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1 Settembre 2015È stata la cultura del XVIII secolo, a cavallo fra Illuminismo e Romanticismo, a elaborare una "estetica del sublime" così come oggi la conosciamo e come siamo portati a considerarla: cioè come qualcosa di originario e di assoluto, mentre invece anch’essa è, come tutte le creazioni umane, un prodotto storicamente determinato, di cui è possibile seguire l’evoluzione, dalle sue origini fino ai nostri giorni.
Immanuel Kant non si accontentava di un sublime, ma ne catalogò due: il "sublime matematico" e il "sublime dinamico": il primo, originato in noi dalla percezione della infinità dello spazio e del tempo; il secondo, dal sentimento di impotenza e sgomento che proviamo di fronte ai grandiosi fenomeni della natura scatenata.
Per Hegel, il sublime consiste nell’anello di congiunzione tra il finito e l’infinito, e corrisponde quindi ad una forma ben precisa dell’espressione artistica, ossia l’arte simbolica; mentre per Schopenhauer, fierissimo avversario di Hegel, il sublime non è che la manifestazione della forza spaventosa della natura, priva di qualunque valenza etica.
Non vogliamo, qui, fare la storia del concetto di "sublime" nel pensiero e nell’arte; forse dovremmo partire troppo da lontano: per esempio, da quel «Suave mari magno» del II libro del «De rerum natura» di Lucrezio, con la contemplazione dell’estremo pericolo altrui; ma certo, per la cultura moderna, dovremmo prende le mosse dalla «Philosophical enquiry into the origin of our ideas of the sublime and beautiful» di Edmund Burke, che vede le stampe nel 1757. Il concetto, ad ogni modo, raccoglie un consenso quasi universale: si tratta del sentimento di apprensione e di turbamento per qualche forza o paesaggio naturale, che ci fa sentire piccoli e assolutamente indifesi, ma non per un pericolo immediato — nel qual caso la paura prevarrebbe su ogni considerazione estetica -, bensì per una situazione che ci lasci uno spazio, sia pur piccolo, di relativa sicurezza, dal quale contemplare e lasciarci rapire dal fascino dello smisurato, del grandioso.
L’etimologia, del resto, è chiara: "sublime" viene da "sub", sotto, e "limen", soglia: perciò indica quello che sta al limite, presso la soglia. La soglia di che cosa? Dell’infinito, dell’assoluto, ma anche dell’orrido e dello spaventoso. Da quando lo Pseudo Longino scrisse il «Trattato del sublime», nel I secolo dopo Cristo, in molti si sono provati a definire, sviscerare, approfondire il complesso sentimento, o piuttosto il groviglio di sentimenti, che scaturiscono dal trovarsi in presenza di una forza naturale immane, schiacciante, bella a suo modo, ma di una bellezza terribile. Infatti, come osserva Schopenhauer nel suo capolavoro – inizialmente poco apprezzato – «Il mondo come volontà e rappresentazione», il bello ci conquista con la piacevolezza del suo oggetto, che non ci stancheremmo di ammirare e contemplare, mentre il sublime suscita in noi altrettanta ammirazione per la bellezza, mescolata, però, ad una chiara consapevolezza di una forza minacciosa che risiede in quell’oggetto, e che potrebbe rivolgersi contro di noi e perfino annientarci con irrisoria facilità.
Pittori come William Turner e Caspar David Friedrich si sono votati alla missione di esprimere, o, almeno, di suggerire il sentimento del sublime, nelle loro rappresentazioni della natura: ove la nebbia che avvolge le cime dei monti, il mare in burrasca, i lastroni di ghiaccio che stritolano una nave, la voragine che si spalanca quasi sotto i piedi di un personaggio perso in contemplazione, sono altrettanti paesaggi e situazioni che mettono in scena la grandiosa bellezza della natura e, nello stesso tempo, la sua inimmaginabile, sconcertante potenza, rispetto alla quale non siamo altro che minuscole presenza affascinate, irretite e sospese fra il piacere di abbandonarsi e lo sforzo di, se non di capire, quanto meno di interrogarsi su un simile, grandioso mistero.
Nel sublime, infatti, c’è la presenza del mistero; ove il senso del mistero venisse a mancare, come accade in quegli aspetti della cultura e della vita moderna ove non si fa questione che di "problemi", anche l’estetica del sublime, per forza di cose, viene meno. Il mistero, infatti, fa appello a qualcosa che è dentro di noi; il problema è solo un ostacolo esterno, che, prima o poi, si spera e si confida di riuscire a oltrepassare. Questo, naturalmente, vale a che per l’amore: nel mondo moderno, la sublimità dell’amore sembra ridotta a zero, perché l’uomo e la donna non vedono più alcun mistero nel fatto amoroso, ma soltanto un istinto naturale, che può essere spiegato e analizzato — ad esempio, dalla psicanalisi — fin quasi nelle pieghe più nascoste, e che, pertanto, non riserva più delle autentiche sorprese.
Non sono in molti a sapere, comunque, che l’estetica del sublime ha ricevuto un notevole impulso da un avvenimento storico ben preciso: la scoperta, nel contesto della nascente passione dei viaggiatori e degli sportivi per l’alpinismo, di quelle incredibili, fantastiche montagne che in tutto il mondo sono conosciute come Dolomiti. I primi visitatori e arrampicatori che si spinsero fino ai loro piedi e che iniziarono le prime, avventurose scalate — siamo ancora nella prima metà del XIX secolo -, ebbero la sensazione, né più, né meno, di essere giunti al cospetto del regno delle fate. Quelle montagne dalle forme allusive, così simili a degli edifici costruiti dall’uomo, specialmente nella rossa luce del tramonto, o in quella azzurrina dell’alba; quelle montagne che sembravano colossali cattedrali pietrificate da un incantesimo, avevano realmente qualcosa di un altro mondo, così come, del resto, asserivano le poetiche leggende nate fra le popolazioni italiane, tedesche e ladine di quei luoghi, solamente lambiti dal flusso gigantesco della modernizzazione (ché tali dovevano apparire allora, avanti l’esplosione turistica e commerciale).
Ha scritto Cesare Micheletti nel breve saggio «La sublime bellezza dei Monti Pallidi» (in: «Dolomiti, patrimonio mondiale UNESCO», a cura del medesimo, Provincia di Belluno etc., 2010, pp. 14-15):
«Le Dolomiti hanno avuto da sempre un enorme impatto sull’immaginazione di chiunque le abbia viste. L’imponenza di questi giganti di pietra ha ispirato alle popolazioni che le abitano un’epica che affonda le radici nella preistoria, al punto da divenire un riferimento imprescindibile per la loro stessa identità culturale.
Poi, dopo la loro "scoperta" scientifica, i viaggiatori romantici vi riconobbero l’incarnazione ideale di quei paesaggi che i pittori avevano fino allora solo immaginato. Nessuno è potuto rimanere indifferente alla loro indescrivibile fascinazione, tanto che sono considerate universalmente "le più belle montagne della Terra"
Ma perché le Dolomiti sono belle? Qual è il segreto del loro fascino straordinario?
Le Dolomiti sono da considerare un riferimento mondiale per l’estetica del Sublime. Per questa parte della filosofia, elaborata proprio negli anni immediatamente precedenti la "scoperta" di queste montagne, le cime dolomitiche divennero un modello di importanza fondamentale e di conseguenza contribuirono alla definizione del moderno concetto di bellezza naturale.
Le primissime immagini di queste montagne non furono dipinti o ritratti ma descrizioni, parole che raccontavano di visioni straordinarie e di emozioni potenti che invadevano la mente e che occupavano — con una forza quasi ineluttabile — le frasi di apertura delle prime relazioni scientifiche e dei primi resoconti di viaggio. Le parole con cui vennero espressi i caratteri delle Dolomiti corrispondono esattamente alle categorie del Sublime: verticalità, grandiosità, monumentalità. Tormento delle forme, purezza essenziale, intensità di colorazioni, stupore, ascesi mistica, trascendenza.
Il tema del sublime è molto importante: si tratta infatti di una categoria dell’Estetica riferita ala natura. Nei famosi Red Book di John Murray del 1837 (la prima guida di viaggio nelle Dolomiti in lingua inglese), si utilizza proprio l’aggettivo "sublime" per definire il paesaggio dolomitico: "Nell’insieme esse conferiscono al paesaggio un’aria di originalità e di sublime grandiosità che può essere compiutamente apprezzata solo da chi le ha viste. L’originale metodo di analisi paesaggistica, messo a punto appositamente per la candidatura e giudicato innovativo dagli organismi scientifici dell’UNESCO, ha messo in luce che le Dolomiti costituiscono l’archetipo universale di uno specifico paesaggio montano che da queste montagne trae il nome: il "paesaggio dolomitico". I caratteri di questo particolare paesaggio sono molteplici. In primo luogo la topografia estremamente articolata, contraddistinta dalla frequenza di gruppi montuosi isolati e giustapposti in un ambito particolarmente ristretto. In secondo luogo l’insolita varietà di forme che le caratterizzano in verticale (pale, guglie, campanili, pinnacoli, torri, denti) ed in orizzontale (cenge, tetti, cornicioni, spalti, altopiani). Tuttavia le Dolomiti sono note soprattutto per l’eccezionale varietà di colori e lo straordinario contrasto fra le linee morbide delle praterie e l’improvviso sviluppo verticale di possenti cime completamente nude.
Inoltre, la possibilità di stilizzare questi "edifici carbonatici" attraverso figure geometriche riconoscibili ed elementi volumetrici precisi (prismi, parallelepipedi, coni) ha portato ad interpretare queste montagne come strutture artificiali, piuttosto che semplici creazioni naturali.
La visione immaginifica dei primi abitanti le ha fatte assimilare alle vestigia di un mondo immaginario ed epico, proiettando così la regione dolomitica in una dimensione mitica. Più recentemente l’ordine gigante che domina queste "architetture" ed i fantastici rapporti di scala che le regolano hanno spinto gli intellettuali romantici a riconoscervi le rovine di una città abitata da Titani e l’architetto moderno Le Corbusier (1887-1965) a definirle "les plus belles constructions du monde". […]»
Dunque: «Il mondo come volontà e rappresentazione» viene pubblicato nel 1819, a Lipsia (e la prima traduzione italiana, scandalosamente, appare soltanto un secolo dopo: del 1913!); le "guide rosse" dell’editore londinese John Murray (la cui casa è stata fondata nel 1768), parlano delle Dolomiti, i Monti Pallidi, nel 1837, qualificandoli dell’aggettivo di "sublimi": nell’arco fra i due eventi, si colloca la realizzazione di molti dei capolavori di William Turner (1775-1851) e di Caspar David Friedrich (1774-1840).
Le Dolomiti, che, specie nelle prime e nelle ultime ore del giorno, sembrano innalzarsi improvvisamente, e quasi bruscamente, in tutta la loro maestosa verticalità, più come un miraggio di pietra dall’aerea bellezza e dall’arcano fulgore, che come un oggetto del mondo naturale, al punto da lasciare increduli e quasi dubbiosi coloro i quali, per quanto ne abbiano letto o sentito parlare, le vedono per la prima volta, hanno dato un potente contributo alla definizione del concetto del sublime, non tanto fra i filosofi e gli studiosi di estetica, quanto presso il vasto pubblico europeo, che alcuni decenni di esaltazione del sentimento, della fantasia, della natura selvaggia e di un ceto qual misticismo avevano a ciò predisposto, senza che lo immaginasse.
Al cospetto delle Dolomiti, infatti, ci si sente immensamente piccoli; ma, insieme, ci si sente spinti a levare lo sguardo verso le altezze, e ciò non solo per le seducenti possibilità sportive che offrono e per le originali e potenti espressioni artistiche che suggeriscono, dalla poesia al romanzo, dalla pittura al disegno (si pensi a certe opere di Dino Buzzati, che, bellunese di origine e grande cultore del mistero, di Dolomiti se ne intendeva, eccome) e, infine, al cinema; ma anche per quel certo indefinibile, ma preciso richiamo ad una dimensione "altra": per il fatto che esse, pur nella loro sovrumana bellezza, sembrano alludere e rinviare a qualche cosa di ancora più elevato, di ancora più ammaliante.
È stato merito di un giornalista, scrittore e antropologo austriaco, Karl Felix Wolff (1879-1966), se, nei primi decenni del XX secolo, gli sparsi frammenti dei racconti orali del Ladini vennero raccolti a formare un racconto unitario sul Regno dei Fanes, nel quale gli elementi leggendari e fiabeschi si intrecciano con quelli mitologici, in una sorta di grandioso "epos" alpino, che non conosce l’eguale al mondo. E come i discendenti del popolo dei Fanes, dopo la morte della regina Dolasilla, attendono in una grotta il suono delle trombe d’argento che segneranno la rinascita del loro regno, così anche noi, che abbiamo visto e ammirato le Dolomiti, aspettiamo con fede che il prodigio si compia e i formidabili bastioni di roccia prendano vita: perché il sublime è un mistero senza fine…
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