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Ogni storicismo rinvia a un esistenzialismo, e questo alla domanda di senso

Il relativismo è il figlio legittimo e naturale dello storicismo, oppure no? Possiamo immaginare uno storicismo che non conduca al relativismo, ma che resti ancorato a dei valori perenni, sottratti al divenire della storia? Oppure questa sarebbe una contraddizione in termini?

In effetti, furono storicisti, ma non relativisti, anzi, anti-relativistI, studiosi e pensatori del calibro di Friederich Meinecke (1862-1954), che riconobbe l’esistenza di valori assoluti al di sopra dei fatti storici, ed Ernst Troeltsch (1865-1923), che riconobbe del pari l’esistenza di valori assoluti, anche se immanenti alla storia stessa (una sorta di Spirito universale di hegeliana memoria); mentre dallo storicismo prese le mosse, per poi archiviarlo definitivamente, Karl Löwith (1897-1973), che vide la presenza di valori eterni superiori al divenire storico (cfr. i nostri precedenti lavori: «Essenza della filosofia e coscienza della sua storicità nel pensiero di Wilhelm Dilthey», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 24/06/2008; e «Il dramma della storia fra ragion di stato e valori universali nel pensiero di Friedrich Meinecke», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 25/06/2008, e su «Il Corriere delle Regioni» il 06/12/2014). Oswald Spengler, infine, è, senz’altro, un tipico esponente dello storicismo relativista (cfr. i precedenti articoli: «Gli ultimi trionfi del denaro e della macchina nella filosofia della storia di Oswald Spengler»; «La critica di Spengler a Marx è di non aver capito il capitalismo moderno»; e «L’anti-teologia demoniaca di Spengler spinge l’uomo nel vicolo cieco della disperazione», tutti pubblicati sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente in data 14/07/2008, 19/12/2011 e 08/01/2014).

Lo storicismo, in effetti, può essere considerato sotto due differenti punti di vista: se, da un lato, riconoscendo il valore fondamentale del divenire storico, può condurre al relativismo filosofico, estetico, etico, per un altro verso, appunto perché evidenzia quanto di umano, di contingente, di limitato vi è nella storia, può preparare il terreno per un ripensamento critico di ogni immanentismo e, dunque, può aprire la strada ad un superamento della storia in favore dell’escatologia, della metafisica, della teologia. E questo spiega come mai, dal pensiero storicista "classico", specialmente di Wilhelm Dilthey (ma, in prospettiva, anche di Hegel e dello stesso Marx), abbiano tratto ispirazione, per quanto parziale, pensatori che, poi, hanno sviluppato le sue premesse in direzioni diverse e, talora, addirittura opposte.

Anche la filosofia cristiana della storia è una forma di storicismo, ma sviluppata in direzione trascendentale: si parte dall’immanenza, dal Gesù storico, anzi, dai profeti dell’antico Israele, e si giunge al Cristo risorto e alla trasfigurazione dell’umano nel divino; la stessa Eucarestia altro non è se non la trasmutazione di quanto vi è di più umano, la carne e il sangue del corpo di Cristo, in quanto vi è di più soprannaturale: l’unione con il corpo mistico di Cristo, cioè con Dio stesso e con la comunione dei santi.

Contrariamente a ciò che la vulgata culturale oggi imperante ha sempre detto e ripetuto, il cristianesimo non odia affatto il corpo e la dimensione fisica della vita: se così fosse, non vi sarebbe la dottrina della risurrezione della carne, ed anzi, a ben considerare, non vi sarebbe il mistero dell’Incarnazione; al contrario, la teologia cristiana è tutta una celebrazione della dimensione terrena della vita (amore compreso: e si pensi al mistico erotismo di un libro come il «Cantico dei Cantici»), però nella direzione del suo superamento, inteso come un inveramento e come una piena e felice realizzazione.

Resta il fatto che l’uomo moderno è il protagonista e, per un certo verso, la vittima, di una realtà sociale, culturale e tecnologica sempre più complessa; e che lo storicismo si è fatto interprete, appunto, della piena consapevolezza di tale complessità. In un certo senso, lo storicismo è molto più di una corrente filosofica o storiografica fra le tante; esso corrisponde alla forma mentis tipica della tarda modernità, quando i valori assoluti sembrano definitivamente andati in crisi e le certezze d’un tempo sono impallidite e tramontate, l’una dopo l’altra, davanti al continuo succedersi di nuove acquisizioni, di nuove verità, di nuove abitudini e stili di vita, di nuove prospettive intellettuali e spirituali, spinte avanti con ritmo febbrile dall’avanzata inesorabile del "progresso".

Scrivono Giuseppe Mari ed Enza Sarni (in: «Scienze umane. Educazione e cultura dal XII al XIX secolo», Brescia, La Scuola Editrice, 2012, vol. 1A, pp. 391-392):

«La logica del "comprendere" allude a una complessità che invita a calare l’analisi all’interno di un orizzonte più ampio, che va oltre la pura e semplice descrizione dei fenomeni (quella praticata dallo "spiegare"), perché riguarda le abitudini, le circostanze, le aspirazioni…in una parola: i fattori soggettivi, che non sono mai del tutto conoscibili.

Lo storicismo ha espresso questa sensibilità verso la "particolarità"umana, permettendo di coglierne la singolarità, ma allo stesso tempo ha prevalentemente divulgato una prospettiva relativistica, perché la "comprensione" presenta l’agire umano come se fosse e impossibile riconoscere dei criteri di giudizio universalmente validi. Questo dipende dal fatto che il neocriticismo — in quanto erede di Kant — non ha fiducia nella possibilità di conoscere ciò che va al di là del livello sensibile e riconduce il valore stesso alla soggettività. Al contrario, la concezione classica e cristiana ha sempre professato l’esistenza del "bene" quale riferimento a cui la soggettività guarda per riconoscere ciò che ha valore. Vanno in direzione relativistica le riflessioni di Georg Simmel (1858-1918), secondo cui non esistono fati "oggettivamente" importanti: ciò che ha valore è tale perché interessa lo storico ("Problemi fondamentali della filosofia", 1010). In linea con questa impostazione si trova Oswald Spengler (1880-1936) il cui relativismo si esprime nell’affermazione che le singole civiltà nulla hanno in comune se non l’analogo destino a nascere, crescere e tramontare ("Il tramonto dell’Occidente", 1918-22). […]

Lo storicismo afferma che la realtà è storia. Wilhelm Dilthey (1833-1911) vuole esplorare che cosa questo significhi dal punto di vista del tipo di conoscenza che riguarda la storia in quanto espressione della libertà umana. Ebbe chiara la diversità dell’oggetto indagati dalle scienze naturali e dalle scienze storico-sociali: "La natura ci è estranea. . Essa è infatti per noi solo qualcosa di esterno, non un interno. La società è il nostro mondo. In essa partecipiamo, vivendolo, al gioco delle influenze reciproche, con tuta la forza della nostra essenza […]. Tutto questo imprime aòlo studio della società certi tratti di fondo che lo distinguono drasticamente da quello della natura. Le uniformità che si possono constatare nel settore della società rimangono, per numero, significato e determinatezza del cogli mento, molto indietro rispetto alle leggi che, sulla sicura base fondati uva delle relazioni nello spazio e delle proprietà del movimento, si sono potute formulare sulla natura". Dilthey respinse la lettura idealistica, perché guidata da nozioni universali che "stendevano sul mondo storico la loro grigia rete", e chiamò Erlebnis ("esperienza vissuta") la matrice dell’agire storico in quanto filtrato dall’intenzionalità personale. Tuttavia, la diversità rispetto alle scienze naturali non è di sostanza e neppure di metodo (come voleva Windelbald), bensì di atteggiamento: consiste cioè nel differente rapporto che lì’uomo viene a stabilire fra sé e l’oggetto nei due campi di ricerca. Infatti, mentre le scienze della natura aspirano alla concettualità. Le scienze dello spirito puntano alla comprensione, che viene raggiunta attraverso l’empatia, ossia una conoscenza che coinvolge tutta la persona: intelligenza e volontà; razionalità e affettività; idee, emozioni e sentimenti.

Riprendendo la distinzione di Droysen tra "comprendere" e "spiegare", Dilthey osservò che la stessa conoscenza sociologica non corrisponde alla descrizione neutrale di un oggetto bensì all’incontro tra due mondi diversi: quello dell’attore sociale e quello dello studioso. Da Dilthey trae origine la pedagogia come "scienza dello spirito", correlata all’esplorazione razionale della realtà educativa, praticata alla luce della "comprensione". Per questa ragione, non in forma analitico-descrittiva, bensì attraverso l’intreccio di questa con l’empatia e la risonanza interiore dei "fatti", che in realtà sono eventi perché coinvolgono chi li vive.»

Considerato dal punto di vista puramente storico, lo storicismo è l’espressione di una cultura, quella europea e occidentale di fine Ottocento, dominata dalla visione positivistica del reale: vale a dire dalla ferma credenza, rivelatasi ben presto illusoria, che la scienza sia la sola maniera di interpretare correttamente il reale, e che solo dal progredire di essa l’umanità possa sperare di ottenere dei durevoli e significativi benefici.

Considerato, invece, nel suo significato più ampio, filosofico, lo storicismo corrisponde alla coscienza di un mondo complesso, nel quale l’uomo moderno fatica a trovare una sua collocazione, perché minato da una serie di dubbi e perplessità laceranti riguardo alle basi stesse del proprio conoscere, anzi, perfino del proprio essere: l’uomo moderno si interroga e non si riconosce più, non trova le parole per dirsi, né le idee per pensarsi, né gli strumenti per riacquistare la padronanza di se stesso ed un rapporto sano e armonioso con le cose. Il dubbio sistematico lo perseguita, da «Amleto» a Dostoevskij, da Pirandello a Camus: si chiede se sia mai stato vivo, se abbia mai avuto un "io", o se, sotto le maschere innumerevoli che indossa, vi sia il nulla; si chiede, inoltre, se valga la pena di sopportare il pesante fardello della propria libertà, e, in ultima analisi, se valga la pena vivere. La sua coscienza infelice lo tortura; il suo bisogno di assoluto si ripiega su se stesso, lasciandolo svuotato e solo, stranito rispetto agli altri e a se medesimo.

Così, dallo storicismo si passa all’esistenzialismo: dalla storia che lo incalza e che tutto modella, tutto continuamente modifica e rinnova, si passa al vivere in situazione, perennemente precario, perennemente perplesso, spettatore di se stesso più che attore e protagonista della propria vicenda e del proprio destino. Ma, così come lo storicismo può condurre sia al vicolo cieco del relativismo radicale, sia alla consapevolezza di dover superare il relativismo e riconquistare i valori assoluti, così anche l’esistenzialismo può risolversi tanto in un eterno vagare in circolo, asfittico e disperato, quanto nella scoperta che la "situazione" può e deve essere superata, e che dall’angoscia del qui ed ora soffocante, claustrofobico, egli può riscoprire il cielo azzurro sopra di sé, immensamente spalancato, gravido della sua chiamata soprannaturale.

Eco, allora, che lo storicismo altro non è che l’altra faccia dell’orgoglio razionalista e tecnologico della modernità: in esso l’uomo si riscopre ente fra gli enti, sottoposto alla vicenda comune a tutti gli enti; in senso religioso, si riscopre creatura fra le creature; in senso cristiano, si riscopre figlio di Dio, chiamato al Padre ma bisognoso di redenzione. In senso cristiano, la storia chiusa in se stessa è, letteralmente l’inferno; e i filosofi della storia fine a se stessa altro non sono, né sono stati, che i profeti dell’Inferno, così come lo sono stati, e nella maniera più tragicamente spettacolare, gli uomini politici che hanno voluto fare della storia il proprio Dio.

Già il buon vecchio Nietzsche, ateo intelligente, metteva in guardia contro il pericolo di una eccessiva adorazione della storia: il passato non può redimere nessuno, rischia anzi di divenire la prigione dell’umanità, se questa non trova la forza di alzare lo sguardo verso la vita, che è, sì, nel presente, ma anche in qualcosa che sta al di sopra del tempo, così del passato come dello stesso futuro: qualcosa che è eterno e assoluto, perché fuori del tempo, anche se ad esso tutti i tempi sono protesi e in esso soltanto trovano il proprio compimento e il proprio significato. Qualunque filosofia della storia chiusa in se stessa finisce per cadere nel cinismo e nell’adorazione della forza e della potenza; soltanto una filosofia della storia che sappia oltrepassare se stessa, che sappia trascendere la storia medesima, potrà dare all’uomo le risposte che intimamente egli cerca e delle quali ha un assoluto bisogno: le risposte alla domanda di senso.

L’uomo non può vivere senza chiedesi quale sia il senso del mondo, della vita e del proprio esserci; ogni volta che ha cerato di ignorare tali domande, è scivolato nel cinismo e nell’adorazione della forza e della potenza — o è precipitato nell’abisso della più nera disperazione. Ma il senso ultimo del reale, non può trovarsi nel mondo: sarebbe una contraddizione in termini. L’uomo, infatti, possiede una doppia cittadinanza: cittadino del mondo per un verso, è figlio ed erede dell’eterno, per l’altro…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Pixabay from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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