
Pascoli poeta cristiano?
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Nietzsche e il proletariato come classe impossibile
4 Novembre 2015Che bella cosa: viviamo in una società che, a partire dal buon Voltaire, ha dichiarato guerra, or sono almeno tre secoli, al pregiudizio, in qualunque forma e sotto qualunque travestimento si presenti; abbasso i pregiudizi, allora, e viva la libertà del pensiero!
Tralasciamo, naturalmente, nella presente sede, il fatto che, in questa specie di crociata ideologica, si smarrisce completamente il ruolo positivo e necessario che il pregiudizio svolge nell’atto del pensare, e, dunque, nel sorgere e nel costituirsi di qualunque società che si regga, bene o male, su una qualche forma razionale di organizzazione (cfr., su ciò, i nostri precedenti articoli: «Elogio del "pregiudizio", contro la tirannia di una ragione arrogante e totalitaria», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 25/01/2014, e su «Il Corriere delle Regioni» il 27/01/2014; e «Pregiudizio e tradizione: i due fondamenti del pensiero e della società», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» il 24/09/2015).
Prendiamo per buono il fatto che il pregiudizio sia un male e che esso vada incessantemente snidato, combattuto, eliminato, ovunque si trovi. Benissimo.
Tuttavia… c’è un piccolo dettaglio, talmente piccolo da sembrare quasi insignificante, che non si lascia inserire tanto facilmente in questo quadro trionfalistico; che resiste, ostinato e seccante, ad ogni sforzo per "normalizzarlo" e addomesticarlo. Si tratta di una semplice domanda: Quis custodiet custodes? Chi sorveglia i custodi? Cioè: chi vigila, non sul pregiudizio medesimo (ce ne sono già tanti a sorvegliarlo, nella cultura del politically correct: praticamente tutti!), ma su quanti vigilano su di esso e contro di esso? In altre parole: è possibile che si formi un vero e proprio pregiudizio dell’antipregiudizio; e che la società e l’individuo, tutti presi dal sacro fuoco di battersi contro il pregiudizio, chiamiamolo così, di primo livello, si trovino poi sprovvisti degli strumenti necessari a riconoscerlo ad un secondo livello, nonché dei mezzi atti a difendersene?
Vogliamo fare un esempio, per rendere più chiaro il nostro discorso. In tutti i libri di storia dedicati alla caccia alle streghe, si parte dall’assunto che le streghe non esistevano, o che, se pure esistevano, erano solo delle povere donne, forse squilibrate, forse calunniate, comunque sostanzialmente innocue; e che il fenomeno dei processi alla stregoneria si può ascrivere, tutto intero, all’isteria collettiva che si era impadronita, come una specie di lucida pazzia, dell’intero corpo sociale, bisognoso di sfogare su qualcuno le proprie paure, rabbie e frustrazioni. Se pure non è stato qualche cosa di peggio: una strategia deliberata, da parte dei poteri costituiti, e specialmente della Chiesa cattolica, per deviare, manipolare, strumentalizzare, la collera sociale e per rafforzare, indirettamente, la propria tirannica presa e lo sfruttamento ai danni delle masse ignoranti, superstiziose e credulone.
A quanto pare, nessuno, o quasi nessuno, al giorno d’oggi, ha il coraggio di porsi da un altro punto di vista. Di fronte ad un fenomeno protrattosi per alcune centinaia d’anni, e riconosciuto anche da gran parte dell’establishment culturale — e non parliamo tanto del "buio" Medioevo, ma soprattutto dello splendido Rinascimento e del razionalista XVII secolo -, si direbbe che nessuno studioso contemporaneo abbia avuto l’umiltà di prendere in esame, anche come semplice ipotesi, la possibilità che la stregoneria esistesse veramente (tanto più che esiste anche al giorno d’oggi, e la cosa è perfettamente conosciuta); che streghe e stregoni rappresentassero un reale pericolo per la società civile e per la convivenza umana, oltre che per il sentimento e la pratica religiosa; e che i loro poteri — reali o immaginari che fossero, questa è una questione che lo storico dovrebbe lasciare aperta, e passare la mano ad altri studiosi: gli antropologi, i teologi, gli studiosi del paranormale e del preternaturale — fossero comunque percepiti come temibili e come reali, e, pertanto, che provocassero un forte elemento di divisione, di confusione ed instabilità nel tessuto sociale e nelle relazioni umane.
Esistono, del resto, indizi, e anche più che indizi, dati di fatto, che ci permettono di gettare uno sguardo nel mondo tenebroso della stregoneria. Si pensi al caso, celeberrimo, di Gilles de Rais (1405-1440), barone di Francia, eroico guerriero nella Guerra dei Cent’Anni, seguace di Giovanna d’Arco, e poi, quasi senza soluzione di continuità, assassino di centinaia di bambini, sadico, pedofilo, stupratore, squartatore in grande stile. Dietro i suoi crimini orrendi, e quasi inconcepibili, l’ombra della stregoneria: in particolare, la tenebrosa presenza di un mago italiano, Francesco Prelati, complice e istigatore di siffatte atrocità. Come negare che la stregoneria e il satanismo (i due uomini evocarono più volte il Demonio) possano aver svolto un ruolo in altri delitti e in altri malefici, così come lo svolsero nel caso di Gilles de Rais?
Lo ripetiamo: lo storico non è chiamato, da solo e con le sue sole forze, a decidere se i poteri di una strega o di uno stregone sono reali, oppure no; ma certo è chiamato a interrogarsi sulla persistenza plurisecolare di una simile credenza, e a prendere atto che tale credenza esisteva, e che esisteva la credenza negli effetti malefici della stregoneria. Altrimenti, egli sarebbe come uno studioso di Dante che si rifiuti di accettare l’idea che Dante si considerava uno scrittore cristiano, divinamente ispirato e investiti di una missione profetica ed escatologica: riportare gli uomini dalla selva oscura del peccato al colle luminoso della Grazia; ricondurre le anime smarrite verso l’amore di Dio. Ad un tale dantista, crediamo, sfuggirebbe il senso più profondo della «Divina Commedia»: e ciò solo per i pregiudizi (questi, sì, negativi: ma chi è disposto a vederli e a riconoscerli?) della sua prospettiva materialista, razionalista e relativista. Se si vuol comprendere qualcosa di Dante, bisogna spogliarsi di tale armatura ideologica; e lo stesso vale se si vuol capire il fenomeno dei processi alle streghe. Comprendere non significa giustificare: non si tratta di dar ragione ai carnefici, e torto alle vittime; non compete allo storico di salire sul banco del tribunale e di emettere sentenze, di condanna o di assoluzione che siano; egli non deve giudicare, ma tentar di capire. Per esempio, tentare di capire se le vittime erano solo e unicamente vittime, e se i carnefici erano solo e unicamente carnefici. Non potrebbe darsi che le vittime fossero anche un po’ carnefici, e i carnefici, un po’ vittime? Porre simili interrogativi — è superfluo precisarlo, ma bisogna farlo per evitare ogni possibile equivoco — non equivale affatto a giustificare i roghi.
E adesso torniamo al nostro assunto generale: chi ci protegge dal pregiudizio dell’antipregiudizio? Per farsi un’idea del tipico approccio della cultura "liberale" e "progressista" al fatto del pregiudizio, basta sfogliare un qualunque manuale di psicologia o di sociologia politicamente corretti, vale a dire, un qualsiasi manuale di psicologia o sociologia tout-court: non ve ne sono, o non circolano nelle scuole e nelle università, che non rispecchino l’impostazione del Pensiero Unico oggi imperante. Un esempio fra mille: si veda quel dice sul pregiudizio una autorità in materia, lo psicologo americano Gordon W. Allport (1897-1967), esponente della "psicologia dei tratti" e del cognitivismo, nel suo famoso saggio «La natura del pregiudizio» (titolo originale: «The nature of Prejudice», Cambridge, Mass., Addison-Welsey Publ., 1954; traduzione dall’americano di Mario Chiarenza, Firenze, La Nuova Italia, 1973, pp. 197-198), premettendo alle sue osservazioni un aforisma di Schopenhauer, piegato e adattato opportunamente alle sue particolari intenzioni:
«"Sopportare ciò che ci tocca in sorte a causa della nostra natura o del nostro destino non sembra così doloroso come sopportare quanto ci viene inflitto dall’arbitrio di altri." A. SCHOPENHAUER
Chiedete a voi stessi che cosa accadrebbe alla vostra personalità se continuamente qualcuno vi dicesse che siete pigri, bastardi, ladri ad ogni occasione favorevole, e che avete sangue inferiore. Supponiamo che tale opinione sia sostenuta dalla maggioranza dei vostri concittadini. E supponiamo che voi non possiate fare nulla per mutare questa opinione — perché per l’appunto avete la pelle nera.
Oppure supponiamo che ogni giorno vi si dica che siete degli abili furfanti, fortunati negli affari, non graditi nelle associazioni e negli alberghi, capaci di mescolarvi soltanto con gli ebrei e, proprio per questo da tutti biasimati. E supponiamo ancora che voi non possiate fare nulla per mutare questa opinione — perché per l’appunto siete ebrei.
La reputazione di una persona, vera o falsa che essa sia, finisce, a lungo andare, per modificare il carattere della persona stessa che ne è l’oggetto.
Un bambino che si vede respinto e attaccato da ogni parte non potrà tanto facilmente sviluppare dignità ed equilibrio quali caratteri preminenti della sua personalità. Al contrario, egli svilupperà difese. Come un nano in un mondo di giganti minacciosi, egli non potrà combattere ad armi pari. Sarà costretto ad ascoltare le loro beffe, i loro apprezzamenti derisori e a soggiacere ai loro abusi.
Molte sono le cose che quel nano indifeso può fare, e tutte servono a difendere il suo Io. Può rinchiudersi in se stesso, parlare poco a quei giganti prepotenti, e non essere mai sincero. Può fare lega con gli altri nani deboli come lui, per trovare conforto e rispetto. Egli tenterà di ingannare i giganti quando può, ed assaporare così il dolce gusto della vendetta. In un momento di disperazione può spingere un gigante giù da un precipizio o colpirlo con un sasso, se è certo di uscirne impunito. Oppure, non avendo altra via d’uscita, può fare ciò che il gigante vuole, e condividere l’atteggiamento poco complimentoso che ha il sui padrone verso gli altri nani. Il suo naturale amor proprio, sotto la sferza del persistente disprezzo, può evolvere nell’odio verso se stesso.»
Ora, non abbiamo alcuna intenzione di polemizzare sul merito delle affermazioni di Allport riguardo a questi due particolari gruppi etnici, i neri e gli ebrei; il punto che ci interessa non è questo: il punto è l’approccio metodologico di Allport, che è, a nostro avviso, completamente sbagliato, per la semplice ragione che non si può esaminare solo un estremo del pregiudizio, ossia gli effetti negativi che esso provoca. No; per onestà intellettuale, bisogna assumere come ipotesi di lavoro anche l’esame dell’altro estremo: la sua genesi. Bisogna anche chiedersi se una persona è pigra perché tutti le ripetono che è pigra, o se — per caso — non potrebbe anche essere accusata di pigrizia, perché lo è realmente, anteriormente alle accuse. In altre parole: un pregiudizio antico, radicato, diffuso, nasce sempre e comunque dal nulla? Nasce sempre e comunque dalla stupidità, dall’ignoranza, dal pregiudizio stesso? Come è possibile che il pregiudizio sorga da se stesso, quando ancora non esisteva? Possiamo ammettere che il pregiudizio, diffondendosi, dilagando, si auto-alimenti; ma come è nato? Deve esserci stato qualche elemento che lo ha fatto nascere; non diciamo, necessariamente, un elemento reale, nel senso di oggettivo; forse si è trattato di una falsa percezione, di una falsa notizia, di un atteggiamento di credulità, di opportunismo: tutto quel che si vuole. Ma qualcosa deve esserci stato, perché dal nulla non nasce nulla, nemmeno un pregiudizio.
Naturalmente, se noi escludiamo a priori, come fa la cultura moderna, che certe cose siano possibili, solo perché non sono del tutto razionali (nel senso moderno della razionalità, beninteso), allora ci precludiamo la possibilità di capire come e perché certi pregiudizi nascano. Un pregiudizio è come una calunnia, una maldicenza: le calunnie e le maldicenze nascono dal nulla? Evidentemente no. Possono nascere da una errata o malevola interpretazione di fatti, di per sé innocui; oppure da una amplificazione, preoccupata, per dei fatti che sono innegabilmente veri e reali.
Questo, però, la cultura liberale e progressista non lo ammette; non è neanche disposta a prenderlo in considerazione. Per essa, le vittime sono sempre e solo vittime, e i carnefici sempre e solo carnefici. Essa, per timore di fare un torto alle vittime, preferisce fare un torto all’intelligenza, la quale ci ammonisce che raramente il bene e il male, il vero e il falso, sono radicalmente separati e opposti. E non dimentichiamo i poteri forti che agiscono nell’ombra e che sono interessati a negare anche solo la possibilità di certe cose. Ad esempio, bisognerà dire che la Massoneria non ha mai tramato, né mai ucciso alcuno, solo perché ciò saprebbe di pregiudizio: e questo fatto, a chi giova? Eppure sappiamo che la Massoneria ha tramato, ha ucciso. Quanti campioni della crociata contro il pregiudizio sono sul libro paga di tali poteri occulti? Ma è difficile dire anche ciò; essi hanno già pronta la contromossa: accusare di pregiudizio complottista quanti puntano l’indice contro di loro…
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