
Satana? Ma certo che esiste: è il Super-io; parola di psicanalista
8 Ottobre 2015
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8 Ottobre 2015La cultura moderna, massicciamente orientata verso il relativismo e il nichilismo, si fa quasi un vanto di negare il concetto stesso di verità e sostiene, sulla scia degli esistenzialisti, che non esiste una verità, ma ne esistono moltissime, tanti quanti sono i soggetti umani.
È falso, e non risulta poi difficile dimostrare che si tratta di un sofisma: la verità, per definizione, non può non esistere; se non esistesse, noi non la cercheremmo; e del resto, se non esistesse, nulla si reggerebbe su se stesso, perché essa è il fondamento di tutto ciò che esiste.
La verità è la garanzia della realtà del mondo; se esiste la possibilità di falsificarla, allora vuol dire che essa esiste, non solo: che essa è il fondamento, logico e ontologico, del reale; pertanto, se non vi fosse la verità, noi non potremmo nemmeno pensare ciò che esiste.
Altra cosa è dire che la verità, in quanto tale, ossia nella sua assolutezza e nel suo accecante splendore, non è sempre, né interamente, alla nostra portata, di noi che la cerchiamo; nemmeno dei migliori fra noi, ossia di coloro che la cercano con più ardore e con più fede.
Ricordiamo la vecchia definizione scolastica, di origine aristotelica, secondo cui la verità altro non è che l’accordo fra la cosa e il giudizio; ebbene, si tratta di vedere se erra il nostro giudizio, non tanto in se stesso, quanto nel rapportarsi alla cosa, nel saperla riconoscere. Le cose non sono "vere" o "false", ma sono vere o false per noi, a seconda che le poniamo nella giusta prospettiva. Sono vere se ci poniamo nella prospettiva dell’essere; false, se ce ne allontaniamo.
Qual è la cosa di cui cerchiamo la verità? Questa è la domanda preliminare. Ora, quanto più la cosa è contingente e relativa, o, per dir meglio, quanto più la consideriamo da una prospettiva contingente e relativa, tanto più sarà contingente e relativa la verità di essa; mano a mano che spostiamo la nostra attenzione verso ciò che è essenziale e necessario, e lo facciamo nella prospettiva dell’essere, tanto più diverrà necessaria ed essenziale la verità di cui entreremo in possesso.
Le singole cose contingenti, gli enti, non sono in senso assoluto, perché non derivano da se stesse la propria esistenza; dunque, nemmeno la verità che esse rappresentano per noi, potrà mai essere una verità in senso assoluto, ma solo in senso relativo. E l’equivoco rispetto ad esse, l’allontanamento dalla verità non riconosciuto — però – come tale, sarà ancora maggiore se noi ci poniamo in una prospettiva superficiale ed estemporanea, e non nell’unica prospettiva certa e vera: quella ontologica, quella dell’essere. Perché, se ci si pone in quest’ultima prospettiva, allora anche le cose più umili o più incongrue, tendono ad assumere una loro ragion d’essere, che prima ci era sfuggita; tendono a diventare non già "necessarie" (perché nulla lo è, di quanto appartiene agli enti), ma, in qualche misura, meno gratuite, meno contraddittorie, meno scandalose o incomprensibili, di quanto non ci fosse apparso in un primo momento.
Se noi diciamo, per esempio: «L’uomo è», diciamo una verità parziale, vale a dire una mezza verità, una non-verità: perché la verità o è intera, o non è tale; dovremmo dire invece: «L’uomo c’è», perché ogni singolo uomo può essere o non essere, ma l’uomo, in senso assoluto, è una realtà contingente, calata in situazione, che non esiste indipendentemente da essa. Quando diciamo di una cosa che «è» intendiamo significare che quella cosa si dà in senso assoluto, in qualunque situazione, o meglio, indipendentemente e al disopra di qualunque situazione. Ma l’uomo non è indipendente né, tanto meno, al disopra della situazione data: la sua situazione è il mondo, caratterizzato dallo spazio e dal tempo.
Eppure, nell’uomo vi è una parte che «è», una parte che non si identifica completamente con il suo corpo, con il suo essere in situazione; una parte che non appartiene al mondo, ma alla sfera dell’assoluto. È la parte di lui che non muore, perché cerca la verità; e, se cerca la verità, vuol dire che è in relazione con essa: non con questa o quella verità, non con le piccole verità parziali, ed, in ultima analisi, ingannevoli, dei singoli enti; ma con la sola verità che è assoluta e perfetta. Ma se è in relazione con essa, ciò significa che anch’essa, in qualche misura, e sia pur di riflesso, fa parte di lui, abita in lui: evidentemente, non nel corpo, che nasce, decade e muore, perché la verità, essendo l’assoluto, non può avere dimora che nell’assoluto.
Ecco, allora, che scopriamo la radice ontologica della verità: la verità è l’essere, non l’ente; ma noi abitiamo nell’essere e ne siamo abitati; dunque, noi siamo parte dell’essere, noi siamo un riflesso, una scintilla dell’essere, che ha in se stesso la propria pienezza, perché l’essere non è soggetto alle vicende del cambiamento, non è qualificabile in senso relativo: l’essere è. Di conseguenza, la morte non ha un potere definitivo su di noi, ma solo sul nostro involucro; e coloro che sono morti non sono scivolati nel non-essere, bensì hanno reciso il legame con ciò che li rendeva contingenti ed effimeri, diventando "perfetti", cioè realizzati, compiuti.
La conclusione di tutto questo è che non dovremmo pensare ai nostri cari defunti come a dei pallidi fantasmi, magari pieni di rimpianti per il mondo della "vita", perché essi sono divenuti pienamente consapevoli dell’essere, da cui tutto parte e cui tutto fa ritorno; siamo noi ad avere una esistenza imperfetta, dunque relativa: non dovremmo rimpiangere il loro distacco, ma consolarci pensando che saremo noi ad incontrarli, rinascendo alla dimensione dell’essere. Questo, infatti, è il morire: ritornare alla fonte, rinascere alla pienezza dell’essere.
Dovremmo anche smetterla di pensare all’umanità come se fosse divisa tra i vivi e i morti. L’umanità forma una realtà unitaria, dove il vero confine non è quello tra la morte e la vita, ma tra la morte interiore, che è il rifiuto della verità e quindi dell’essere, e l’apertura alla vita, che consiste nel fatto di accogliere l’essere e di diventare consapevoli del suo abitare in noi. Chi si ridesta a tale consapevolezza, non morirà; ma chi la rifiuta, è già morto fin d’ora.
Ci piace riportare un ricordo personale di Francesco Canova, già libero docente di Patologia medica e di Clinica tropicale all’Università di Padova, che bene illustra il concetto della sostanziale unità fra i vivi e i defunti, unità che, in senso cristiano, si caratterizza come la "comunione dei santi" e che, talvolta, le persone semplici comprendono, intuiscono e afferrano anche meglio di quelle colte, impacciate dal troppo studio e da un arido sapere libresco (da: F. Canova, «Vivere insieme. Gioia o tormento?», Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1994, pp. 73-5):
«A proposito del culto dei morti, ancora così vivo anche in questo nostro tempo per certi versi così immemore, mi torna alla mente un’escursione fatta con mia moglie alla ricerca dei resti di antiche chiese in una delle zone più povere del Bellunese. Stavamo percorrendo in macchina la strada che va verso Col Broccon, quando sulla nostra destra vedemmo un cartello stradale con il nome di un santo che oggi più non ricordo. Pensammo vi potesse essere qualche antica cappella, e, fermata la macchina, procedemmo a piedi per una stradetta fortemente in salita in gran parte scavata nella roccia. Dopo circa un quarto d’ora di cammino, ci trovammo di fronte a un piccolo agglomerato di case. Fummo sorpresi nel vedere che tutte avevano porte e finestre chiuse. Di aperto trovammo solo una piccola chiesa affiancata da un cimitero. Sull’altare erano due grandi mazzi di margherite fresche sistemati in due vasi di vetro per marmellata. Anche ognuna delle tombe del cimitero, molte delle quali con rustiche lapidi, aveva il suo vaso con fiori freschi. Al centro del paese trovammo una fontana che zampillava acqua freschissima e che quasi certamente aveva costituito il motivo principale della nascita del paese in quel posto.
A lato della fontana vi era una grande vasca in pietra, su cui pensammo di sederci per riposarci un po’. Ci eravamo appena seduti, quand’ecco comparirci davanti una donna tutta vestita di nero come usano le donne non più giovani di quelle parti.
Saputo della nostra sorpresa nel vedere un paese con finestre e porte tutte chiuse, ci spiegò che esso aveva perduto, specie dopo l’ultima guerra, tutti i suoi abitanti. Essi si erano decisi ad andare a cercare lavoro all’estero, prima gli uomini e poi le donne con i figli, perché la vita sul posto era diventata impossibile: i campi abbandonati durante la guerra non producevano più neppure quel po’ di patate e fagioli che un tempo davano. Al paese ritornava solo qualche anziano per morirvi o qualche famiglia per passarvi le vacanze estive.
La sola rimasta era lei, anche se i figli emigrati in Francia le avevano più volte scritto di andare da loro. Aveva preferito rimanere per prendersi cura delle case rimaste disabitate, della chiesa e delle tombe del cimitero. Nella chiesa, sia d’estate che d’inverno, recitava ogni sera il Rosario perché la Madonna aiutasse i vivi che erano lontani e i morti che erano lì sepolti.
Con i suoi compaesani morti che un tempo aveva conosciuto e anche assistito in punto di morte (faceva le "punture", e questo lo diceva con un certo orgoglio) essa teneva un discorso continuo e quanto era avvenuto alle persone del paese, morte o vive che fossero, veniva rivisto e commentato.
A un certo momento la donna ci invitò ad andare a casa sua a bere il caffè. Lo fece con tanta insistenza che alla fine ci parve farle uno sgarbo non accettare. Trovammo una casa in perfetto ordine. Di fronte alla casa c’era un ampio orto, anch’esso ben curato, e pieno di ortaggi e di fiori. Alle pareti della cucina, che faceva anche da tinello, erano appese cornici di varia grandezza, alcune con foto ingiallite, altre invece con foto abbastanza recenti: ritraevano quasi tutte matrimoni e battesimi di tempi lontani e vicini. Mostrandocele, ci diceva: "Per lo più sono di gente morta, ma per me ancora tanto viva; quando d’inverno tutto qui intorno si copre di neve, io accendo quella stufa al mattino e la spengo la sera e ricordo i miei morti come se fossero vivi. È molto bello. Poi sotto Natale e per Pasqua viene anche il parroco a dirci messa". Dir-ci, come se anche i morti e gli assenti si inginocchiassero con lei a celebrare quelle grandi feste cristiane!»
Ed ecco una grande, semplice, sublime verità: i confini fra i vivi e i morti li poniamo noi, quando ci collochiamo in una prospettiva sbagliata, perché parziale e frettolosa: la prospettiva del contingente e dell’immediato. Se ci collochiamo nella prospettiva del necessario e dell’eterno, ecco che quei confini cadono, si sbriciolano, si dissolvono: non esistono più. Noi e i nostri morti, siamo una cosa sola; i nostri figli e noi stessi, quando anche noi saremo morti, saremo una cosa sola; nonni e nipoti, bisnonni e pronipoti, e così via, abbracciando tutte le generazioni, tutti i popoli, tutte le creature viventi dell’intero pianeta, dell’intero universo: non esistono confini fra la vita e la morte, in un mondo fondato sulla continuità della vita, sul continuo trionfo della vita sulla morte. La vittoria della morte è apparente: basta ritornare, dopo qualche anno – o di qualche milione di anni, con l’immaginazione, beninteso, ma sulla base delle nostre conoscenze scientifiche più avanzate – sul luogo di un bosco distrutto dal fuoco, di una città bombardata dalla guerra, di un pianeta inaridito, di una stella spenta e collassata su se stessa. Ovunque la vita ha trionfato: il bosco è rinato, la città è stata ricostruita, i corpi celesti si sono trasformati e hanno seminato nell’immensità dell’universo la materia per nuove galassie, stelle, pianeti.
Qualcuno potrebbe obiettare che una cosa è la continuità della vita e della materia, altra cosa è la vita individuale, propria dei singoli enti. Certo, la vita degli enti è effimera. Noi, però, non siamo solamente enti: il nostro involucro, destinato a trasformarsi e a scomparire, lo è; ma la nostra essenza non è un semplice ente: è una scintilla dell’essere. Noi non siamo l’essere, ma abbiamo in noi stessi la dimensione dell’essere. Ed è questo che ci fa grandi: anche quando cadiamo più in basso; anche quando ci rotoliamo nella polvere e diguazziamo nel fango, gracidando come rane impazzite, latrando e abbaiando come cani selvaggi o come lupi famelici. Perché è vero, sì, che gracidiamo, latriamo e abbaiamo: ma lo facciamo perché invochiamo l’essere, anche quando non lo sappiamo, anche quando scivoliamo in basso, abbrutendoci e lordandoci. Tutta la nostra anima chiama l’essere, di cui conserva una profonda, bruciante nostalgia: e quando urla e latra, lo fa perché è divorata dalla fame e dalla sete dell’essere.
I nostri cari che hanno varcato la soglia del tempo sono già tornati alla dimensione dell’essere. Sono le nostre guide preziose, che ci aprono la strada. Presto li raggiungeremo: e saremo guide per altri…
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