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Per crescere spiritualmente, dobbiamo saper tornare là dove siamo stati spezzati

Il genitore che non riesce a dialogare con i suoi figli, che non riesce ad ascoltarli e a capirli, che non sa mettersi nella loro prospettiva, vive un profondo disagio, che può manifestarsi o no, ma che, quasi sempre, nasconde un acuto senso di inadeguatezza e di frustrazione e, quindi, un lacerante senso di colpa. Non si tratta, peraltro, di una condizione esistenziale esclusiva, e nemmeno caratteristica, di colui che è genitore: lo stesso disagio e la stessa frustrazione, con relativa perdita di autostima e di energia vitale, sono tipici di un grandissimo numero di uomini e donne, i quali, indipendentemente dal loro ruolo familiare e sociale, dalle loro responsabilità professionali (dietro le quali, nondimeno, talvolta amano nascondersi), dal sesso, dall’età e dalla condizione economica, si sentono costantemente, qualsiasi cosa facciano e qualunque decisione prendano, incapaci e fuori parte, ansiosi e amareggiati; e ciò non a causa di circostanze oggettive sfavorevoli — qualunque cosa significhi codesto concetto di "oggettività", che è assai meno evidente di come lo descrive la cultura di matrice positivista -, ma proprio per una radicale, drammatica sfasatura tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, tra come si vive e come si vorrebbe vivere.

Di per sé, sentirsi inadeguati non è un male, anzi, è il segno che si è vivi, che ci s’interroga, che si tende a qualche cosa di migliore e di più alto della quotidianità abituale, pigramente soddisfatta di se stessa; significa che si percepisce la distanza tra le proprie potenzialità, tra le proprie aspirazioni più profonde, tra lo scopo di vita che si sta perseguendo, e la realtà effettiva: senza tale consapevolezza, e dunque senza tale insoddisfazione, non ci sarebbe la tensione verso qualche cosa d’altro, non vi sarebbe alcuna ricerca interiore; anzi, per parlare più esattamente, non vi sarebbe alcuna forma di vita interiore, ma solo una piatta e banale esteriorità. È chiaro, d’altra parte, quanto sia pericoloso, e, alla lunga, esiziale, il permanere in un simile stato di scoraggiamento e di scarsa autostima: si finisce, inevitabilmente, o per piegare verso una crescente rassegnazione, un compiaciuto senso di sconfitta, sconfinante nel vittimismo e, forse, nel masochismo, oppure per cadere nel cinismo di chi ha deciso che non c’è niente da fare e, dunque, la cosa migliore è quella di sfruttare al massimo, in senso puramente edonistico e utilitaristico, tutte le occasioni favorevoli che si presentino alla portata.

Possiamo ingannare tutti, ma non i bambini; non i nostri figli. Essi intuiscono, o addirittura vedono con molta chiarezza, quello che noi ci sforziamo di nascondere non solo ad essi, ma perfino a noi medesimi: se siamo degli sconfitti, dei rassegnati, dei disillusi, oppure se teniamo vivi, nel profondo della nostra anima, lo stupore, la meraviglia, la disponibilità a mettersi in gioco per tutto quanto vi è di migliore in essa, in una parola: l’anelito verso l’Assoluto. Ed è inutile aggiungere che quei genitori, i quali riversano sui propri figli le loro frustrazioni e delusioni, le loro paure e le loro viltà, pensando di risolvere i propri conflitti mediante una azione compensativa su di loro, sbagliano il bersaglio, e di grosso, senza contare che non rendono loro un buon servizio.

Scrive in proposito Gloria Steinem, una autrice americana femminista e "progressista", dalla quale pressoché tutto ci divide — e, in particolare, l’idea dell’origine esclusivamente sessuale, traumatica e infantile, del disagio genitoriale -, ma che, nel caso specifico, ci sembra aver espresso una opinione suscettibile di alcune importanti riflessioni (da: G. Steinem, «Autostima»; titolo originale: «Revolution from Within», Little, Brown & Company, 1992; traduzione dall’inglese di Serena Lauzi e Annabianca Mazzoni, Milano, Rizzoli, 1992, pp. 99-100):

«Sono troppo poche […] le teorie sul modo di allevare i bambini che assumono come punto di partenza l’infanzia dei GENITORI. Quello di trattare i nostri figli altrettanto bene di quanto facciamo con noi stessi è un principio reversibile: verso noi stessi dovremmo comportarci come ci comportiamo con i nostri figli. Tuttavia coloro che dentro di sé portano un bambino sofferente e maltrattato, le cui esigenze non vengono mai prese in considerazione, potrebbero fare confusione fra "trattare altrettanto bene" e "trattare allo stesso modo", e una simile confusione avrebbe esiti disastrosi: basta pensare ai tre errori più frequenti che si possono fare allevando un figlio, che voglio sommariamente elencare:

DARE A NOSTRO FIGLIO CIÒ CHE AVREMMO DESIDERATO E NON ABBIAMO MAI AVUTO. Ciò significa che al figlio viene dato ciò che corrisponde ai desideri del genitore, non ai DESIDERI DEL FIGLIO: indipendentemente dalle sue esigenze e bisogni reali, gli si offre quel che i genitori avevano desiderato per se stessi da piccoli. Con un’ulteriore complicazione: il bambino che il genitore porta dentro di sé, sentendosi tuttora inascoltato nelle sue richieste, tenderà a provare un sentimento di gelosia nei confronti del figlio, pretendendo da lui obbedienza e gratitudine a mo’ di compensazione.

SERVIRCI DI NOSTRO FIGLIO PER VIVERE LA VITA CHE NOI NON ABBIAMO POTUTO VIVERE. Il padre che spinge il figlio alla professione che lui stesso aveva tanto sognato, la madre che fa della figlia il sostituto di quel compagno adulto che il marito non riesce a essere; i genitori che spingono i figli verso successi e traguardi che sono essenzialmente degli status symbol… questi e altri ancora sono tutti sistemi di subordinazione del sé autentico dei figli a vecchie e nuove aspirazione dei genitori.

FARE A NOSTRO FIGLIO QUEL CHE È STATO FATTO A NOI PER GIUSTIFICARE E NORMALIZZARE LA NOSTRA INFANZIA. In mancanza di una scelta liberatoria quale quella di volgere il nostro cammino, di rivedere, di ripensare, e soprattutto di capire che ciò che ci hanno fatto era sbagliato, immeritato e non necessariamente fatto "per il nostro bene", noi genitori tendiamo inevitabilmente a riproporre ai figli, anche se in forme diverse, gli stessi abusi che abbiamo dovuto subire nell’infanzia.

In ciascuno dei casi che ho appena menzionato il bambino bisognoso del passato che vive DENTRO IL GENITORE tende a sovrapporsi continuamente al bambino reale del presente. È soprattutto nell’ultimo caso citato, quello dell’abuso che si trasmette da una generazione all’altra, che oggi si sta iniziando a prendere coscienza della gravità del fenomeno. […] Come ha detto W. D. Wall, un esperto inglese di psicologia dell’infanzia, "i figli crescono bene quando crescono bene i loro genitori".»

Ritornare là dove siamo stati spezzati, dunque: avere il coraggio di guardare in faccia le nostre sconfitte, le nostre amarezze, e ripartire proprio da esse, e dalla nostra consapevolezza di quanto esse ci abbiano modificato, per riconquistare un più alto e più puro piano di esistenza, al disopra delle paludi malsane, là dove soffiano liberi i venti salmastri dell’oceano.

Anche se la Steinem, d’accordo con la cultura freudiana oggi dominante in ambito psicologico, sembra attribuire tutti gli errori dei genitori a un conflitto non risolto risalente a un certo trauma infantile (con costoro non si capisce mai se stanno parlando dei loro pazienti nevrotici o degli esseri umani in quanto tali); resta valida, nondimeno, l’intuizione fondamentale: che noi non possiamo essere d’aiuto ad alcuno, meno che meno ai nostri figli, e neppure a noi stessi, se non siamo capaci di confrontarci con il nostro passato, con la nostra realtà interiore, e di guardare sino in fondo le nostre fragilità e le nostre insufficienze; perché, inevitabilmente, barando al gioco con se stessi, si finisce per riversare su di sé e sugli altri le conseguenze di una rimozione feroce, che si traduce in una vera e propria distruzione sistematica della nostra parte più vitale e generosa, la sola suscettibile di imparare qualcosa dalla vita e di consentirci un reale progresso spirituale.

È vero che in noi c’è un bambino che, talvolta, geme e chiede disperatamente di essere ascoltato; non è vero, però, che quel bambino sia sempre una creatura infelice e terrorizzata, che si trascina dietro inconfessabili traumi e che ha subito inenarrabili violenze. Così come la psicologia è giunta, finalmente — meglio tardi che mai — alla consapevolezza che il perfetto genitore non esiste (e anche la Steinem condivide tale acquisizione), così l’uomo e la donna maturi, o desiderosi di maturare, dovrebbero riconoscere che i loro genitori, nella stragrande maggioranza dei casi — ed eccettuati, appunto, i casi chiaramente patologici — hanno fatto meglio che potevano il loro mestiere di genitori; che, per quanti errori possano aver compiuto, essi non possono averci ferito seriamente, se noi abbiamo percepito, aldilà di tali errori, la bontà sostanziale di colui o colei che li commetteva; e che crescere e divenire adulti vuol dire anche smetterla, una buona volta, di attribuire la responsabilità di ogni nostra debolezza e insufficienza ai nefasti effetti di una parola pronunciata o di un gesto compiuto da nostro padre o nostra madre, quando eravamo piccoli.

Più in generale, qui viene al pettine il nodo fondamentale di qualunque impostazione puramente psicologica dei problemi dell’esistenza: negando il carattere assoluto, strutturale, della nostra inquietudine e la sua funzione di tensione verso l’essere, ci si inibisce la possibilità di comprendere la vera essenza del nostro disagio e di cogliere quel che di propriamente, autenticamente umano essa esprime, vale a dire il bisogno della verità. Gli animali, a quanto ne sappiamo, non provano nulla di simile; in essi non vi è distanza alcuna fra l’essere e il dover essere; si accontentano di quel che sono e null’altro chiedono alla vita.

Quanto al concetto che, per veder crescere i bambini, bisogna sperare che siano cresciuti bene i loro genitori, ci sembra davvero un po’ povero e fatalista; ma, soprattutto, ci sembra che si presti a un grosso equivoco: che cosa si intende, infatti, per "crescere bene"? La Steinem afferma, e a ragione, che i genitori non dovrebbero riversare sui figli le loro frustrazioni, né proiettare su di essi il loro desiderio di rivalsa nei confronti della vita; da questo, però, non deriva necessariamente che un padre, il quale incoraggi suo figlio a intraprendere la professione che avrebbe desiderato per se stesso, gli rovini immancabilmente l’esistenza. Le cose sono molto più complesse e molto più sottili di come tende a presentarle la cultura oggi dominante, secondo la quale l’unico scopo della vita è quello di essere felici nell’immediato, e che l’unica maniera di realizzare tale felicità consista nel rimuovere qualsiasi ostacolo alla gratificazione del nostro piccolo io. Al limite, anzi, vorremmo dire, senza alcun particolare intento polemico, che proprio dalla sconfitta del piccolo io può nascere qualche cosa di grande: vale a dire la realizzazione del Sé, e, con essa, il raggiungimento del vero scopo di vita di ciascun individuo.

In altre parole: un essere umano non subisce danni esistenziali irrimediabili per il fatto di essere instradato dai genitori a fare questa o quell’altra cosa, a meno che egli non covi già in se stesso una debolezza fondamentale, vale a dire un vuoto assoluto circa i valori degni di essere perseguiti e una consapevolezza del tutto insufficiente, o francamente distorta, di se stesso, dei propri bisogni, del proprio fine. I bisogni (e non le "esigenze", vocabolo usato volentieri dalla Steinem come fosse un sinonimo, mentre è quasi l’opposto: i bisogni sono autentici; le esigenze sono artificiali) sono qualcosa di estremamente serio, ma la loro soddisfazione non dipende principalmente, o non dipende soltanto, dal fatto di dedicarsi a una professione piuttosto che a un’altra; e nemmeno, fino a un certo dal punto, dal tipo di situazioni affettive che ci si costruisce nel corso della vita. In fondo, uno solo è il bisogno fondamentale dell’uomo, anche se si stenta a riconoscerlo in mezzo alla selva dei bisogni immediati: quello di comunione con l’essere. Chi riesce a realizzarlo, o almeno a comprenderlo, non si lascerà fermare da circostanze esteriori sfavorevoli, né passerà la vita a giustificare la propria inerzia con la scusa di essere stato forzato a fare questo o quell’altro.

Prima di tutto, è compito del figlio quello di avere il coraggio, a un certo punto, di assumersi le proprie responsabilità, e di avere il coraggio di camminare con le proprie gambe. Non siamo più nell’Ottocento, quando un genitore poteva anche obbligare fisicamente i propri figli ad assecondare in tutto la sua volontà, compresa la scelta del futuro coniuge: oggi, se lo si vuole, si può veramente seguire la propria strada, anche se — è ovvio — c’è sempre un prezzo da pagare quando non si vuol dare retta ai propri genitori, e fare a modo proprio. Altrimenti, vuol dire che lo stato di dipendenza è, in fondo, accettato volontariamente, forse proprio perché solleva il figlio dal compito di diventare adulto e gli permette, inoltre, di scaricare sugli altri eventuali fallimenti. In secondo luogo, è tutto da dimostrare che a rovinarci la vita sia quel che facciamo e non piuttosto il come lo facciamo. È il modo in cui facciamo le cose a determinare il nostro destino, e non le cose in se stesse…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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