
Il Vaticano II è stato un colpo di mano dei teologi “progressisti” per scavalcare il Magistero?
22 Settembre 2015
Pregiudizio e tradizione: i due fondamenti del pensiero e della società
23 Settembre 2015Il confine tra realtà e immaginazione è molto più labile di quanto siamo disposti a credere

Che cos’è la realtà, e in che cosa si differenzia dalla realtà fittizia, pura creazione della nostra immaginazione soggettiva?
Domanda non facile, a dispetto di quel che generalmente siamo disposti ad ammettere: il confine tra le due sfere, infatti, non è così netto come ci s’immagina; è solo un velo sottile, che in qualunque momento può lacerarsi e far sì che noi ci troviamo, stupefatti e sconcertati, nel bel mezzo di quella misteriosa terra di nessuno che non è né l’una cosa, né l’altra.
Incominciamo col distinguere fra il reale e la realtà. Non sono termini equivalenti: il reale è tutto quello che costituisce la struttura dell’essere; la realtà è solamente la parte visibile di essa, che noi, per pigrizia o per semplicismo, consideriamo un tutt’uno con essa: il che sarebbe come scambiare la parte emersa di un iceberg (che costituisce, come si sa, appena l’11% del suo reale volume) con l’iceberg tutto intero. Insomma: quella che noi chiamiamo la realtà è solo quella parte del reale che giungiamo a percepire, a dedurre, a immaginare: il reale effettivo ed il reale intelligibile, ossia che può essere compreso e conosciuto, pur non avendo natura sensibile.
Ma, oltre al reale percepibile e intelligibile, vi è dell’altro: quella parte del reale che sfugge ai nostri sensi e perfino ai nostri concetti, agli stessi sforzi della nostra immaginazione. Il nostro pensiero, infatti, per quanto astratto, si basa pur sempre su delle immagini: noi pensiamo per immagini. Prendiamo il caso della geometria: possiamo immaginare innumerevoli rette, figure piane, corpi solidi, eppure tutte queste creazioni della nostra mente noi le vediamo, proprio perché le possiamo concepire in termini razionali. Infatti il primo termine delle nostre strutture di pensiero è l’immagine; il secondo, la logica: possiamo pensare, apparentemente, qualunque cosa, purché essa contenga una logica. Possiamo pensare una casa che poggia su di un solo vertice delle fondamenta, mentre, per il resto, è sospesa nel vuoto: una casa del genere non esisterà mai, come oggetto reale, e tuttavia non è illogica, pur essendo assurda. In fondo, è fatta come qualsiasi altra casa: solo che poggia sopra uno spigolo e si tiene in equilibrio nel vuoto. Possiamo anche immaginare un cavallo che vola, o un pianeta fatto di fiori, o di aghi di pino: sarebbero delle entità assurde, ma non illogiche. Di per sé, non c’è niente di illogico in un cavallo cui sia spuntato, o sia stato applicato, un paio d’ali: è una cosa che si può immaginare, perché va contro il buon senso e contro l’esperienza, ma non contro la logica. Stessa cosa per il pianeta fatto di fiori o di aghi di pino: si tratta di cose assurde, ma non impensabili: dunque, di cose intelligibili. Anche se non nessun astronomo si imbatterà mai in un tale corpo celeste mediante il telescopio, e nessun astronauta arriverà mai a poggiarvi sopra il suo piede.
Possono bensì esistere delle cose che noi non riusciamo né a percepire, né ad immaginare, e tuttavia pensare in astratto. Forse pensare non è la parola giusta, perché abbiamo detto che la mente umana pensa sempre per immagini; piuttosto, dovremmo dire: esistono cose che possiamo giungere a concepire, nel senso che possiamo enunciarne la possibile esistenza, anche se non siamo veramente in grado di pensarle, perché esse eccedono qualunque sforzo immaginativo e qualunque sforzo concettuale basati sull’analogia figurativa. Quando diciamo, per esempio in geometria, che esistono infinite rette giacenti su di un certo piano e passanti per un dato punto, non riusciamo a figurarcele davvero, però possiamo concepire quelle rette infinite, pur restando il concetto di infinito solo una parola. Però se diciamo l’essere, capiamo di che cosa stiamo parlando, ma non possiamo immaginarlo e neanche tentare di pensarlo: possiamo solo aver fede che l’essere esista.
Ora, se l’essere sfugge alla nostra percezione del reale e alla nostra stessa facoltà immaginativa, come possiamo ipotizzare che esista, e persino tentare di dimostrarlo, cosa che, da sempre, si sforza di fare la metafisica? Per due ordini di ragioni: primo, perché ne intuiamo l’assoluta necessità logica: infatti, se non c’è l’essere, allora niente esiste, niente è pensabile, e nemmeno noi siamo possibili; ma poiché lo siamo, anche se, per il momento, non sappiamo bene di che tipo di esistenza siamo dotati, ciò implica che l’essere ci sia in ogni caso, rappresentando esso il sostegno e il fondamento di ogni cosa, visibile e invisibile, dicibile e indicibile, pensabile e impensabile. Secondo: perché possiamo sviluppare svariati ragionamenti per dimostrarne la realtà: quello ontologico, quello causale, quello teleologico, eccetera. Non tutti sono convinti della loro bontà sul piano della dimostrazione, però nessuno — crediamo — potrebbe negare la loro pertinenza sul piano logico-formale. In altri termini: noi possiamo anche avanzare dei dubbi circa il risultato finale di un certo calcolo matematico; ma non possiamo negare che quel calcolo matematico vi sia, esista, e sia perfettamente logico in se stesso, o, quanto meno, che nulla si opponga al fatto della sua logica esistenza. Così è del concetto di essere: possiamo porre in dubbio che ad esso corrisponda una entità reale, ma non che noi stiamo ragionando su di esso; e dunque, se stiamo ragionando su di esso, allora esso esiste, e sia pure — nella peggiore delle ipotesi — come un falso pensiero, come una sorta di fantasma della nostra mente. Sarà pure un fantasma: ma, in quanto fantasma, sarà bene una cosa, e una cosa, nel suo proprio ambito specifico, e cioè a suo modo, reale.
La mente, in definitiva, non può pensare davvero ciò che è radicalmente altro da sé, ma solo ciò che è simile a sé; né può pensare ciò che è molto più grande di lei, ma solo ciò che è più piccolo (concettualmente parlando) o, al massimo, di pari estensione. Delle cose che siano molto più grandi della sua capacità di pensarle, o totalmente diverse dalla sua struttura di pensiero, la mente non è in gradi di pensarle, ma solo di porle, il che è assai diverso. Si può porre l’idea dell’essere, ma non pensarla: perché l’idea dell’essere, in se stessa, è impensabile, pur essendo perfettamente logica e non contraddittoria, né in se stessa, né rispetto all’esperienza.
E tuttavia: chi ci garantisce che le cose che noi possiamo vedere, udire, siano reali? E se fossero il frutto di una vivida allucinazione, di un insolito scherzo involontario della nostra stessa fantasia? Se fossero la condensazione, per così dire, dei nostri sogni, delle nostre aspettative, delle nostre paure? Chi mai potrebbe dirlo? Non gli altri: gli altri non vedrebbero nulla; ma neppure noi stessi: vi sono casi nei quali è difficile, se non impossibile, fidarsi di ciò che si vede e si ode, o si crede di vedere e di udire. Casi nei quali noi per primi dubitiamo di aver sognato o di aver vissuto una qualche forma di alterazione della mente. Il dubbio, però, rimane: quell’oggetto, quel suono, quella voce, erano così vivi e reali, così credibili: davvero si è trattato solo di un bizzarro gioco dei sensi, di un capriccio della mente? Oppure abbiamo sfiorato una ulteriore dimensione, ove esistono cose altre, simili, ma non uguali, a quelle della nostra dimensione, ma che qui non esistono affatto?
Scrive Emile Guikovaty nel suo saggio su «Le stravaganti sorelle Mitford» (titolo originale: «Les extravagantes soeurs Mitford», Paris, Editions Grasset et Fasquelle, 1983; traduzione dal francese di Maurizio Vitta, Milano, Feltrinelli, 1983pp. 11-12):
«Adolf Hitler si uccise il pomeriggio del 30 aprile 1945 chiuso nel suo bunker di Berlino, ma ecco l’onorevole Unity Mitford e sua madre, lady Redesdale, videro lui o il suo fantasma, circa due anni dopo, a Inchkenneth, l’isola verde smeraldo che nel 1773 aveva incantato Samuel Johnson e James Boswell durante il loro viaggio alle Ebridi.
Unity non ragionava più tanto bene. All’inizio del settembre 1939, a Monaco, si era sparata un colpo di pistola alla tempia. I chirurghi tedeschi l’avevano salvata, ma era stato impossibile estrarre il proiettile dal cranio, e il trauma aveva cancellato ogni traccia di realtà da un cervello che, fin dall’infanzia, aveva sempre cercato di fuggirla. Quanto a lady Redesdale, non aveva mai considerato la realtà come qualcosa con cui si potesse avere a che fare. Non faceva parte del suo mondo, che negli ultimi anni si animava unicamente dell’amore per le figlie. Per Unity, in particolare, su cui lei vegliava come su una bambina.
Fu proprio lady Redesdale a vedere Hitler per prima. In quell’epoca le due donne vivevano sole a Inchkenneth. Unity aveva preso l’abitudine di celebrare un servizio religioso nella cappella scoperchiata dell’isola, un rudere del VII secolo, con la madre come unica fedele. Mentre pregavano, lady Redesdale fece cenno alla figlia di guardare verso l’ingresso. Incorniciata dalle pietre sconnesse del portale, si drizzava una sagoma ben nota, col cappotto stretto alla vita, il ciuffo sulla fronte, i baffetti: impossibile sbagliarsi. Fu comunque un’apparizione fuggevole. L’uomo svanì come era arrivato. Unity e sua madre interrogarono i tre o quattro abitanti dell’isola, ma nessuno l’aveva visto approdare o ripartire.
Quello di Inchkenneth era l’ambiente ideale per una simile scena ultraterrena. Per paura dei fantasmi, lo stesso Boswell non si era mai azzardato a penetrare nell’antica cappella eretta in mezzo al cimitero dei Crociati. Non c’è nulla, lì, che possa dirsi con sicurezza vero. Quando il vento lancia le grigie nubi in una corsa folle ai limiti dell’oceano, l’isoletta sembra fuggire con quelle dalle scogliere di Mull, che s’innalzano a meno di una dozzina di gomene. Lady Redesdale coltivava un porto al riparo della sua solida dimora, ma capita spesso che durante la notte la tempesta vanifichi tutti i suoi sforzi lasciando in piedi poche piante annerite dalle brume. E quando questa castellana d’altri tempi dovette far venire un toro da Mull, per le sue vacche, e il battello risultò troppo piccolo e instabile perché si potesse imbarcarlo, ci si mistero in molti per spingerlo verso il mare. Gli fecero passare una corda attraverso l’anello infilato al naso, e lo rimorchiarono così, e il toro nuotò docile per il chilometro e mezzo d’acqua che separa le due isole. I nipotini di lady Rededdale ricordano ancora quella visione di un mostro che levava alto il muso al di sopra delle onde. Essi adorano le vacanze trascorse a Inchkenneth, dove il sogno e l’immaginazione si danno appuntamento a tutte le età.»
Che cosa videro, dunque, le sorelle Mitford? Videro forse il fantasma di Adol Hitler, l’uomo che tanto avevano ammirato? O la loro mente era sconvolta dalla solitudine, dalla sofferenza, dall’isolamento? Dopotutto, si sa che erano inclini all’esaltazione e che non avevano mai brillato per il possesso di un solido senso della realtà. La loro mente era sempre stata attratta da qualcosa che qui non c’è, non si vede, non si trova; da qualcosa che non appartiene al nostro mondo, ma forse ad un altro, parallelo al nostro, e tuttavia estraneo, alieno.
E la stessa cosa non può dirsi per lo scrittore, il poeta, il musicista, i quali vedono e odono cose inesistenti, ma possibili, e talmente realistiche, da imporsi come più reali delle cose fisiche? Oppure pensiamo all’attore di teatro, nel momento in cui sta recitando ed impersona, sul palcoscenico, un certo personaggio. Chi è egli in quel momento: è ancora se stesso, quello di sempre, quello che gli altri credono di conoscere, o è diventato un altro, un guscio vuoto, che si è lasciato riempire da un’altra vita, da un’altra entità, da un altro soggetto? Dove è andata a finire la sua coscienza; a quale mondo appartiene ora: al suo, al nostro? È ancora una creatura di questo mondo? O è diventata una creatura di un altro mondo, di un mondo popolato da Giulio Cesare e Cimbelino, da Otello e Desdemona, da Puck e Oberon? E chi sono, tutti codesti personaggi: creazioni della mente? Che cos’è una creazione della mente: qualche cosa di più o, magari, qualche cosa di meno di un oggetto ch diciamo reale, di una persona in carne ed ossa? Come mai la persona invecchia e muore, mentre il personaggio resta sempre giovane, non muore mai?
E che cos’è quel che sappiamo, o crediamo di sapere, circa la realtà effettiva? Crediamo di sapere che il 12 ottobre del 1492 Colombo giunse in vista dell’America. Lo dicono i libri, lo ripetono tutti. Ma se un giorno, andando a consultare l’enciclopedia, scoprissimo che Colombo ha scoperto l’America il 6 novembre del 1493? O se scoprissimo che non è mai giunto in America, perché le sue caravelle si sono perdute nell’oceano? Oppure, ancora, che un tale di nome Cristoforo Colombo non è mai esistito? Se, sfogliando le pagine dell’enciclopedia, vedessimo che manca il suo nome; e, consultando molti altri libri, scoprissimo che nessuno lo nomina? Che cosa vuol dire esistere? Noi esistiamo? O siamo un pensiero di qualcuno? E di chi? Siamo forse un pensiero di Dio? Mistero…
Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione