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Il positivismo è un analfabetismo filosofico, perché scambia il visibile per il reale

Che cosa ce ne faremmo di una ricchissima biblioteca, quand’anche fossimo letteralmente affamati di conoscenza e divorati dal desiderio di sapere, se non conoscessimo la lingua in cui tutti quei volumi, uno più raro e prezioso dell’altro, sono scritti? O, addirittura, se non arrivassimo neppure a capire che cosa siano quegli oggetti; se non sapessimo neppure che cosa è un libro, come avviene a dei selvaggi che non hanno mai visto una città moderna, che non conscono la scrittura e il linguaggio di quei segni, contenuti nelle innumerevoli pagine?

Ebbene: tale è la condizione di colui che si pone davanti a quella immensa biblioteca che è il mondo reale, con un atteggiamento filosofico di tipo positivista; di colui, cioè, che ritiene non esservi al mondo nulla, assolutamente nulla, o, almeno, nulla di significativo, di cui valga la pena occuparsi, al di fuori della sfera del visibile, del quantificabile, del dimostrabile: al di fuori della sfera scientifico-matematica, e della sfera dell’evidenza sensibile.

Così come il selvaggio scorrerà il dorso dei libri, guarderà i segni incisi sulla pelle o sulla tela, li prenderà in mano, forse, li porterà all’orecchio per captare eventuali suoni, li annuserà per coglierne eventuali profumi, ma non arriverà mai a capire di avere fra le mani opere quali la Bibbia, o i dialoghi di Platone o i trattati di Aristotele, anzi, non arriverà mai a capire che possa esservi in essi un significato recondito, che non ha alcuna relazione con il loro aspetto esteriore, con il loro colore, o con il loro peso; allo stesso modo la persona imbevuta di mentalità positivista non arriverà mai a capire la vera natura del reale, si fermerà fatalmente in superficie, scambierà il fenomeno per il noumeno, il significante per il significato: scambierà il dito per la Luna.

Oggi la stragrande maggioranza degli uomini, specialmente nell’ambito della civiltà occidentale, sono profondamente imbevuti di mentalità positivista e scientista: non vedono se non quello che capita loro sotto gli occhi, non si domandano perché, si limitano a osservare come le cose funzionino esteriormente. I loro occhi sono ciechi, i loro orecchi sono sordi, la loro mente è velata: una cappa di pregiudizio impedisce loro di comprendere, li rinchiude in una serie di verità anguste e contingenti, nessuna delle quali, e neppure la loro somma, li poteranno lontani o permetteranno loro di sospettare cosa sia realmente il mondo reale.

A partire da quando Galilei affermò che la natura è scritta in caratteri matematici, che soltanto lo scienziato sa leggere; e da quando Kant sostenne che la metafisica è inutile, perché indimostrabile, è come se una barriera invisibile, ma invalicabile, fosse caduta fra noi e il reale. L’uomo pre-moderno sapeva, e l’uomo spirituale sa tuttora, che esistono molte altre cose, oltre a quelle visibili; che l’essenza del reale è invisibile, perché di natura non materiale; eppure essi non dubitano affatto della sua esistenza, perché sono coscienti che la parte visibile del reale è solo una piccola parte, più piccola ancora della parte sommersa dell’iceberg rispetto all’intero.

L’immagine del selvaggio e della biblioteca — molto calzante – non è nostra; è di un geniale e isolato pensatore russo, instancabile ricercatore della verità, che — tra le altre cose – si interessò alla teosofia fu anche, per un certo periodo, seguace e collaboratore del filosofo e mistico di origine greco-armena Georges Ivanovic Gurdjieff, ma che non va confuso con la schiera, tutto sommato mediocre, dei suoi seguaci e prosecutori: Pëtr Demianovic Ouspensky (o Uspenskij; nato a Mosca nel 1878e deceduto a Lyne Place, in Inghilterra, nel 1947).

Ha scritto P. D. Ouspensky nel suo capolavoro «Tertium Organum. Una chiave per gli enigmi del mondo» (traduzione di Pietro Negri, Roma, Casa Editrice Astrolabio, 1983, pp. 1138-140):

«Supponiamo un selvaggio che esamina un orologio. Ammettiamo che si tratta di un selvaggio accorto e abile. Smonta l’orologio, ne conta tutte le rotelle e tutte le viti, conta quanti denti ha ciascun ingranaggio, prende atto della sua dimensione del suo spessore. L’unica cosa che non sa è che c stanno a fare tutte quelle cose. Non sa che la lancetta compie il giro completo del quadrante in dodici ore, cioè che è possibile sapere che ore sono per mezzo di un orologio.

Tutto questo è "positivismo".

Ci sono talmente noti i metodi "positivistici", che non riusciamo a renderci conto che essi vanno a finire nel ridicolo e che, se ci mettiamo a cercare il significato di qualsiasi cosa, non c fanno affatto conseguire lo scopo.

La difficoltà sta nel fatto che per spiegare il significato il positivismo non serve a niente. Infatti la natura è un libro chiuso di cui esso studia soltanto l’aspetto esteriore.

Quanto a indagare su come la natura funziona, i metodi positivistici hanno fatto molto, come è dimostra dagli innumerevoli successi della tecnica moderna, compresa la conquista dell’aria. Ma al mondo tutto ha la sua precisa sfera d’azione. Il positivismo va benissimo quando cerca di rispondere alla domanda su come una certa cosa funziona, in determinate condizioni; ma quando fa il tentativo di uscire dal suo condizionamento ben definito (per occuparsi di spazio, di temo e di causalità), oppure ha la pretesa di affermare che niente esiste al di fuori di queste determinate condizioni, in tal caso passa i limiti della sfera che gli compete.

È vero che i più scrupolosi pensatori del positivismo negano la possibilità di comprendere nell’"indagine positiva" la questione relativa al perché e al per che cosa. Ma in realtà il punto di vista positivo non è l’unico accettabile.

Il solito errore del positivismo consiste nel non vedere niente tranne se stesso: o ritiene che ogni cosa sia adatta ad esso, o ritiene in genere irrealizzabile gran parte di ciò che si può fare senz’altro, ma non per la ricerca positiva.

L’umanità, tuttavia, non smetterà di cercare una risposta agli interrogativi riguardanti il perché e il percome.

Lo scienziato positivista si trova in presenza della natura quasi come si troverebbe un selvaggio in una biblioteca di libri rari e preziosi. Per un selvaggio un libro è una cosa di dimensione peso ben definiti. Per quanto a lungo si chieda a che scopo serve quello strano oggetto, non scoprirà mai la verità basandosi sul suo aspetto esteriore, e il contenuto del libro continuerà a essere per lui l’incomprensibile noumeno. Allo stesso modo il contenuto della natura è incomprensibile allo scienziato positivista.

Ma se un uomo è al corrente dell’esistenza del contenuto del libro – il noumeno vitale ò se sa che sotto i fenomeni visibili si cela un significato misterioso, può darsi ce a lungo andare lo scopra.

Per riuscirci bisogna capire l’idea del contenuto recondito, vale a dire del significato della cosa in sé.

Lo scienziato che scopre tavolette con geroglifici, o iscrizioni cuneiformi in una lingua sconosciuta, le decifra e le legge dopo lunga fatica. E per farlo gli occorre soltanto una cosa: è necessario che lui sappia che quei piccoli segni rappresentano un’iscrizione. Finché crede che si tratti di un semplice ornamento, come le rifinitura esterna delle tavolette, o di segni a casaccio privi di senso, il loro significato e la loro importanza gli saranno preclusi in maniera assoluta. Ma fategli soltanto supporre l’esistenza di quel significato e già la possibilità di capirlo sarà in vista.

Non esiste cifrario segreto che non si possa sciogliere senza l’aiuto di una chiave. Ma si deve sapere che si tratta di un cifrario. Questa è la condizione prima necessaria, mancando la quale è impossibile fare qualsiasi cosa.

L’idea che esistessero i lati visibili e quelli nascosti delle cose era nota da un pezzo alla filosofia. Si riteneva che i fenomeni fossero soltanto un aspetto del mondo, infinitamente piccolo a paragone del’aspetto recondito, che fossero apparenti, che in realtà non esistessero, che nascessero nella coscienza nel momento in cui essa entra in contatto col mondo reale. Si ammetteva che un secondo aspetto, rappresentato dai noumeni, esistesse effettivamente in sé, ma che per la nostra ricettività fosse inaccessibile.

Tuttavia non c’è errore più grande di quello di dividere il mondo in fenomeni e noumeni, di credere che fenomeni e noumeni siano separati gli uni dagli altri, e suscettibili di essere conosciuti separatamente. Questo è analfabetismo filosofico, che traspare chiarissimo nelle teorie dualistiche dello spiritismo. La divisione in fenomeni e noumeni esiste soltanto nella nostra mente. Il "mondo fenomenico" è semplicemente la nostra percezione sbagliata del mondo.»

Analfabetismo filosofico: come lo è l’aggirarsi del selvaggio fra gli scaffali della biblioteca, di cui ignora completamente il significato. Lo sdoppiamento dualistico tra fenomeno e noumeno, tra cosa come appare e cosa in se stessa, è un radicale fraintendimento, da cui deriva un atteggiamento schizofrenico verso la vita: e tale schizofrenia riguarda sia il positivismo, sia lo spiritismo volgare, da baraccone (che è cosa ben diversa dallo spiritualismo). Le cose come ci appaiono e le cose come sono in se stesse non corrispondono a due differenti modalità dell’essere, ma, semplicemente, a due differenti livelli di percezione del reale: vale a dire che sono stati soggettivi della nostra coscienza e non stati oggettivi, avanti valore assoluto.

A noi umani, la sfera dell’assoluto è preclusa; il che non significa che non esista, o che noi non ne avvertiamo il richiamo; al contrario: ne siamo potentemente attratti, e negare questa attrazione, per accontentarci dei meri dati dell’esperienza sensibile, o di una "lettura" puramente scientifico-matematica del reale, significa rinunciare ad accostarsi al vero significato della vita, e ridursi ad abitare nelle buie e maleodoranti cantine, laddove si avrebbero a propria disposizione decine e decine di stanze in un meraviglioso palazzo, piene di aria e di sole, affacciate su un giardino fragrante di dolcissimi profumi e rallegrato da fontane chioccolanti.

Questo, fino a che apparteniamo alla dimensione dello spazio e del tempo, entro la quale siamo come intrappolati e sacrificati. Ma verrà l’ora in cui saremo sciolti da ciò che ora ci fa velo, e potremo vedere le cose come sono realmente: fatte di pura lue, di pura bellezza, di pura armonia. Musica, probabilmente; o, piuttosto una qualche forma di trasparenza assoluta, totale, di perfetta lucentezza e splendore, che alla musica — la più spirituale e impalpabile delle arti — può solo essere, impropriamente, paragonata. Dice San Paolo: «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo perfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (Prima lettera ai Corinzi, 13, 12).

L’atteggiamento positivista è ridicolo, perché equivale alla presunzione del bambino di sapere tutto, quando ancora non sa nulla: non è soltanto ignoranza, è qualcosa di molto più grave e di molto più profondo, quasi una malattia dell’anima: il rifiuto della spiritualità e della verità, la negazione di ciò che costituisce il significato delle cose e del mondo, quel "quid" che rende la vita degna di essere vissuta: vale a dire, non solo la ricerca di un "perché", o di una serie di perché, ma la ricerca "del" perché: di quell’unico, grande, ineludibile "perché": il perché assoluto, il perché da cui discendono tutte le risposte e in cui si placano tutte le inquietudini.

Negando il mistero del mondo, il positivismo vorrebbe soffocare sul nascere qualsiasi slancio dell’anima verso l’Assoluto; deridendolo, denigrandolo, chiamandolo "alienazione" o "illusione", il positivismo cerca di spegnere la nostra parte migliore: la parte che rimanda verso l’eternità, e che fa di noi, creature contingenti e altamente imperfette, delle scintille dell’Essere, assolutamente necessario e perfetto. Il positivismo, quindi, vorrebbe espropriarci della nostra ricca eredità; vorrebbe degradarci e mortificarci al livello più basso e inconsapevole dell’esistenza. Il livello più basso e inconsapevole corrisponde alla tenace, ostinata assenza del perché; al rifiuto di riconoscere la nostra scintilla divina, la nostra vocazione all’eternità.

Quando la smetteremo di comportarci come dei bambini capricciosi e volubili, e avremo il coraggio di reclamare il diritto alla nostra eredità perenne? Quando impareremo non a guardare, ma a vedere; non a domandarci come, ma perché; quando diventeremo adulti e capiremo di quali ineffabili tesori sono pieni i volumi della nostra biblioteca, e di quale incomparabile splendore è rivestito il mondo?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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