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22 Settembre 2015È bene o male che il sentimento della vergogna esista e che si manifesti, tanto nella vita del singolo, quanto al livello delle società, dei popoli, delle culture? Una persona che non possieda il senso della vergogna, così come una società che lo ignori, sono davvero da ammirare e da invidiare, oppure, a ben guardare, da compiangere?
Ma facciamo un passo alla volta, e chiediamoci: che cos’è la vergogna?; solo dopo aver risposto a questa domanda potremo dire se sia una cosa buona, o no. La vergogna, stando al vocabolario Zingarelli, è quel «turbamento e mortificazione che si provano per azioni, pensieri o parole che sono o si ritengono sconvenienti, indecenti, indecorose e simili, e che sono o possono essere causa di disonore o rimprovero»; più in generale, è un «senso di soggezione, timore e simili dovuto specialmente alla timidezza»; solo raramente, la parola può essere adoperata come sinonimo di «modestia e pudore».
La vergogna, insomma — come attestano anche alcuni sogni, particolarmente sgradevoli e imbarazzanti, che a tutti, crediamo, capita talvolta di fare — è la coscienza di trovarsi in una situazione, o in una condizione, di inferiorità e di colpa, unite, anche se non sempre, ad un senso di inadeguatezza bruciante, e alla coscienza della riprovazione altrui, o della possibilità di soggiacere ad essa; infine, è la manifestazione visibile del sentirsi umiliati, direttamente o indirettamente, non solo per ciò che abbiamo fatto, o per ciò che siamo, ma per ciò che avremmo dovuto fare e per ciò che avremmo potuto essere, deludendo, invece, le altrui aspettative o deludendo noi stessi: si può provare vergogna, infatti, anche se nessuno ci vede, nessuno ci osserva e, probabilmente, nessuno verrà mai a sapere quel che abbiamo detto, fatto, pensato. È caratteristico, peraltro, che colui che prova la vergogna, abbia la sensazione che tutti siano a conoscenza del suo fallo, della sua colpa, del suo errore, anche se non è così: quasi che la coscienza, sentendosi in colpa, richiamasse violentemente l’attenzione dell’anima sopra di sé e trasmettesse all’intorno la propria sofferenza e il proprio rimorso, o il disagio, o l’amara delusione di sé.
Ecco: la vergogna non è il pentimento, ma può esserne all’origine; non è il rimorso, ma può esserne la manifestazione, o una delle manifestazioni; non sempre corrisponde a una colpa reale, effettiva, e soprattutto visibile, ma può esserne la spia, può denunciare ciò che la nostra ipocrisia vorrebbe tenere celato: in tutti questi casi, riteniamo che la vergogna sia un sentimento che svolge una funzione utile, oppure che svolge una funzione parzialmente utile, purché non diventi paralizzante, totalizzante, paranoica, assurda, nel qual caso, invece di offrire un punto di partenza per correggere delle cose che non ci piacciono di noi stessi, ci sprofonda in una spirale depressiva senza fine e sena speranza.
Un uomo incapace di provare la vergogna è disumano: il sentimento della vergogna è naturale, perché discende dalla fallibilità umana e dalla consapevolezza che nessuno è perfetto, nessuno è irreprensibile. Allo steso modo, una società, un popolo, una cultura, che abbiano bandito la vergogna, si saranno privati da sé di un utile strumento di riflessione e di eventuale rigenerazione: è come se si distruggessero tutti i termometri per misurare la febbre, ciò non equivarrebbe ad avere eliminato la malattia. La vergogna, inoltre, può essere salutare, perché ci insegna quel che va evitato e ci aiuta a non ripetere determinati errori, a non esporci a certe tentazioni: è un deterrente, che, agitandoci davanti lo spauracchio delle conseguenze, ci preserva dalla possibilità di meritare la disapprovazione, tanto nostra che altrui.
Osservava lo psicologo e psichiatra americano Michael Lewis nel suo saggio «Il Sé a nudo. Alle origini della vergogna» (titolo originale: «Shame. The Exoposed Self»; traduzione dall’inglese di Gabiele Noferi, Milano, Gruppo Editoriale Giunti, 1995, pp. 275-277):
«…La nostra società ha posto sempre più l’accento sulla persona come individuo a sé stante, definito come identità singola e isolata, e le pratiche di socializzazione rafforzano il movimento verso l’individuazione. La nostra esperienza infantile coi genitori è il crogiolo dove di formano le emozioni autocoscienti la fonte da cui scaturiscono i nostri sentimenti crescenti di alienazione e di vergogna.
I problemi legati alla vergogna sono sempre più numerosi: la patologia narcisistica, la violenza contro gli altri (abusi dell’infanzia, microcriminalità diffusa, ecc.) e i casi di personalità multipla son fenomeni che fanno pensare tutti a problemi connessi con la vergogna. Da una cultura all’altra ci sono differenze quantitative qualitative nella vergogna, ma nessuno, in nessuna cultura, ora o in passato, si sottrae a questa esperienza. Culture e individui possono differire nella quantità di vergogna cui sono esposti, e certamente diverse sono le cause che la scatenano e le reazioni che essa provoca, ma la vergogna tutti la conoscono.
L’assenza di vergogna è patologica: non ha senso dire che una particolare cultura non possiede (o non possedeva) la rabbia, la paura o, appunto, la vergogna. Può esserci una lingua che non ha le parole per indicare queste emozioni, ma anche chi parla quella lingua prova quelle emozioni. Anche un eccesso di vergogna è patologico. Possiamo aspettarci che culture dominate da una vergogna eccessiva abbiano particolari problemi. Certo, alcune società appaiono fin troppo aggressive e può darsi che la loro aggressività sia mossa dalla vergogna. Sessant’anni fa, Hitler si aprì la strada alla conquista del potere volgendo a proprio vantaggio il senso di vergogna nazionale che affliggeva la Germania: scaricò sui traditori, ebrei e comunisti le responsabilità della sconfitta della prima guerra mondiale e del crollo del dopoguerra, promettendo di mettere fine all’umiliazione tedesca. Trasformò in aggressione la vergogna del suo paese e scatenò la seconda guerra mondiale.
Gli Stati Uniti sono continuamente in guerra, prima la Germania e il Giappone, poi la Corea, il Vietnam, la lunga guerra fredda con l’ex Unione Sovietica, l’Iran, l’Irak. Secondo alcuni, l”operazione "Desert Storm", la guerra del ’91 nel deserto irakeno, avrebbe dovuto annullare la vergogna per la sconfitta in Vietnam. Noi americani facciamo la guerra anche fra noi, come dimostrano l’alto tasso di omicidi e suicidi, la violenza diffusa, l’abuso dell’infanzia. Pure quando cerchiamo di affrontare costruttivamente un problema e di risolverlo, il nostro modello è la guerra: non a caso si parla di "guerra alla povertà". Può darsi che sia l’alto grado d’individuazione a produrre una dose massiccia di vergogna, che a sua volta si trasforma in aggressività.
Le culture cambiano nel tempo. La nostra è più esposta alla vergogna da quando ci siamo volti ala libertà personale e, al di là di questa, al narcisismo. Il Sé, oggetto e soggetto insieme, è oggi più vulnerabile alla vergogna. E, contemporaneamente, ci siamo sbarazzati di quelle istituzioni religiose che sono capaci di assorbirla, privando così molti di noi di un meccanismo per garantirsi il perdono. Siamo oggi più soli e più concentrati su noi stessi di quanto lo siamo mai stati prima. Avvertiamo in questa condizione un senso di potenza, la libertà di essere ciò che vogliamo. La libertà di riuscire è anche libertà di fallire. E del fallimento la persona deve spesso portare tutto il peso. La vergogna allora ci perseguita come un’ombra,m e noi ne abbiamo paura.»
Niente più vergogna, dunque, e niente più istituzioni capaci di assorbire e metabolizzare il senso di vergogna: tutto questo produce un pericolosissimo corto circuito morale, che ci espone a regredire al livello delle fiere selvagge. D’altra parte, un eccesso di vergogna, una somministrazione eccessiva di senso di colpa, e si ottiene l’effetto opposto: un accumulo di frustrazione e di energie negative che si scateneranno, in cera di rivalsa e di vendetta, alla prima occasione, non appena il coperchio della vergogna stessa sia stato, per una ragione o per l’altra, rimosso. È un male, dunque, che la vergogna scompaia, perché essa è utile; ma è un male anche che la si alimenti a dismisura, senza offrire alla vita interiore la maniera di trasformarla in rinascita spirituale.
La Bibbia ci mostra chiaramente la prima situazione ove l’essere umano ha conosciuto il sentimento della vergogna: quella in cui Adamo ed Eva, dopo aver trasgredito al comandamento di Dio rispetto all’albero del bene e del male, udendo la sua voce, corsero a nascondersi, perché si resero conto di una cosa sinora perfettamente ignorata, cioè il fatto di essere nudi. I nostri progenitori provarono vergogna, dunque, sia per il peccato commesso, sia per le sue conseguenze: la scoperta della nudità, o meglio, la coscienza della perdita dell’innocenza. Finché erano stati innocenti, essi non avevano avuto coscienza di essere nudi; o, per dir meglio, avevano vissuto la propria nudità come un fatto assolutamente naturale. La vergogna, dunque, entrò nei loro cuori come una conseguenza del fallo: l’aver mangiato l’albero del bene e del male tolse loro la beata innocenza e li gettò in una dimensione nuova, nella quale dovevano assumersi la responsabilità di discernere ciò una cosa cattiva, ma lo diventa se si accompagna alla malizia: sentimento pressoché inevitabile dopo la perdita dell’innocenza originaria. E la malizia, a sua volta, non è semplicemente il frutto di una educazione repressiva, come vorrebbero certe pedagogie permissive: è un dato originario, umano, naturale, che si può agevolmente osservare centinaia e migliaia di volte.
Non si dica che il Peccato originale è solo un mito religioso, perché chiunque abbia a che fare con i bambini comprende perfettamente di che cosa stiamo parlando: esiste un momento preciso in cui all’innocenza subentra la malizia; un momento in cui i bambini non vivono più con naturalezza la loro nudità, per cui è bene separare i maschietti dalle femminucce, e in cui anche i genitori devono fare attenzione a non offrire ad essi, esibendo la propria nudità, occasioni di turbamento. La pratica del nudismo, da parte degli adulti, non rende ceto possibile il ripristino dell’innocenza; piuttosto, si potrebbe osservare che, là dove la nudità è universale, l’eccitazione diminuisce o scompare, per una sorta di saturazione psicologica: ma ciò non equivale al ripristino dell’innocenza, è una cosa completamente diversa. L’innocenza, una volta passata, non ritornerà mai più: solamente i santi, o i grandi illuminati — il che è la stessa cosa — possono conservare, o addirittura riconquistare, l’innocenza originaria, dopo averla naturalmente perduta, come accade a tutti gli esseri umani, nel corso dell’infanzia o dell’adolescenza. E si sa bene — se si vuol fare un discorso onesto, senza mitizzare l’infanzia come fece Rousseau e come tuttora fa una certa psicologia buonista e melensa – che certi bambini precoci e certi adolescenti possono essere più maliziosi di un adulto, e possono essere loro stessi occasione di tentazione per lui.
Ci stiamo perciò avvicinando a rispondere alla domanda che ci eravamo posta all’inizio: se sia da invidiare, o da compiangere, una persona priva di vergogna; e se lo sia una intera società. A noi sembra che quella persona, o quella società, siano piuttosto da compiangere che da invidiare: perché la vergogna è un elemento umano, che ci aiuta a restare umani; mentre il fatto di non provarla, o di soffocarla con successo, senza essersi interrogati sulla sua origine, è disumano, e dunque foriero di conseguenze negative. La prima delle quali è la sfrontatezza che, a sua volta, innesca la spirale del vizio: la persona incapace di vergogna diventa sfrontata, e la persona sfrontata si espone inevitabilmente alle seduzioni del vizio; la stessa cosa vale per la società nel suo complesso. Noi abbiamo bisogno che la vergogna ci richiami al senso del giusto, del vero e del bello; anche se dobbiamo guardarci da ogni esagerazione, e, pertanto, dobbiamo concedere alla vergogna lo spazio che le compete, non quello che non le compete. Una vergogna morbosa, continua, sistematica, è la spia di un grave disordine psichico e spirituale: in tal caso, comunque, ciò che va combattuto è il disordine, non la vergogna, che ne è solo l’effetto. Non buttiamo via le medicine solo perché vi sono dei medici inetti, che prescrivono quelle sbagliate: sforziamoci di fare un uso umano, cioè intelligente e responsabile, della nostra aspirazione alla salute.
L’anima umana è assetata di bene: ma il bene vero e duraturo essa non lo troverà nelle cose effimere e transeunti, bensì solamente in Dio. Forse nel mondo moderno ci si vergogna della vergogna, perché non si accetta la propria condizione creaturale e ciascun uomo vorrebbe essere il piccolo dio di se stesso. Ma Dio non ammette contraffazioni e quel che gli uomini sono in grado di produrre, tentando di imitarlo, è alimentare la parte peggiore di se stessi: quella demoniaca. Ben venga la vergogna, allora, se essa ci richiama alla nostra finitezza; e se ci addita la via delle altezze.
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