
Quanti futuri esistono?
16 Ottobre 2015
Flussi e correnti formano un disegno cosmico nella filosofia di Theodor Schwenk
18 Ottobre 2015Tutti conoscono Oswald Spengler (1880-1936) come filosofo della storia, specialmente per merito –o per demerito – del suo capolavoro, tanto discusso e criticato, quanto letto e meditato, anche dai suoi più feroci e intransigenti detrattori: «Il tramonto dell’Occidente» («Der Untergang des Abendlandes»), pubblicato in due volumi, il primo a Vienna, nel 1918, il secondo a Monaco di Baviera, nel 1922, infine in edizione unica, sempre a Monaco, nel 1923.
Per quel libro, e per alcuni altri, oggi meno conosciuti, ma, allora, assai noti e controversi, come «Prussianesimo e socialismo», del 1919, e «Anni decisivi», del 1934, Spengler godette di una vastissima notorietà, non solo in Germania e nell’area di lingua tedesca, ma a livello mondiale: fu apprezzato e detestato, mai amato, anche per il suo carattere aspro e solitario e, da ultimo, per il suo rifiuto di suonare il piffero per il nazismo dilagante, pur essendo uno dei più significativi esponenti della cosiddetta "rivoluzione conservatrice" tedesca degli anni ’20 e ’30. In particolare, il suo rifiuto di unirsi agli attacchi contro gli Ebrei gli sarebbe, probabilmente, costato assai caro, se la morte non lo avesse tolto dalla scena pubblica, ove la sua presenza era troppo ingombrante per passare inosservata, così come il suo mancato allineamento all’hitlerismo. Ebbe comunque il malinconico merito di avere previsto, contro tutte le aspettative più diffuse, il breve tempo che ancora rimaneva alla risorgente potenza della sua patria: infatti scrisse ad un amico, poco prima di morire, che, probabilmente, il Reich avrebbe cessato di esistere prima che fossero passati dieci anni. Profezia notevole, se si pensa che non solo in Germania, ma nel mondo, erano ben pochi quelli che, nel 1936, l’avrebbero sottoscritta.
Del pensiero di Oswald Spengler ci eravamo già interessati in una serie di articoli («Gli ultimi trionfi del denaro e della macchina nella filosofia della storia di Oswald Spengler», apparso sul sito di Arianna Editrice il 14/07/2008; «La critica di Spengler a Marx è di non aver capito il capitalismo moderno», il 19/12/2011; e «L’anti-teologia demoniaca di Spengler spinge l’uomo nel vicolo cieco della disperazione», l’08/01/2014; tutti ripubblicati su «Il Corriere delle Regioni»). Ora vogliamo tornare a occuparci di lui, ma non in quanto filosofo della storia, bensì come filosofo della natura e dal punto di vista della sua concezione generale del reale – un aspetto della sua filosofia che, a nostro avviso, è stato decisamente trascurato, essendogli stato anteposto, in maniera pressoché esclusiva, l’interesse per il destino delle civiltà umane.
Eppure, la filosofia della natura costituisce, per Spengler, il necessario presupposto logico della filosofia della storia; sicché, se davvero si vuol capire ciò che costituisce la vicenda della storia umana per l’autore de «Il declino dell’Occidente», è indispensabile rifarsi alla sua concezione complessiva dei fenomeni vitali, che egli distingue in cosmici (vegetali) e microcosmici (animali, uomo compreso). Spengler, infatti, è uno storicista e, decisamente, un relativista, come e più del suo maestro ideale, Wilhelm Dilthey; tuttavia egli non considera la storia come qualcosa di intimamente diverso dalla natura, poiché la sua visione della storia è organicistica: vede le civiltà come degli organismi viventi, e, appunto come questi ultimi, anche esse vivono un processo naturale che va dalla nascita, allo sviluppo, alla maturità, alla vecchiaia e, infine, alla morte. Il suo storicismo, pertanto, è figlio del suo naturalismo; e il suo esistenzialismo, se così possiamo chiamarlo — quel che importa è fare quel che va fatto nel presente storico: e, se il momento presente richiede banche e munizioni, ebbene le civiltà devono produrre banche e munizioni, più che poesie o monumenti architettonici — è il prodotto del suo vitalismo: la vita è un flusso cieco e inarrestabile; muoiono gl’individui, ma la vita continua.
Scrive, dunque, Spengler, al principio della Seconda parte de «Il declino dell’Occidente» (titolo originale: «Der Untergang des Abendlandes», traduzione italiana di Julius Evola, , Milano, Longanesi & C., 1957, 1978, vol. 2, pp.653-57):
«Si osservino i fiori di sera, quando essi, nel sole che tramonta, chiudono l’uno dopo l’altro le loro corolle. Allora ci prende unì’inquietudine, un sentimento misterioso d’angoscia alla vista di questa esistenza cieca, trasognata, legata alla terra. La foresta muta, le praterie silenziose, ogni cespuglio e ogni arbusto, in sé non si muovono. È solo il vento che giuoca con essi. Per contro, questo moscerino è libero: ancor nella luce del crepuscolo esso danza; si muove, va dove vuole.
Una pianta, in sé, non è nulla. È una parte del paesaggio nel quale un caso le fece metter radici. Il crepuscolo, la frescura e il chiudersi di ogni fiore: in ciò non si ha un rapporto di causa e di effetto, di pericolo e di corrispondente decisione, ma si ha un fatto naturale unitario che si realizza presso alla pianta, con la pianta e nella pianta. La pianta come individuo non è libera di attendere, di volere, di scegliersi qualcosa.
Invece un animale può scegliere. Egli non è vincolato al resto del mondo. Questo sciame di moscerini che danza ancora sul sentiero, l’uccello solitario che vola nella notte, la volpe che si avvicina cauta al nido, sono DEI PICCOLI MONDI A SÉ, RICOMPRESI IN UN PIÙ GRANDE MONDO. L’infusorio, che in una goccia d’acqua vive un’esistenza che, già invisibile per l’occhio umano, dura un secondo e si svolge in un angolo microscopico di questa gocciolina – È LIBERO E INDIPENDENTE DI FRONTE A TUTTO L’UNIVERSO. Non lo è, invece, la quercia gigantesca ad una foglia della quale quella goccia sta sospesa.
VINCOLO E LIBERTÀ: questi tratti fondamentali, profondi, ultimi, distinguono la vita vegetale da ogni vita animale. Però ciò che la pianta è, lo è COMPLETAMENTE. Invece nella natura dell’animale vi è come una scissione. Una pianta è soltanto pianta, un animale è pianta e, insieme, qualcosa d’altro. Il gregge che si stringe insieme dinanzi ad un pericolo, il bimbo che piangendo si afferra alla madre, l’uomo che nella sua disperazione vorrebbe raggiungere Dio, tutti costoro vorrebbero tornare dalla vita libera a quella vincolata, vegetale, dalla quale sono stati dimessi per essere individui.
Il seme di una pianta da fiori mostra all’esame microscopico due foglie germinali che poi formeranno e proteggeranno la giovane pianta rivolta verso la luce coi suoi organi di circolazione della linfa e di riproduzione; in più ci mostra un terzo elemento, il pollone, il quale indica l’ineluttabile destino della futura pianta di esser di nuovo parte di un paesaggio. Negli animali superiori noi vediamo che l’uovo fecondato nelle prime ore della sua esistenza autonoma va a formare una foglia germinale esterna che avviluppa la parte interna contenente in embrione i futuri organi di circolazione e di riproduzione, cioè la parte che è analoga alla pianta nel corpo animale, delimitandola di contro al corpo materno epperò anche di contro A TUTTO IL RESTO DEL MONDO. La foglia germinale esterna è il simbolo dell’esistenza specificamente animale. Essa distingue le due specie di esseri viventi che sono apparse nella storia della terra.
Ad esprimere ciò l’antichità ebbe delle belle espressioni: la pianta è QUALCOSA DI COSMICO, l’animale è, in più, UN MICROCOSMO CHE STA IN RELAZIONE CON UN MACROCOSMO. Solo per il fatto che un essere vivente si stacca in tal guisa dall’universo e può determinare come vuole la sua posizione rispetto ad esso, solo per tale fatto esso è un microcosmo. Perfino gli astri sono vincolasti nelle loro orbite e nelle loro rivoluzioni; soltanto questi piccoli mondi si muovono liberamente rispetto al grande mondo che essi conoscono come il loro ambiente. È così che, per la prima volta, per il nostro occhio ciò che la luce ci fa apparire nello spazio acquista significato di CORPO. Vi è, in noi, qualcosa che si oppone se volessimo parlare anche per la pianta di un corpo in senso proprio.
Tutto ciò che è cosmico, è contrassegnato dalla periodicità. Ha un suo RITMO. Tutto ciò che è microcosmico ha invece una polarità. La parola "di contro" ne esprime tutta la natura. Ha una TENSIONE. Parliamo di una tensione dell’attenzione o del pensiero, ma, di fatto, ogni stato di veglia è in essenza tensione; i sensi e i loro oggetti, l’Io e il Tu, la causa e l’effetto, la cosa e le sue proprietà: tutto ciò implica distanza e tensione, e quando interviene quel che vien significativamente chiamato rilasciamento, distensione, subentra un intorpidimento in questa parte microcosmica della vita, che finisce nel sonno. L’uomo che dorme, l’uomo nel quale tutte le tensioni son venute meno, ha una vita soltanto vegetativa, da pianta.
È ritmo cosmico quanto si può designare con le parole direzione, tempo, destino, nostalgia: e esso va dallo stile di trotto di un tiro di cavalli puro sangue e dalla cadenza di marcia di eserciti pervasi da un entusiasmo, fino al muto comprendersi di due amanti, alla finezza sentita di una società distinta e all’intuizione dello psicologo: a ciò che già chiamai sensibilità fisiognomica.
Questo ritmo di circuiti cosmici sussiste al disotto della libertà dei movimenti microcosmici nello spazio, e di tempo in tempo risolve le tensioni proprie ad ogni individuo desto in un’UNICA grande sentita armonia. Chi ha seguito talvolta il volo di un uccello nell’etere, il suo innalzarsi sempre allo stesso modo, il suo girare, rigirare e sparire lontano, sente in questo movimento complessivo una sicurezza da pianta, qualcosa d’impersonale e di collettivo che non abbisogna di un intelletto per mettere in relazione l’Io col non-Io. Questo è anche il senso delle danze guerriere e delle danze erotiche fra gli animali e gli uomini; in modo analogo una massa, in momenti di emozione, si trasforma d’un tratto in un unico essere che pensa in modo fulmineo, cieco ed enigmatico, ma che dopo pochi minuti si ridissolve. Qui i limiti microcosmici sono rimossi. Qualcosa d’impersonale agisce nell’infuriare e nel minacciare, nell’incalzare e nell’attrarre, nello slanciarsi, nel ripiegare e nell’ondeggiare. Le membra si confondono, il corpo balza in avanti, un UNICO grido si sprigiona da tutte le bocche, un UNICO destino domina su tutti. D’un tratto, da un insieme di singoli mondi è natura una cosa unica.
La percezione di un ritmo cosmico la chiamiamo SENTIMENTO, quella delle tensioni microcosmiche la chiamiamo SENSAZIONE. L’ambiguità della parola "sensibilità" ha pregiudicato la distinzione fra l’aspetto genericamente vegetativo della vita e quello esclusivamente animale – in tedesco "Sinnlichkeit" significa sia sensibilità e sia sensualità. Noi avvertiamo una relazione profonda se, riguardo al primo aspetto, parliamo di vita dei sensi; riguardo all’altro aspetto, di vita sessuale. L’una ha sempre i caratteri della periodicità e del ritmo nella sua armonia con i grandi periodi stellari, nelle relazioni della natura femminile con la luna e della vita in genere con la notte, con la primavera, col calore; l’altro aspetto si sostanzia di tensioni: della tensione fra luce e cosa illuminata, fra conoscere e conosciuto, fra il dolore e l’arma che l’ha causato. Nelle specie superiori i due aspetti della vita han dato luogo ciascuno a particolari organi. E quanto più questi organi sono perfetti, tanto più distintamente essi ci palesano il significato delle due facce della vita. Noi abbiamo DUE ORGANI DI CIRCOLAZIONE DELLA VITA COSMICA: il sistema sanguigno e gli organi sessuali; ed abbiamo DUE ORGANI DI DISTRIBUZIONE DELLA MOTILITÀ MACROCOSMICA: i sensi e il sistema nervoso. Dobbiamo supporre che in origine TUTTO il corpo sia stato organo della circolazione e, in pari tempo, organo del tatto.»
Da questo brano di prosa — che lascia trasparire tutto il grande amore di Spengler per la natura, i suoi costanti soggiorni sulle native montagne dello Harz (famose per il Brocken e la notte di Valpurga), la sua formidabile capacità di osservazione delle piante e degli animali, che ne fanno veramente un pensatore completo, a differenza di gran parte dei filosofi post-cartesiani e post-kantiani, quasi tutti indifferenti alla res extensa e al mondo non-umano — emerge un interesse naturalistico che contrasta con l’immagine, largamente diffusa, del «Tramonto dell’Occidente» come di un libro puramente storicistico.
Spengler è uno storicista non perché assolutizza la storia, ma perché la naturalizza: la storia, per lui, è il riflesso della realtà cosmica, dalla quale, tuttavia, si differenzia per il carattere della volontarietà: eloquente, in tal senso, oltre che commovente, l’accostamento del minuscolo moscerino che si agita, insieme a tanti altri suoi simili, nella rossa luce del tramonto, mentre la grande quercia, legata alla terra e al mondo dei ritmi cosmici, libera non è; e il moscerino condivide con l’uomo, appunto, il fattore della libertà di movimento, cioè il poter agire come un piccolo mondo a sé. Gli animali e gli esseri umani, pertanto, possiedono un destino; mentre le piante, le rocce, gli astri del firmamento, sono natura; animali ed esseri umani sono caratterizzati dalla tensione verso qualcosa, gli organismi vegetali e il mondo minerale da un ritmo. Vi è un ritmo nella spirale della chiocciola, nella crescita degli anelli di un tronco, nelle orbite dei pianeti, dei satelliti, delle comete; e vi è una tensione nel branco di renne che si stringe e fa quadrato per affrontare gli assalti dei lupi, così come nel bambino che piange nella culla e nell’uomo adulto che cerca e invoca Dio, stretto nel suo dolore.
Eppure, a ben guardare — osserva Spengler — la distinzione non è affatto così netta, come poteva sembrare in un primo momento. Nell’uomo che dorme, il corpo si rilassa nel ritmo del sonno e la dimensione cosmica riprende il sopravvento; così pure in una folla che si agita nei movimenti sincronizzati della danza o in quelli di un baldanzoso esercito in marcia, il ritmo si fa strada, emerge, prende il sopravvento. Nell’organismo umano vi sono sia organi di circolazione, cosmici, sia organi di movimento, microcosmici: la circolazione è ritmo, qualche cosa di naturale, di irriflesso; il movimento, invece, è azione volontaria, che nasce per impulso di una decisione. L’uomo (e l’animale) è, dunque, sia cosmo, sia microcosmo; sia necessità, sia libertà; la pianta, al contrario, è solo cosmo, solo ritmo e necessità.
L’uomo, pertanto, possiede una doppia natura; ma la sua doppia natura non corrisponde ad un destino che sia, in se stesso, qualcosa di essenzialmente diverso dalla vita della pianta. La dimensione spirituale dell’uomo non si contrappone alla dimensione materiale: ne è solo una specie di estroflessione, di prosecuzione, di adattamento. Il naturalismo di Spengler è rigoroso, totale, quasi ossessivo; nulla vi sfugge: né la vita del singolo individuo, né quella dei popoli, degli stati, delle civiltà. Non vi è differenza qualitativa tra la vita delle piante di un bosco, quella di uno stormo di uccelli migratori e quella di una civiltà umana. E questo per la buona ragione che l’elemento fondamentale di differenziazione del microcosmo da ciò che è cosmico non risiede – già lo abbiamo detto – che nella motilità: troppo poco perché diventi una differenza sostanziale, una differenza di destino. La quercia crescerà, invecchierà, morirà, così come l’animale, come l’uomo, come i popoli e le civiltà della storia. La sola, vera differenza, è che gli uomini, e le civiltà da essi formate, possono decidere, fino a un certo punto, se e come prolungare la propria vita, mediante un supplemento di volontà. È in tal modo che le civiltà, a un certo punto, diventano civilizzazioni: subentrano nuovi caratteri, l’urbanesimo, il gigantismo architettonico, il cosmopolitismo culturale: ma nessuna civiltà si è mai sottratta al suo destino mortale, nessuna ha potuto vincere la sfida con la morte. La libertà umana si riduce ad agire entro un margine esiguo e prefissato.
Le civiltà periscono, perché sono mortali, come lo sono i formicai o gli alveari; e così anche gli uomini periscono, perché sono prodotti della natura, e sia pure evoluti e resisi parzialmente autonomi. "Autonomi" non significa che possano sottrarsi al loro destino naturale. Di qui il pessimismo di Spengler, il suo fatalismo, la cupa visione del domani: anche la civiltà occidentale è giunta alla fine; è entrata, e da tempo, nella tarda fase della civilizzazione: sta spendendo le sue ultime riserve. Un capo deciso, ambizioso, "cesareo", potrebbe ancora trattenere il destino per qualche anno (ed ecco la sua ammirazione per Mussolini, più che per Hitler; ammirazione, come è noto, perfettamente ricambiata dal dittatore italiano); la fine potrebbe essere parzialmente ritardata, se la civiltà giunge a comprendere le necessità profonde del momento storico, e vi si adatta. Ma nulla e nessuno potranno mai scongiurare l’inevitabile. L’Europa è giunta al tramonto: la notte già incombe, e ben presto ogni cosa verrà inghiottita dall’oscurità. Delle superbe costruzioni della nostra civiltà, non resteranno che ruderi muti: come sono muti, per noi, i resti del Partenone, o le Piramidi d’Egitto, o le mura di Persepoli, di Ninive, di Babilonia.
Una domanda, però, ci piacerebbe fare al filosofo di Blankenburg: che ne è della tensione propria del mondo microcosmico? Che ne è del pianto del bimbo, della preghiera dell’uomo che cerca il suo Dio? Si tratta solo di uno scherzo, di una beffa della natura? Eppure si direbbe che, qui, Spengler abbia sfiorato, per un attimo, lo spiraglio che conduce fuori dal suo soffocante naturalismo e dal suo disperato fatalismo; che abbia quasi intravisto un raggio di luce: ma, poi, se ne è subito ritratto…
Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione