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Confondiamo il conoscere col vero sapere perché prigionieri dell’illusione scientista

Una delle cose, e forse la più importante, che distingue gli uomini che pensano di sapere qualcosa da coloro i quali sono consapevoli della propria ignoranza pressoché totale circa il mistero del mondo, è il giudizio sulla natura della conoscenza scientifica.

Per gli scientisti, la parola "scienza" riveste una valenza quasi soteriologica: essi sono convinti che la conoscenza scientifica sia un sapere pressoché certo, o, nel peggiore dei casi, altamente probabile; mentre ogni altra forma di conoscenza, per loro, è qualcosa che sta a metà strada fra le pratiche degli stregoni tribali e i sogni inconsistenti dell’oppiomane o del povero allucinato. In altre parole: per i cultori della scienza come sapere certo, la scienza non è una forma di conoscenza, ma la sola forma possibile; tutte le altre — quella del metafisico; quella del poeta; quella del religioso – non sono forme di conoscenza, ma surrogati della vera conoscenza.

Ora, quel che una simile convinzione trascura gravemente, non è tanto il fatto che anche la filosofia, l’arte e la religione sono delle forme di conoscenza con una loro dignità, un loro statuto, una loro coerenza, quanto che tutte le forme della conoscenza umana, compresa quella scientifica, altro non sono che balbettii da neonati in confronto al mistero dell’essere; e che la sola e vera differenza fra esse non è tanto fra quelle che si avvicinano e quelle che non si avvicinano alla verità, ma fra quelle che sanno di esserne comunque lontanissime e quelle che non lo sospettano neppure, gonfie e tronfie del proprio supposto grado di certezza.

La conoscenza scientifica non fa eccezione alla regola della umana illusione di sapere; ma si caratterizza, fra i suoi seguaci — e in misura tanto più rozza e grossolana, quanto meno essi arrivano a sospettare la propria ignoranza -, per l’ingenua (o presuntuosa) convinzione che la scienza possieda, essa sì, ed essa sola, un tale grado di certezza, da potersi ragionevolmente definire come la forma certa e vera, per definizione, dell’umano sapere. Ossia: lo scientista (non già lo scienziato serio, il quale può, e anzi dovrebbe, essere ben più consapevole dei limiti del proprio statuto epistemologico) ritiene che il pensatore, l’artista e il credente non sappiano un bel nulla, o quasi nulla, perché giudica improbabili, soggettivi e indimostrabili i loro contenuti di verità, per non parlare dei loro metodi e procedimenti; mentre ritiene di portare sulle spalle, insieme ai suoi colleghi, tutto l’onore e l’onere del vero conoscere e del vero sapere: circoscritto, forse, ma, in compenso, assolutamente dimostrato e dimostrabile, dunque sicuramente vero e reale.

Le cose, invece, stanno ben altrimenti: e sia le scienze mediche, sia le scienze naturali, sia, infine, le cosiddette scienze esatte, come la matematica e la geometria, sono, in realtà, lontanissime dal possedere effettivamente quel grado di certezza, e quindi di verità, che i loro acritici propagandisti immaginano. La scienza, in effetti, o almeno la nostra scienza, quella occidentale e moderna, così come si è venuta configurando nel corso dei secoli, e come attualmente si presenta, è, in buona sostanza, una scienza descrittiva: sa descrivere bene, e catalogare, alcune categorie di fenomeni; ma non sa affatto spiegare, e nemmeno ci prova, perché e come essi avvengano.

Il medico sa riconoscere le malattie, ma non sa dire perché esse colpiscano alcune persone e risparmino tante altre, stante la presenza di virus e germi nell’organismo di tutti (cfr. il nostro articolo «Credere nel progresso è un atto di fede, non diverso né migliore di qualsiasi altro», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 11/05/2011). L’ornitologo è in grado di seguire, con l’aiuto di determinati strumenti, le grandi migrazioni degli uccelli, e persino predire dove e quando essi giungeranno in una determinata località per nidificare e riprodursi: ma non sa dire che cosa spinga gli uccelli a compiere quei viaggi, né come essi riescano a volare lungo rotte lunghissime, di giorno e di notte, infallibilmente, senza mai perdere l’orientamento, con il sole o con la nebbia (cfr. il nostro articolo: «La teoria delle forze cosmiche può spiegare le migrazioni degli uccelli», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 29/02/2008). Infine il matematico può costruire numerosi modelli geometrici perfettamente coerenti e "possibili", ma non sa dire se essi realmente esistano e che cosa distingua il loro grado di realtà; in altre parole, non sa che cosa sia la geometria, se un semplice gioco della mente, per quanto elegante e raffinato, oppure una descrizione effettiva del mondo fisico nel quale viviamo (cfr. l’articolo: «Che cos’è la geometria?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 21/02/2014).

Ci piace qui riportare le riflessioni dello psichiatra americano M. Scott Peck nel suo libro «Un’infinita voglia di bene» (titolo originale: «Further Along The Road Less Traveled», Simon & Schuster, 1993; traduzione dall’inglese di Laura Sgorbati Buosi, Ed. Frassinelli, 1995, pp. 61-64):

«Quando frequentavo la facoltà di medicina avevo spesso delle domande da porre, ma i miei professori avevano sempre la risposta pronta. Non ho mai sentito un professore di medicina dire: "Non lo so" Non sempre capivo le risposte ma immaginavo che la colpa fosse mia ed era chiaro che — con il piccolo cervello che mi ritrovavo — non sarei mai riuscito a fare una grande scoperta medica. Ma una decina d’anni dopo aver lasciato l’università feci una grossa scoperta medica. Scoprii che sappiamo ben poco della medicina. L’ho scoperto perché invece di chiedere: "Che cosa sappiamo?" ho incominciato a chiedere: "Che cosa non sappiamo?" E non appena ho iniziato a farlo tutte quelle frontiere che pensavo sbarrate si sono aperte. E mi sono reso conto che viviamo in un mondo di frontiere. Lasciate che mi spieghi con un esempio. Una delle malattie meglio individuate è la meningite meningococcica, malattia piuttosto rara ma tuttavia ben nota che colpisce ogni inverno una persona su cinquantamila. Se chiedete a un medico che cosa provochi la meningite meningococcica, questi risponderà: "Il meningococco, naturalmente". A un certo livello ciò è esatto perché se si esegue l’autopsia — nel cinquanta per cento dei casi l’esito è letale, mentre un altro venticinque per cento dei colpiti rimane menomato per sempre — si scoprirà che le membrane che avvolgono il cervello, ovvero le meningi, sono coperte di pus. Se si osserva questo pus al microscopio, si vedrà un’infinità di germi che vi nuotano dentro. Se li si mette in coltura, nel giusto brodo, che cosa si scopre? Sicuramente il meningococco.

A questo punto sorge un problema. Se avessi fatto degli strisci alle faringi agli abitanti della mia cittadina di New Preston, nel Connecticut — o di una cittadina del Nord come Flint nel Michigan — avrei scoperto lo stesso germe in circa l’ottantacinque per cento delle faringi. Tuttavia, né l’inverno scorso né per intere generazioni, nessuno di New Preston ha contratto il meningococco e tanto meno ne è morto, e probabilmente ciò varrà anche per le prossime generazioni. Come e perché questo batterio virtualmente ubiquitario può albergare in modo intermittente in 49.999 persone senza provocare danni e però poi colpire il cervello di una persona spesso giovane che è stata sana fino a quel momento e causare proprio in lei un’infezione fatale? La risposta è: non lo sappiamo. Lo stesso può dirsi virtualmente per ogni malattia descritta nel manuale. Prendiamo una che è sfortunatamente più comune e ben nota: il cancro del polmone. Tutti sappiamo che il fumo provoca il cancro del polmone. Tuttavia ci sono persone che non hanno mai toccato il tabacco e che vengono colpite da quella malattia e muoiono. E ci sono invece altre persone, come mio nonno, che ha fumato un pacchetto al giorno fino a novantadue anni e non si è mai ammalato. Quindi deve esserci dell’altro, oltre il fumo, a causare il cancro del polmone. E di che cosa si tratta? La risposta, ancora una volta, è: in genere non lo sappiamo. […]

Può darsi che abbiate compreso da tempo che i medici non sanno molto. Ma forse altre persone sanno di più riguardo ad altri argomenti, non è vero? Intendo che se la medicina può essere considerata una specie di arte, esistono scienze esatte — prendiamo per esempio la fisica — le cui leggi sono tute rigorosamente definite. Si può dire che sotto molti aspetti la fisica moderna sia nata con Isaac Newton. Quando la mela gli cadde sulla testa, egli non solo scoprì la gravità ma sviluppò anche una formula matematica per descriverla. Così adesso tutti sanno che due corpi si attraggono con una forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza esistente fra loro. Tutto ciò sembra chiaro e indiscutibile. Ma il perché? Perché due corpi si attraggono? Perché dovrebbe esistere questa forza? In che cosa consiste? E la risposta è: non lo sappiamo. La formula matematica di Newton descrive semplicemente il fenomeno, ma non sappiamo perché un fenomeno del genere esista e come operi. In questa grande èra della tecnologia, non sappiamo neppure che cosa tenga i nostri piedi attaccati al suolo. Quindi neppure con le scienze esatte siamo andati molto avanti.

Ma sicuramente QUALCUNO deve sapere qualcosa. Ho parlato della matematica come scienza molto precisa ed esatta. I matematici devono conoscere la verità. Tutti abbiamo imparato a scuola che due rette parallele non si incontrano mai. Ma poi l’ultimo anno di college, mentre passeggiavo in cortile, sentii che qualcuno menzionava la geometria riemanniana e scoprii che Bernhard Riemann era un matematico tedesco che verso la metà del diciannovesimo secolo, si chiese: "Che accade se due parallele si incontrano?" E partendo dal presupposto che due linee parallele si incontrano, e con un paio di alterazioni ai teoremi di Euclide, sviluppò un tipo di geometria del tutto diversa. Ciò potrebbe sembrare niente più che un esercizio intellettuale una forma di gioco, come cercare di immaginare quanti angeli possano danzare sulla capocchia di uno spillo, se non fosse che gran parte del lavoro di Albert Einstein, incluso quello che portò alla costruzione della bomba atomica (passando per la teoria della relatività) — che, come tutti sappiamo, funziona, si basava non sulla geometria di Euclide ma su quella d Riemann. Gli amici matematici mi dicono che il numero delle potenziali geometrie è infinito. Dai tempi di Riemann abbiamo sviluppato altre sei geometrie che funzionano, così adesso abbiamo otto diverse geometrie funzionanti. Qual è quella vera? Non lo sappiamo.»

Non lo sappiamo: questa è la sola e leale conclusione cui dobbiamo inevitabilmente pervenire, se, distogliendo lo sguardo dalla mera descrizione dei fenomeni, spostiamo la nostra attenzione sulla loro essenza, sulla loro intima necessità: a cominciare dalla "necessità" che spinge le cose a esistere, che spinge i viventi a riprodursi, che spinge gli esseri senzienti e razionali a pensare e a interrogarsi sul mistero del tutto.

Perché le cose esistono, invece di non esistere? Perché esiste la vita, dal momento che il passaggio dall’inorganico alla materia organica, dalla chimica alla biologia, non è affatto logico e naturale, ma, al contrario, altamente improbabile, per non dire contrario a tutte le leggi statistiche della materia, nonostante le disinvolte sciocchezze sul "brodo primordiale" che gli evoluzionisti duri e puri cercano di rifilare all’opinione pubblica, sin dai banchi di scuola? E perché, infine, esistono in noi il senso del mistero; il sentimento di un contrasto, e di un potenziale conflitto, fra quel poco che sappiamo e l’immensità di quel che ignoriamo; fra quel che sentiamo e sappiamo di essere e quel che vorremmo essere? Perché in noi albergano l’inquietudine e l’angoscia; perché siamo divorati dalla curiosità e tormentati dal senso della nostra finitezza; e perché siamo soggetti a una inguaribile malinconia esistenziale, a un senso drammatico della fuggevolezza del bene e della gioia, almeno fintanto che restiamo entro un orizzonte puramente immanente?

In verità, e senza voler ridurre il problema ad una semplice questione nominalistica, dovremmo sempre aver chiaro che sapere e conoscere sono due cose distinte, anche se, nel linguaggio ordinario, tendiamo a confonderle. Si possono conoscere tante cose, ma non sapere nulla: perché la conoscenza umana è conoscenza delle forme esteriori, è conoscenza descrittiva; il sapere, invece, l’autentico sapere, è la conoscenza delle essenze. Ora, l’essenza delle cose è un quid che sfugge alla conoscenza descrittiva: non la si può descrivere, perché non è attingibile dall’esterno, come avviene in una relazione fra soggetto e oggetto, ma solo esperibile direttamente, laddove il soggetto sperimenta l’abbandono del proprio io limitato e si unisce con un principio superiore, universale, che i filosofi chiamano l’Essere, e gli spiriti religiosi chiamano Dio.

Dunque, se si confonde la conoscenza con il sapere, si rimane nel regno dell’ignoranza, aggravata dalla presunzione; se ci si rivolge al divino e ci si abbandona ad esso, si sa, o si comincia a sapere…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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