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30 Settembre 2015Cacciato dal Paradiso terrestre dell’infanzia, l’adulto conserva la nostalgia dell’infinito

L’infanzia: luogo della minorità umana secondo gli antichi; stato felice perché anteriore al peccato secondo il cristianesimo; di nuovo luogo della minorità per il razionalismo seicentesco; e ancora, stato felice per la reazione sentimentale romantica: fino alla presente confusione concettuale, in cui pare che essa non abbia trovato una sua plausibile collocazione nel contesto dei valori sociali più o meno riconosciuti e dei contrastanti bisogni produttivi e spirituali.
È buono, il bambino, oppure è cattivo? È uno stato felice, l’infanzia, oppure è soltanto una fase preparatoria a ciò che l’uomo adulto è chiamato a divenire, alle responsabilità che egli dovrà assumere? Cosa deve pensare l’uomo adulto del bambino; cosa deve pensare dell’infanzia; cosa deve credere e pensare di quel se stesso che è stato un tempo, ma già così lontano che non si può misurare solo con i fogli del calendario; di quella condizione ormai così remota, e in cui tuttavia egli ha vissuto, che sembra confinare con il sogno, con l’irrealtà?
Se accettiamo la tripartizione dell’anima umana, ammessa e sviluppata dai alcuni dei più grandi filosofi del passato, compreso Sant’Agostino, di intelligenza, volontà e amore, che ruolo svolge in siffatta trinità umana l’infanzia, nella quale l’intelligenza è ancora allo stato latente – almeno nel senso di razionalità; la volontà non è stata affatto educata, e dunque si manifesta in maniera capricciosa e imprevedibile; e l’amore è una forza istintiva e incontrollabile, che corre liberamente, ma pericolosamente, insieme alla sua negazione speculare, l’odio?
Ha osservato il filosofo Remo Bodei nella sua monografia «Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste» (Bologna, Il Mulino, 1991, pp. 176-8):
«Tanto Agostino, quanto più tardi Descartes e Hobbes, sembrano porsi sull’onda lunga della tradizionale svalutazione dell’infanzia, filosoficamente inaugurata da Platone e proseguita poi da Aristotele e dagli stoici. L’immagine del bambino "cattivo" non deve naturalmente stupire se si pensa che la "scoperta" dell’infanzia è un fenomeno relativamente recente. La stessa idea rousseauiana — per noi ormai banale e inguaribilmente retorica — dell’uomo buono quando esce dalle mani del creatore e poi corrotto dalla vita sociale, ha in effetti dovuto vincere, per affermarsi, tenaci e consolidate resistenze: non solo su quelle del senso comune (che insisteva sugli stessi comportamenti descritti da Agostino), ma anche quelle dogmatiche, legate alla dottrina del peccato originale e all’ostilità (ancora più forte nella calvinista Ginevra) nei confronti del pelagianesimo e delle sue riprese moderne. Tra i diversi fattori di promozione di questo nuovo atteggiamento nei confronti dell’infanzia — quali, ad esempio, la diminuzione della mortalità infantile, che accresce e stabilizza l’affetto dei genitori verso esseri che acquistano progressivamente maggiori speranze di diventare adulti — vi è anche un mutamento interno nelle costellazioni concettuali. Tra Seicento e Settecento si produce cioè un corto circuito culturale nella rete che unisce — in linguaggio agostiniano — l’intelligentia o la ratio con le passiones, la voluntas e la memoria. La scoperta dell’infanzia implica infatti una serie di presupposti di natura diversa, anche teoretica, che rendono possibile un capovolgimento di prospettiva. Essi sono offerti, rispettivamente, dall’individuazione di una "logica poetica" della fantasia (o già prima, in Spinoza, di un ordo imaginationis), che spezza il monopolio logico della ragione; dal districarsi delle passioni irruente e prepotenti dai sentimenti delicati e dolci; dall’apprezzamento di ciò che è spontaneo e che si manifesta senza inibizioni o sforzi apparenti; dall’esaltazione della spinta pulsionale in contrasto con il precedente riconosciuto primato della volontà.
Si disgregano le strutture d’ordine e le pratiche di disciplinamento di esorcizzazione delle passioni, non più considerate ormai quale perpetua minaccia che incombe sull’anima o come disobbedienza di alcune sue parti, bensì come espressione naturale del sentimento e della potenza di esistere. Il sorgere del mito dell’infanzia — quale polo magnetico della memoria, luogo simbolico di un’esistenza non ancora ferita, offesa o inaridita — cifra nascosta del senso di tutta la condotta e di tutti i desideri che successivamente si schiuderanno — rappresenta l’ultima fioritura di un lungo processo di rivalutazione di una razionalità sino ad allora rifiutata o non compresa in nome di una presunta malvagità delle origini. Bambino, artista e selvaggio vengono in tal modo "romanticamente" accomunati nelle vesti di campioni di una genuina umanità non (o non ancora) guastata dalla civiltà o dal "fardello dell’uomo bianco", da quella razionalità cioè che ne fonda il dominio sul mondo al prezzo di una rinuncia ai moti spontanei del "cuore" e dei "sentimenti". Cacciati presto dal paradiso terrestre dell’infanzia, gli adulti delle classi colte europee cominciarono oltre due secoli fa a privilegiare idealmente quegli uomini e quelle donne che rimangono "fanciullini" nell’anima e che, agli occhi della società, possono invece apparire come degli irregolari, a cui la ragione non è riuscita ad imporre il suo morso. Si tratta, in senso lato, di "poeti", capaci di creare qualcosa di nuovo estraendolo dalle profondità dell’animo (e non dalla mens) o dall’amore come passione e slancio privo di calcolo, che tutto rischia — come nelle eroine di Stendhal o di Ibsen — per uscire al di fuori dell’ordine angusto reso obbligatorio dal costume e dalle convenzioni.»
Una cosa è certa: cacciato dal Paradiso terrestre della sua infanzia, l’uomo conserva poi, per tutta la vita, con acuta, bruciante intensità, la nostalgia di quella condizione felice, spensierata, gioiosa, che è poi la nostalgia dell’Assoluto: perché l’infanzia è l’età delle esperienze assolute, delle rivelazioni arcane, delle intuizioni folgoranti e definitive. Ciò che viene appreso nell’infanzia per via d’intuizione immediata, non verrà scordato mai più; né mai l’adulto cambierà opinione intorno a quelle cose, dovesse pure mutarla riguardo a mille e mille altre. Ciò che il bambino capisce e afferra, non dall’esperienza dell’adulto, razionale e mediata, ma dalla propria, fantasiosa e immediata, entrerà a far pare del suo Sé in maniera pressoché definitiva.
In effetti, il bambino ha in se stesso tutto il suo mondo; e, se è vero che quel mondo si allarga continuamente, ad ogni nuova scoperta, e si trasforma, mano a mano, anche in senso qualitativo, perché uscire dall’infanzia significa anche apprendere le cose in maniera affatto diversa da come le si apprendeva da piccoli, è altrettanto vero che il bambino, pur trovandosi al centro di un universo cognitivo in costante evoluzione, possiede comunque, entro un certo limite, una sorta di mappa concettuale d’insieme, la quale, per quanto sia soggetta ad un quotidiano ampliamento e ad una incessante revisione, è già completa in se stessa: non "completa" nel senso che sia definitiva, ma nel senso che, di per se stessa, è sufficiente alle sue necessità del momento e gli offre strumenti adeguati — adeguati in senso relativo, beninteso — di lettura della realtà.
In altre parole: quello che il bambino impara, quello che sa e che viene scoprendo, è proporzionato alle sue necessità e, soprattutto, alla sua logica: che quel sapere sia del tutto insufficiente ad una chiara comprensione del mondo, è una cosa che egli potrà giudicare più tardi, da ragazzo o da uomo adulto; ma, per intanto, esso gli è sufficiente e adeguato; e, anche se a molte domande non sa rispondere, pure egli colma quei "buchi" cognitivi con delle ipotesi provvisorie, che, all’interno del suo sistema di logica, sono perfettamente ragionevoli e soddisfacenti, anche se più tardi, con l’età adulta, lo faranno sorridere per la loro stravaganza e la loro enorme approssimazione.
Viene quasi da domandarsi se l’io adulto sia proprio lo stesso io dell’età infantile o se, nel corso del processo evolutivo, avvenga qualche cosa di ben più profondo e radicale, che non un semplice movimento di espansione, di perfezionamento e di consolidamento: viene da chiedersi, cioè, se l’adulto sia soltanto il bambino che era ieri, se sia proprio lui e ancora lui, reso diverso dal progressivo accumularsi dell’esperienza e dal differente modo di porsi le domande e di rispondere ad esse, o se non sia ormai un tutt’altro individuo, che conserva dei labili legami con il precedente, al quale appartiene solo in maniera indiretta e parziale: non più di quanto il riflesso di un albero che cresce presso la riva del fiume "appartenga" all’albero, dal quale certamente deriva la sua realtà, ma dal quale, anche, è separato da una distanza ben più grande di quella che materialmente si interpone fra essi; una distanza, in effetti, abissale, dal momento che l’albero riflesso sull’acqua e l’albero che affonda le sue radici sulla sponda del fiume non appartengono allo stesso ordine di fenomeni, allo stesso piano di realtà, ma a due universi completamente distinti.
Ebbene: proviamo adesso a domandarci che cosa penserebbe l’albero — qualora, ovviamente, gli fosse consentito di pensare — scorgendo, un giorno, sulla limpida superficie dell’acqua che scorre ai suoi piedi, la propria immagine riflessa, e naturalmente capovolta: così come vedrebbe riflesse e capovolte tutte le altre cose intorno, il cielo, le nuvole e perfino il sole. Riconoscerebbe, in quella immagine riflessa e tremolante, in quella immagine capovolta, in quella immagine labile e quasi evanescente, che ora appare e ora scompare, a seconda dell’incidenza della luce sull’acqua e del variare dell’ora del giorno, la propria immagine? Giungerebbe a comprendere che quel secondo albero, tremolante sul filo della corrente, è la sua stessa proiezione, è lui stesso, trasformato dalle leggi della rifrazione della luce e reso diverso dal fatto di appartenere ad un altro piano di realtà, quello bidimensionale, mentre lui appartiene ad un mondo a tre dimensioni?
Non si tratta di domande oziose: quell’albero è simile a noi e l’albero riflesso, che si specchia sulle onde del fiume, è il nostro io di quando eravamo bambini. Qualcosa è successo, qualche cosa di radicale, di incomprensibile, che ha creato una distanza incolmabile fra il nostro io adulto e il nostro io di allora: sì, sappiamo di essere sempre noi, perché ci sono le fotografie, i ricordi, la testimonianza delle altre persone: però, in fondo, non ci crediamo troppo. Sentiamo di appartenere ormai a un altro mondo, a un mondo del tutto diverso, rispetto al quale il nostro io bambino è diventato qualcosa di più lontano e di più estraneo di un remoto ricordo: è diventato un estraneo. E la prova di ciò è che le cose di allora — i nostri vecchi giocattoli, per esempio; o la vista della nostra vecchia casa — non suscitano più in noi le stesse reazioni, e neppure reazioni simili; non trovano un riscontro analogo; non mettono in movimento un ordine logico e concettuale, né una tonalità affettiva, anche solo vagamente paragonabile a quelli di allora. Questa, crediamo, è la prova del fatto che noi non siamo più quelli: siamo divenuti diversi; non perché siamo cresciuti, ma perché siamo cambiati; siamo diventati quasi completamente altri.
La nostalgia dell’infanzia è, pertanto, il rammarico per la perdita di quell’io altro che noi eravamo allora; non proviamo rammarico per il fatto di essere cresciuti. Se, crescendo, il nostro io fosse rimasto essenzialmente lo stesso, non ci morderebbe il cuore una così intensa nostalgia. Allo stesso tempo, in noi vi è l’oscura intuizione che quell’io altro, che noi eravamo allora, era più vicino, molto più vicino di quanto non lo sarà mai il nostro io attuale, al segreto originario del mondo: alla dimensione immediata dell’essere. Il bambino, proprio perché sprovvisto della logica adulta, ha fede nell’invisibile, nell’impossibile, in ciò che sfida le leggi della matura, così come noi le conosciamo (o crediamo di conoscerle); ma non è cosciente del fatto che ciò rappresenti una sfida, e vive la propria condizione come perfettamente naturale – come, in effetti, lo è. Il bambino non è un adulto in potenza, che deve ancora crescere: il bambino è altra cosa dall’adulto. E, lo ripetiamo, non è affatto sprovvisto di logica: possiede anche lui un sistema di logica, ma esso funziona in tutt’altro modo che quello della logica propria dell’adulto.
Così, tornando alla similitudine precedente, l’albero riflesso sulla superficie del fiume appare, rispetto all’albero "vero", come qualcosa di provvisorio, di incompleto, di imperfetto (gli manca, infatti, l’esistenza autonoma e tridimensionale); eppure, in quella mutevolezza, in quella apparente fragilità, esso è forse più vicino al mistero dell’essere di quanto non lo sia l’albero solido e concreto, che cresce sulla sponda. L’albero riflesso è mobile e duttile, perché non possiede un ego: lo ha lasciato andare, e la corrente del fiume se lo porta via. Il bambino ha un ego, ma non ne è consapevole: la sua apertura coscienziale è talmente smisurata che lo fa stupire di tutto e aderire continuamente alle cose: quando gioca, non gioca con le bambole o i soldatini, è tutt’uno con essi, è parte del loro mondo. Non ha più io. E non era forse questo il Paradiso terrestre: lasciar andare l’io?
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