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14 Ottobre 2015Il pensiero primitivo non opera distinzioni categoriali, ma abbraccia tutto il reale in unità

La "scoperta" del pensiero primitivo è una acquisizione recenrte della cultura europea e occidentale: fino a Scriveva Remo Cantoni nella sua opera ormai classica «Il pensiero dei primitivi. Preludio a un’antropologia» (Milano, Il Saggiatore, 1963, pp. 184-5):
«Questo mondo [quello del pensiero "primitivo"] presenta una struttura in un certo senso più unitaria del nostro. In quest’ultimo le singole sfere di realtà, quelle della vita quotidiana, della religione, dell’arte, della scienza, ecc., sono autonome e differenziate tra loro; queste sfere invece, nel mondo mitico primitivo, si avvicinano talmente l’una all’altra che quasi si fondono. Non ancora staccate dal soggetto, non si sono ancora costituite nella loro autonomia e nella loro soggettività per così sire, per cui giacciono tutte su di uno sfondo comune di indifferenziazione. Il primitivo vive in un mondo precategoriale e precritico.
Una delle differenze fondamentali tra il pensiero moderno e quello primitivo consiste nel fatto che il pensiero moderno ha chiara coscienza della relazione e dell’intreccio delle varie forme culturali tra loro e può sempre transitare da una all’altra quando lo voglia; mentre noi sappiamo, ad esempio, che v’è un conflitto tra la scienza e la religione, l’arte e la morale, il sogno e la realtà, il pensiero logico e la creazione mitica, i primitivi mantengono tutte queste forme su di un piano indistinto per cui fondono e confondono ciò che noi non sempre distinguiamo, ma POSSIAMO sempre distinguere.
Questa mancanza di distinzioni nette è uno dei caratteri più salienti della mentalità primitiva. Anche nel rapporto tra il mondo della rappresentazione e quello della percezione, le immagini subiettive e le percezioni obiettive non sono così distinte per il primitivo, da permettergli di separare le due sfere dell’immaginato e del perepito. Così, ad esempio, per parecchi popoli primitivi il sego della obiettività non è affatto legato costantemente alle percezioni. Vi sono per i primitivi percezioni che possono essere viste solo da singoli individui; sebbene esse siano completamente corporee, esse non possono essere viste da tutti. Vi è un gruppo di percezioni privilegiate — noi diremmo VISIONI — le quali sono così costituite, che vengono pensate come oggetti del mondo circostante, ma sono afferrabili soltanto da alcuni individui particolarmente dotati.
Per Leibniz, noi sappiamo, è reale ciò che è percepito in un dato momento, nello stesso modo, da tutte le persone presenti; e questo è il criterio per distinguere i fenomeni reali da quelli immaginari. Ciò che è percepito da una sola persona e gli altri non percepiscono è una illusione o una allucinazione, come è il caso del sogno. Per i primitivi non è così. Noi vediamo dunque come una delle differenze essenziali, quella che l’uomo civilizzato avverte tra mondo delle rappresentazioni e mondo delle percezioni, non esiste affatto per l’uomo primitivo; il segno della subiettività non si è ancora distinto rigidamente così da potersi contrapporre al segno dell’obiettività. Per questo anche le altre sfere della realtà, le quali risalgono tutte, in ultima analisi, a quella distinzione, sono relativamente indifferenziate. Così sono scarsamente differenziati sogno e realtà. Il mondo dell’esperienza primitiva comprende anche il sogno come un segno obiettivo. Un Dajak (Borneo) ha sognato che sua moglie è infedele, e la punisce per questo quando si sveglia. Un intero villaggio Bororo (centro del Brasile) vuol fuggire, perché un uomo ha visto in sogno i nemici avvicinarsi…»
A Cantoni, cui pure va il merito di aver intravisto il significato del pensiero primitivo ben più di quanto l’idealismo crociano, allora imperante in Italia, permettesse alla maggior parte degli studiosi, sembra sfuggire completamente la possibilità che il sogno, dopotutto, potrebbe anche essere qualcosa di più e di più prezioso che un puro e semplice luogo della soggettività, un puro e semplice luogo dell’irrealtà. Cita il caso dei Dajak e dei Bororo, ma non sembra sfiorarlo l’idea che, dopotutto, nel sogno, o almeno nel sogno dei primitivi — la cui psiche, lui stesso lo afferma, funziona secondo categorie diverse dalle nostre di uomini "civilizzati" — potrebbero aprirsi spazi di realtà che, pur essendo soggettivi, nel senso che noi diamo a questo termine, nondimeno sono assolutamente reali, come numerosi casi, osservati sul campo dagli antropologi, sembrano confermare.
Ecco un aborigeno australiano che sogna la morte del padre, avvenuta in un villaggio a più di trecento chilometri ed egli si mette subito in cammino per essere presente ai riti funebri, senza che nessuno lo abbia informato materialmente del fatto. Ed ecco gli abitanti delle Isole Andamane, nell’Oceano Indiano, i quali, all’avvicinarsi del devastante "tsunami" del 26 dicembre 2004, si mettono in salvo prima che l’onda di maremoto si abbatta su di loro, mentre le coste di terre altamente civilizzate, fornite di tutti gli accessori della scienza e della tecnica moderne, compresi i rilevatori di onde sismiche, non hanno avuto la stessa fortuna e hanno registrato un numero impressionante di vittime. E allora? Non vogliamo dire, con questo, che la moglie del Dajak meritasse la punizione per il tradimento che ella aveva compito nel sogno del marito: vogliamo piuttosto suggerire che l’uomo primitivo, in sogno, apprende forse cose che sono reali, anche se ci è sconosciuto il modo in cui ciò possa avvenire.
Il fatto è che il pensiero primitivo ci resta inevitabilmente oscuro se continuiamo a definirlo solo in senso negativo, come fa Cantoni, per esempio dicendo che è esso è il luogo in cui NON si fanno distinzioni fra la religione e la scienza, fra l’arte e la morale, ecc. Siamo proprio sicuri che l’avere operato questa rigida distinzione, cosa di cui siamo particolarmente fieri e orgogliosi e che consideriamo come il segno del nostro "progresso", sia poi così positivo come ci piace immaginare? Siamo proprio sicuri che la perdita dell’unità del reale, che l’introduzione di una sorta di dualismo o schizofrenia tra il percepito e l’immaginato, sia davvero un progresso e ci renda atti a meglio comprendere l’infinita complessità e varietà del reale?
Eppure è evidente che da questa rigida distinzione — rigida, ripetiamo: perché un certo grado di distinzione, almeno nella fase teorica del conoscere, è sicuramente un bene — deriva una meschina incomprensione di tutta una serie di fatti e situazioni a cominciare da quelli di tipo mistico: chi altri è il mistico, infatti, se non colui che si è spinto ad una forma di percezione che, proprio per essere qualitativamente più ampia e profonda di quella ordinaria, è praticamente inesprimibile e, comunque, non osservabile e non misurabile oggettivamente, dunque assolutamente non riconoscibile dal sapere scientifico? Il fatto che non sia "riconoscibile" scientificamente, però, non dovrebbe significare che sia anche irrilevante, o irreale, o addirittura frutto di una frode. Significa, semplicemente, che appartiene ad un altro ordine di esperienza; e che tale ordine di esperienza esige un approccio concettuale differente da quello puramente razionale.
Ed ecco il grande malinteso, il grande fraintendimento (che non sempre si verifica in buona fede da parte degli studiosi): pensare che tutto ciò che non è razionale, o che non si può esprimere per via razionale, né osservare e documentare scientificamente — vale a dire, con possibilità di riprodurre a piacere l’evento osservato — sia, per ciò stesso, anche "irrazionale". Nossignori: esistono almeno due maniere (ma probabilmente molte di più) in cui un fatto può non essere razionale: quella di essere al disotto oppure al disopra del livello di realtà che la sola ragione riesce a percepire, a studiare ed anche, eventualmente, a spiegare.
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