
La vittoria di Tia Hellebaut su Blanka Vlasic è stata il trionfo della grazia discreta e dello stile
6 Ottobre 2015
È giusto aiutare un bambino a non credere che viviamo in un mondo cattivo?
7 Ottobre 2015Che cosa c’entrano la linguistica con la politica, e la teoria degli "universi linguistici" con il giudizio sull’intervento americano nella guerra del Vietnam? Evidentemente, non c’entrano niente di niente. Eppure, per gli intellettuali progressisti e radicali, le cose non stanno così; per tutti costoro, essersi fatti un nome in una disciplina specifica, la linguistica, la filosofia, la letteratura, e perfino la matematica (come è stato il caso di Bertrand Russell), significa automaticamente acquisire il diritto di passare dalla cattedra al pulpito, e, dall’alto del pulpito, distribuire all’umanità intera una serie di consigli, di durissime reprimende, di accorate esortazioni, circa le più varie e disparate questioni d’ordine generale: politico, sociale, economico, morale.
L’intellettuale progressista e radicale dell’età moderna, nato con l’illuminismo e culminato con il 1968, è la versione laica e positivista (o esistenzialista, o psicanalista, eccetera) del predicatore quaresimale del Medioevo: sorta di frate domenicano senza saio e senza Dio (a parte, di solito, la scienza, che ne fa le veci), egli tuona contro l’immoralità dell’ordine sociale esistente, contro la grettezza della borghesia, contro l’ipocrisia dei benpensanti, contro la superstizione del popolino, contro i privilegi delle élites (delle quali élites fa parte, e dei quali privilegi gode in pieno), contro la lentezza della storia, contro ogni genere e forma di passatismo, conservatorismo, tradizionalismo, equiparati al Diavolo di dantesca memoria. Egli gode a terrorizzare e infiammare il suo pubblico, ora brandendo il bastone delle terribili sciagure che si abbatteranno sulle nazioni della terra se esse non ascolteranno le sue profezie e non accoglieranno i suoi comandamenti, ora porgendo la carota per blandirlo, con il fargli intravedere tutti i vantaggi, tutto il benessere, tutta la felicità di cui il mondo intero potrà gratuitamente disporre, se solo ascolterà la sua voce e metterà in pratica le sue geniali teorie e le sue inconfutabili affermazioni.
Più fondamentalista dei predicatori medievali, dei domenicani e degli agostiniani, egli non si limita a spaventare e blandire il pubblico, né a mettere in vendita le indulgenze (sotto forma dei suoi libri in formato best-seller, dei suoi articoli sulla stampa, delle sue tele-prediche fisse oppure occasionali), ma pretende di abolire ogni distinzione tra l’ambito del sacro e quello del profano e si adopera per instaurare il più rigido integralismo laicista e scientista: né si deve dimenticare che, fino alla sua ingloriosa e recente eclisse, il marxismo, furoreggiante da migliaia e milioni di siffatti pulpiti, grandi e piccoli, autorevoli o no, veniva spacciato, appunto, per l’ultimo ritrovato di una scienza politica soteriologica e pietosa delle umane sofferenze, così come pretende ancora di essere una forma di scienza salvifica e curativa del dolore umano quella specie di magia nera che si spaccia, appunto, per scienza e che va sotto il nome di psicanalisi.
Solo se si inquadra il fenomeno in questo contesto, che è, in fondo, quanto di più tristemente narcisista, autoreferenziale e piccolo-borghese (nel senso più infamante del termine) si possa immaginare, vera e propria patologia degli intellettuali (i quali sono, in se stessi, una vera e propria patologia sociale, nonché una metastasi della cultura), si arriva a comprendere come sia possibile che un linguista, un matematico, uno scrittore con qualche vaga velleità filosofica, non abbiano avuto un istante di esitazione nel passare dalla cattedra universitaria al pulpito ecclesiastico (della odierna chiesa laicista e cripto-massonica, beninteso) per sproloquiare su tutto e su tutti, per arringare gli studenti, per incitare e aizzare le folle, le quali di tutto avevano bisogno, specialmente negli anni attorno al 1968, tranne che di essere incitate ed aizzate da codesti incendiari ben remunerati e da codesti rivoluzionari da operetta.
La parabola di Noam Chomsky dalla linguistica alla tuttologia radicale permanente è stata ben riassunta nell’acuto e graffiante saggio dello storico e giornalista Paul Johnson «Gli intellettuali» (titolo originale: «Intellectuals»; traduzione dall’inglese di Lucio Trevisan, Milano, Longanesi & C., pp. 431-432):
«… "Come avviene che gli esseri umani, i cui contatti con il mondo sono brevi, personali e limitati, riescono tuttavia a conoscere tutte le cose che in effetti conoscono" [Bertrand Russell]? A questo interrogativo due sono le risposte, antitetiche. Una è la teoria delle idee innate formulata da Platone, che, nel "Menone", dice: "Esistono, nell’uomo che non conosce, rette opinioni riguardo a ciò che egli non conosce". I contenuti mentali più importanti sono presenti fin dal principio, anche se per portarli a livello di coscienza è necessaria l’esperienza o uno stimolo esterno che agisca sui sensi. Descartes sosteneva che tale conoscenza intuitiva è la più affidabile di tutte, e che tutti gli uomini nascono con questo patrimonio, anche se solo coloro che si dedicano alla riflessione ne realizzano in pieno le potenzialità. Questa è la concezione condivisa in varia misura da quasi tutte le scuole filosofiche dell’Europa continentale.
A fronte abbiamo invece la tradizione anglosassone dell’empirismo, che ha i suoi teorici in Locke, Berkeley e Hume: essa sostiene che, mentre le caratteristiche fisiche possono essere ereditate, la mente alla nascita è una "tabula rasa" e i suoi contenuti sono tutti acquisiti attraverso l’esperienza. È la concezione prevalente in Inghilterra, negli Stati Uniti e in altri paesi di cultura anglosassone.
Attraverso i suoi studi sulla sintassi, cioè sui principi che governano la strutturazione delle parole o dei suoni in frasi, Chomsky giunse a individuare quelli che chiamò "universali linguistici". Le lingue parlate nel mondo sono assai meno diverse tra loro di quel che sembrano, perché tutte hanno in comune gli universali sintattici, che determinano la struttura gerarchica delle frasi. Tutte le lingue studiate da Chomsky e dai seguaci della sua scuola si conformano a questo modello. Secondo Chomsky queste regole invariabili di sintassi intuitiva sono così profondamente radicate nella coscienza umana che devono necessariamente essere frutto dell’eredità genetica: la nostra capacità di usare il linguaggio è cioè innata, e non acquisita. L’interpretazione che Chomsky dà dei suoi dati linguistici potrebbe non essere corretta, ma è a tutt’oggi l’unica plausibile, e lo pone inequivocabilmente nel campo cartesiano o "continentale".
La sua tesi ebbe grande risonanza, e non solo negli ambienti accademici, facendo di Chomsky una specie di celebrità, come era accaduto a Russell dopo la sua opera sui principi della matematica, o a Sartre quando divulgò l’esistenzialismo. La tentazione, in questi casi, è di sfruttare la celebrità acquista grazie all’eccellenza nella propria disciplina per costruirsi un podio dal quale proclamare le proprie opinioni su questioni di interesse pubblico. Russell e Sartre […] cedettero a questa tentazione; e Chomsky fece altrettanto. Negli anni ’60, tra gli intellettuali dell’Occidente, e specialmente tra quelli americani, si era andato acuendo il dissenso per la politica americana nel Vietnam, e per la sempre maggiore violenza con cui veniva condotta. In questo si coglie un paradosso: come è possibile che, negli anni in cui si dimostravano sempre più disposti ad accettare l’uso della violenza nella lotta per l’uguaglianza razziale o l’emancipazione dal colonialismo, e addirittura da parte di gruppi terroristici, poi quegli stessi intellettuali trovassero la violenza così ripugnante se a praticarla era uno stato democratico dell’Occidente, intenzionato a proteggere tre piccoli paesi dal pericolo di invasione da parte di un regime totalitario? È un paradosso che non trova spiegazioni logiche; bisogna accontentarsi di quelle fornite dagli intellettuali, secondo cui la "violenza istituzionalizzata" è da respingere, mentre quella individuale, personale, la "contro violenza", è da giustificare. Sono spiegazioni che certo Chomsky considerava convincenti, tanto da diventare il principale oppositore della politica americana in Vietnam e da trasformarsi, da studioso dei meccanismi e dei misteri del linguaggio, in dispensatore di consigli di geopolitica.
Orbene, è tipico di tali intellettuali il fatto di non cogliere alcuna incongruenza nel fatto di passare dalla propria disciplina, dove sono maestri riconosciuti, agli affari pubblici, dove hanno certamente diritto di parola, ma non più né meno di tutti gli altri. Invece, a loro dire, le loro speciali conoscenze gli consentirebbero di capire le cose più a fondo. Russell era indubbiamente convinto che le sue doti di filosofo rendessero i suoi consigli all’umanità sui più disparati problemi degni di essere seguiti (pretesa che Chomsky sottoscrisse nelle sue "Russell Lectures" del 1971). E Sartre riteneva che l’esistenzialismo fosse direttamente rilevante per i problemi morali sollevati dalla guerra fredda e per le nostre opinioni sul capitalismo e il socialismo. Per parte sua Chomsky concludeva che il suo lavoro sugli universali linguistici era di per sé una prova decisiva dell’immoralità della politica americana nel Vietnam. Come è possibile? Tutto dipende, spiega Chomsky, da quale teoria della conoscenza si accetta. Se davvero alla nascita la mente è una "tabula rasa", e gli esseri umani sono, per così dire, pezzi di plastilina da modellare come si vuole, allora essi sono destinati a subire "l’opera volta a plasmare il comportamento condotta dalle autorità statali, dalla dirigenza dei grandi monopoli, dai tecnocrati o dal Comitato centrale". Se, d’altro canto, uomini e donne posseggono strutture mentali innate e un bisogno intrinseco di modelli culturali e sociali che per loro sono "naturali", tali interventi autoritari finiranno inevitabilmente per fallire, ma non prima di aver ostacolato il nostro sviluppo e non senza aver manifestato una terribile crudeltà. Il tentativo degli Stati Uniti di imporre la loro volontà e i loro modelli di sviluppo sociale, culturale e politico nel Sudest asiatico costituiva appunto un atroce esempio di tale crudeltà.»
Sarebbe perfino comico, se non fosse soprattutto triste, vedere fino a che punto questi signori intellettuali progressisti si sono presi sul serio in ambiti nei quali non avevano la benché minima competenza, e sono stati presi sul serio da un pubblico che pure avrebbe dovuto rendersene conto, se non fosse stato narcotizzato, omologato, abbrutito da decenni di appiattimento egualitario a base consumista, relativista ed edonista. Insomma: il pubblico era già cotto al punto giusto allorché sono saliti sul pulpito codesti improbabili profeti, codesti ciarlatani e coribanti, se è vero, come è vero, che quasi nessuno si è accorto del trucco e che quasi nessuno ha osato gridare a voce alta la grande, scandalosa, indicibile verità: che il re era in mutande e che tutti quanti stavano ammirando, lodando e pregiando un vestito del tutto inesistente. Solo così si spiega la rumorosa, anche se — in generale — effimera celebrità che si sono conquistati sedicenti filosofi semplicemente incomprensibili, poeti ermetici altrettanto indecifrabili, linguisti, semiologi, etnologi, psicologi, sociologi e compagnia bella, tutti accomunati da un elemento essenziale: essere, o considerarsi, l’avanguardia di un mondo nuovo, gli annunciatori di una terra promessa posta lì, dietro, l’angolo, nonché la coscienza critica di una società falsa ed ipocrita, bisognosa di una cura radicale per ritrovare salute e vitalità, di una nuova tavola delle leggi, la quale può cambiare anche radicalmente di contenuto — ieri filosovietico, oggi filoamericano; ieri comunista, oggi capitalista — conservando sempre, però, la stessa ineffabile presunzione, la stessa immodificabile petulanza e saccenteria.
I tuttologi radicali cambiano, anzi, invertono – e con la massima disinvoltura – il senso di marcia, però rimangono fedeli a se stessi in una cosa: nella pretesa di essere ascoltati come altrettanti oracoli allorché parlano ex cathedra, nella forma ufficiale e solenne, dagli schermi della televisione e dalle colonne dei giornali: allorché ci spiegano oggi perché è necessario che la N.A.T.O. faccia la guerra in Serbia, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria, e, magari, anche in Ucraina (Dio non voglia, perché ciò scatenerebbe la Terza guerra mondiale), con la stessa convinzione con cui ci spiegavano perché, ieri, era necessario che i Sovietici schiacciassero la rivolta di Budapest, che gli Americani fossero sconfitti e scacciati dal Vietnam e perché la rivoluzione di Fidel Castro avrebbe dovuto estendersi a tutta l’America latina. Impareggiabili mosche cocchiere, si sentivano e si sentono, ancora oggi — in parte sono fisicamente gli stessi, in parte sono i loro cloni generazionali – come altrettanti piccoli Hegel (dal quale, infatti, idealmente discendono), interpreti autorizzati in esclusiva e soli depositari dello Spirito del mondo, che loro solamente sanno dove stia soffiando. Chissà, domani forse canteranno le lodi della Cina; o dell’islam radicale; o della New Age; o del Confucianesimo, del Veganismo, dello Yoga, del culto dei Dischi volanti. Finché la società e la cultura seguiteranno a fare riferimento a simili guide, e prenderanno a modello simili personaggi, sarà improbabile una messa a fuoco dei veri problemi ed una individuazione delle priorità da affrontare, nonché delle strategie e dei mezzi con cui farlo. Perciò, per prima cosa, bisognerebbe proclamare, a voce alta e forte, che il re è nudo: e mandare a casa tutta codesta genia di predicatori tuttologi e onniscienti; specialmente se sono anche progressisti e "illuminati"…
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio