; la pornografia di un Moravia spacciata per letteratura, la banalità di un Onfray spacciata per filosofia, l’arroganza dei parlamentari che esigono il matrimonio omosessuale, l’eutanasia legalizzata, il multiculturalismo obbligatorio; l’ipocrisia dei salotti radical-chic, dove si parla dei diritti del popolo, ma con i camerieri in guanti bianchi che servono a tavola, le domestiche, i cuochi, i giardinieri, le bambinaie per le mogli dei "progressisti" altolocati.

A proposito d’ipocrisia. D’Holbach non firmò parecchie opere — le più polemiche contro Stato e Chiesa – per eludere la censura e le critiche; e la cosa viene tuttora presentata come un esempio della sua grandezza d’animo, ossia della sua capacità di spogliarsi dell’egotismo di scrittore, purché le sue idee potessero circolare il più largamente possibile. Ma non basta. Alla morte, le sue idee antireligiose erano così poco conosciute, che nessuno trovò nulla da obiettare circa il fatto che gli venissero tributate le onoranze religiose secondo il rito cattolico (nella parrocchia parigina di Saint Roch). Ateo e massone, dunque, ma con giudizio: perfetto antesignano dell’intellettuale progressista dei nostri giorni, molto attento a certe convenienze – anche nel senso materiale del termine. I tempi cambiano, ma la musica è sempre quella: ripetitiva, logora, un po’ squallida: altro che Progresso…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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