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21 Ottobre 2015La lezione di Edith Stein è che la Grazia, non la scienza, getta un ponte tra l’essere finito e Dio

La grande lezione di Edith Stein, sulle orme di San Tommaso d’Aquino, è che non la scienza, ma la fede illumina la ricerca umana nel suo struggente bisogno di contemplare Dio; e che solo grazie ad essa l’anima è in grado di mettere in campo le necessarie, insospettabili risorse d’intelligenza, di energia, di volontà e amore.
Perché l’essere umano non può vivere senza Dio, senza ascoltare il richiamo dell’Essere nel quale soltanto sente di poter trovare pace e riposo e nel quale soltanto la sua esistenza terrena, con le sue speranze e le sue delusioni, con le sue fragilità e il suo anelito verso l’Assoluto, finalmente acquista un senso, una direzione, uno scopo.
Questa scoperta gioiosa e folgorante, suscettibile di trasfigurare letteralmente la vita umana e di illuminarne pienamente la vera finalità, è stata sintetizzata in maniera efficace da una studiosa di Edith Stein, la monaca carmelitana Maria Cecilia del Volto Santo, dalla cui monografia, dedicata alla pensatrice ebrea-tedesca, riportiamo un passaggio-chiave («Edith Stein», Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1996, pp. 100-103):
«L’irrompere della trascendenza di Dio nel suo intimo l’aiuta a scoprire le impensate possibilità di cui l’essere finito è capace quando si apre alla grazia, quando, cioè, natura e spirito si incontrano e sintonizzano. Penetrando dentro di sé, nell’essenza intima — in modo non più esclusivamente filosofico (ambito pur sempre restrittivo), ma teologico-filosofico -, Edith si rende atta a ricevere da Dio la rivelazione di realtà sconfinate immerse da lui nel suo cuore e nella sua mente; realtà stupende che riescono ad appagare finalmente le profonde esigenze di interiorità e di totalità, che prima, ancora sconosciute, la facevano soffrire fino a provocare crisi di identità. È a questi livelli profondi che avviene la vera conoscenza della fede e l’incontro unitivo dell’essere umano con il suo Dio.
Lo studio del Dottore Angelico confermò Edith nella realtà della fede. Il santo le offrì un nuovo vasto orizzonte di ricerca e la portò pure alla constatazione dell’esistenza di due campi del sapere: uno che ha la sua forza nella ragione, l’altro la sua fonte nella Rivelazione. I due campi hanno punti di convergenza: la Rivelazione illumina ed amplia l’intelletto.
La fede è certa, non evidente come conclusione di un ragionamento. A suo tempo Edith era passata dall’università di Breslavia a quella di Gottinga perché, a suo parere, trovava nella filosofia husserliana delle "certezze verificate". Ora scopre che la certezza definitiva deriva dalla fede; la dà Dio solo. Bisogna affidarsi alla Certezza; d’altro canto, però, è irragionevole respingere la serietà dell’informazione scientifica, dotata di probabilità, sebbene non si debba mai assolutizzare la scienza che è sempre in via e può errare: "Possiamo costatare ogni giorno quante cose erano sbagliate di ciò che abbiamo imparato. Ed è utile fare una simile costatazione, perché ci si rende conto che non possiamo fidarci di noi stessi e che saremmo perduti se un Altro, che vede meglio e più lontano, non si curasse di noi".
L’approfondimento di san Tommaso condusse Edith ad una indagine personale che le chiarì la possibilità di un certo collegamento tra la filosofia medioevale e quella contemporanea. Il collegamento era posto dalla fenomenologia, vista da lei come via di comunicazione per passare dalla prima alla seconda.[…]
Edith dichiara che non la scienza ma la fede è la strada certa che conduce a Dio: "La via della fede ci dà più della via della conoscenza filosofica; il Dio vicino come persona, che ama ed è misericordioso, ci dà una certezza che non è propria di alcuna conoscenza naturale".
Si sente l’eco dell’Aquinate: "[…] la certezza data dalla luce divina è più grande di quella offerta dalla luce della ragione naturale". Rileviamo, però, che il travaglio fenomenologico, in cui Edith è cresciuta, è già via largamente aperta alla trascendenza. Cioè, quel volgersi dal relativismo soggettivistico all’oggettività era un andare alla ricerca originaria della stessa verità. Ovviamente, se la filosofia, fenomenologica o no, non si avvia al trascendente, restringe la visuale gnoseologica. Se si apre ad esso, la sua sincera ricerca, prima o poi, rinvia all’Assoluto, poiché fa emergere l’anelito religioso insito in ogni persona. Si può arrivare così alla fede, a Dio: verità assoluta che fonda ogni altra verità. Questo anelito dimostra che l’uomo è, per sua natura, un essere religioso; se non si incontra con Dio, sradica da sé le migliori possibilità del suo essere, che vivrà "adagiato" nella superficialità senza poter giungere alla completezza e unificazione della sua personalità e alla scoperta delle sue migliori e innate capacità.»
Il percorso intellettuale e umano di Edith Stein, pertanto, è estremamente significativo per chiunque, animato da sincero desiderio di verità, non si accontenti delle verità relative che offre la scienza, le quali, pur rispettabili e utili nel loro ambito, non esauriscono affatto la domanda di senso, anzi, non la interpellano nemmeno, dal momento che la scienza opera sul come e non sul fine, e dirige il suo sguardo esclusivamente al mondo della natura.
L’uomo moderno sente con più drammatica urgenza la tensione verso l’Assoluto, proprio perché la clamorosa affermazione della conoscenza scientifica gli ha fatto intravedere, a un certo momento, la possibilità di giungere, con le sue sole forze, alle soglie del grande Mistero, la domanda sul senso del tutto; ma è stato, appunto, un momento: mano a mano che la scienza confermava di essere soltanto un sia pur utile strumento d’indagine nell’ambito del finito, l’uomo moderno si è sentito doppiamente solo e abbandonato, deluso nelle sue aspettative, amareggiato nelle sue speranze, in balia di un destino incomprensibile e quasi beffardo.
In un certo senso, è vero che l’uomo moderno, se non riesce a scorgere la necessità di affidarsi alla garanzia di un Altro, che faccia da fondamento al suo cercare e al suo protendersi verso la verità, finisce per precipitare negli abissi dello sdoppiamento, della disintegrazione spirituale, della follia: come si vede, per esempio, nei personaggi di Pirandello, tutti dominati da una stessa nevrosi e da una stessa angoscia, tutti ugualmente delusi e amareggiati, tutti interiormente scissi e brancolanti sull’orlo della follia, che taluni di essi finiscono per accogliere come una forma, e sia pure paradossale, di liberazione. Cosa può esservi, infatti, di più straziante, di più contraddittorio e di più beffardo, di un sapere che distrugge proprio ciò a cui il sapere, per definizione, tende: la via verso la verità, o, quanto meno, la speranza di poter scorgere, un giorno, quella via?
Eppure, tale è la condizione dell’uomo moderno: dopo aver demolito, pezzo a pezzo, il sapere tradizionale; dopo essersi sbarazzato della metafisica e della teologia; dopo aver proclamato che le uniche cose importanti sono i fatti, e la spiegazione dei fatti, egli si è ritrovato fra le mani uno strumento completamente spuntato, un’arma perfettamente inutile. Si è accorto che la scienza gli poneva tutta una serie di domande alle quali essa non è, né potrà mai esser, in grado di rispondere: perché la scienza non ha nulla da dire riguardo al senso, ma solo e unicamente al modo in cui le cose avvengono. Qual meraviglia se l’uomo moderno, dopo aver creduto di sfiorare il Cielo con la sua torre di Babele, è piombato nello scoramento più profondo, nel relativismo e nel cinismo, nel nichilismo e nel pessimismo più cupo e rassegnato?
Evidentemente, pur con tutta la sua raffinata intelligenza, la sua acribia ermeneutica, la sua profonda sensibilità critica, egli ha smarrito, lungo la strada della ricerca, la cosa più importante: l’umiltà, fatta di consapevolezza del proprio limite e di disponibilità ad aprirsi alla Verità che da lui non dipende, ma dalla quale è lui a dipendere: la Verità assoluta, che gli domanda un salto di qualità nel proprio livello di coscienza, un abbandono delle sue presuntuose certezze e delle sue ambiziose semi-verità, per lasciarsi penetrare dalla luce ineffabile del Vero, che è la luce dell’Essere.
All’orgoglio prometeico dell’uomo moderno, un tale riconoscimento è sembrato un cedimento vergognoso, una vile abdicazione della sua ragione, di cui va tanto superbo: dimenticandosi che la ragione non è la sola forma del conoscere e che, nel palazzo della ragione stessa, vi sono tante stanze che egli non conosce bene, o che non conosce affatto, perché non vi è soltanto la ragione logico-matematica, galileiana, meccanicista, quantitativa, quale unica manifestazione del Logos; non vi è soltanto la ragione utilitarista, strumentale e calcolante. Vi sono anche altre vie per le quali la ragione può manifestarsi, con la partecipazione di altre facoltà dell’anima, prima fra tutte la ragione intuitiva, che afferra le cose prima che l’intelletto le abbia pienamente illuminate, e molto prima che abbia tentato di chiarirle in maniera puntuale e dimostrativa.
In ultima analisi, se la conoscenza è un atto di amore, così come lo è la Creazione, allora i due percorsi, quello dell’uomo verso la Verità e quello dell’Essere verso l’uomo, sono destinati a incontrarsi: ed è dal loro incontro che la condizione umana riceve quella infusione di senso e di valore, quella trasformazione spirituale, quella illuminazione intellettuale e quella intima rivelazione dell’anima a se stessa, in cui consiste, propriamente, il fine della vita umana: il completamento e l’integrazione della differenza ontologica fra la creatura e il Creatore, fra l’io e il Tu, fra il relativo e l’Assoluto. Solo allorché l’anima riesce a compiere questo passaggio evolutivo, solo quando riesce ad aprirsi a questa forza benefica, si realizza la sua seconda nascita, la nascita alla vita soprannaturale, che è la Grazia.
La vita umana, dunque, è una ricerca di verità, ossia una ricerca di senso; e non si acquieta, non si placa, non si rasserena, finché l’anima non comincia a intravedere, pur in mezzo alle nebbie incerte e ai dubbiosi passaggi della condizione propria del finito, la luce sfolgorante dell’Infinito, la luce dell’Essere, dalla quale ogni cosa ha ricevuto il proprio inizio e verso la quale ogni cosa tende naturalmente, anche se non lo sa. Intravedere quella luce non è come esserne pienamente investiti e rigenerati; e tuttavia, è una esperienza fondamentale, e può essere il principio di una vita completamente rinnovata: una vita giovane in luogo della stanchezza, una vita gioiosa in luogo dell’amarezza, una vita realizzata in luogo d’una vita inutile. E, come direbbe il padre Dante: «Oh, felice colui cu’ ivi elegge!» («Inferno», 129).
Felice, infatti, è colui che giunge in vista della meta; che riesce a intravedere il fine di tutti i suoi sforzi, e sente che la sua fatica sarà ricompensata; anzi: che è già ricompensata, perché l’aver trovato il senso, del quale andava in cerca, è già premio a se stesso: qualunque cosa accada e indipendentemente dal fatto di realizzare materialmente il proprio sogno. Ecco, l’inganno della cultura moderna è tutto qui: nella pretesa che ogni sogno si realizzi nella sfera del finito; che ogni slancio dell’anima trovi il premio non in se stesso, ma in qualche cosa d’altro: in un oggetto, in una remunerazione, in un qualcosa di utile, che sia fruibile sul piano pratico, che contribuisca alla gratificazione dell’io. Ma l’io di colui che giunge alle soglie dell’Infinito è già scomparso: non c’è più, non fa più i capricci, non brama, né teme, né spera più nulla. Ha finito di tiranneggiare, ricattare e tormentare l’anima con le sue bizze e con le sue assurde, incontentabili pretese.
Edith Stein lo aveva capito. La parte più preziosa del suo insegnamento, che si rivolge all’uomo moderno, così esigente in fatto di razionalità — mentre l’uomo pre-moderno era più pronto e disponibile all’immediatezza della fede — è la constatazione che nulla, nella ricerca intellettuale, contrasta con il raggiungimento della Verità soprannaturale, anzi, che tutto vi concorre; che, razionalmente parlando, non vi è alcun sacrificio da fare, alcuna mortificazione da subire: ma che si tratta, semplicemente, a un certo punto, di trasbordare su di un altro veicolo, perché la ragione umana non è fatta per le altezze stratosferiche della Verità, ma solo per le più modeste altitudini delle verità parziali, materiali e terrene.
In altre parole: nessuno chiede all’uomo moderno di rinunciare alla sua ragione, alla sua scienza e nemmeno alla sua tecnica: quel che egli deve chiedere a se stesso è se queste cose debbano essere adorate, quasi fossero dei fini in se stesse, o riguardate come semplici strumenti; e se siano davvero gli strumenti adatti per poter levare gli occhi fino alle sublimi altezze del Vero. Quel che egli deve chiedere a se stesso è se si sente abbastanza onesto, intellettualmente e spiritualmente, da riconoscere il proprio limite ontologico, e da chiedere aiuto a quella Forza che, sola, può darglielo…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash