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La bellezza è nelle cose o nello sguardo che la scorge?

Quest’angolo della città un po’ fuori mano, senza vetrine, senza gelaterie, senza banche o agenzie di viaggi, senza alcuna attrattiva turistica o consumistica, è uno di quelli che hanno conservato la poesia del tempo passato. Affacciarsi da uno dei ponticelli di via Martignacco e della parallela via Passons – ce ne sono tre in rapida successione – e guardare la doppia fila di pioppi cipressini che si specchiano nell’acqua del canale Ledra, e che raddoppiano l’effetto visivo della fuga dei tronchi ai lati della strada e delle chiome che si stagliano contro il cielo, è come gettare uno sguardo sul passato. O forse è come gettare uno sguardo su una dimensione fuori del tempo: perché quel colpo d’occhio così suggestivo, quel doppio viale alberato che si drizza verso l’alto e si riflette verso il basso, il verde intenso delle sponde che richiama quello degli alberi, le facciate colorate delle case basse, a uno o due piani, con gli scuri in legno aperti verso l’esterno e i piccoli camini che svettano sulle tegole dei tetti; qualche vecchio cortile che s’intravede dietro un muretto di pietra, e che lo scorrere degli anni ha solo sfiorato con mano leggera: tutto parla il linguaggio di ieri e di sempre. Queste immagini non appartengono a un momento preciso, sono per sempre, almeno finché la modernità non arriverà anche qui nella sua forma più invasiva e muterà completamente il volto del quartiere; e donano a chi le sa cogliere la bellezza d’un luogo che vive di vita propria, sempre uguale come l’acqua che scorre fra gli argini, tanto più commovente in quanto non ha nulla, in apparenza, di ciò che rende un luogo grazioso, romantico o celebrato dai poeti. È un doppio viale di periferia, percorso da una discreta mole di traffico quotidiano, dove le automobili scivolano veloci e i pochi pedoni o i pochi ciclisti non si fermano ad ammirare il panorama, e se qualcuno li invitasse a farlo, probabilmente non troverebbero nulla di piacevole o di caratteristico su cui fermare lo sguardo, e forse penserebbero che li si vuol canzonare. Cosa c’è mai di meritevole d’attenzione, in questa fuga prospettica di pioppi che si perdono in lontananza, tutti uguali, e in questo corso d’acqua nel quale si rispecchiano, se non, forse, i colori caldi dell’autunno con le foglie cadute, o la trasparenza dell’acqua, che in effetti fa pensare a un torrente di montagna, o ad altre epoche, quando le donne lavavano i panni nell’acqua pulita della roggia, praticamente sulle porte delle loro case? Eppure la bellezza c’è; e chi non sa vederla, significa che ha un cuore arido e una sensibilità ridotta; inoltre, che ama poco la propria città, tranne che a parole, perché amare la propria città significa esserne profondamente, incondizionatamente innamorati, e chi è innamorato vede tutto bello l’oggetto del suo sentimento, così come il volto della donna amata resta bello per sempre, anche quando viene l’età delle rughe e dei capelli bianchi.

E allora, ecco la domanda che ci ha sempre tormentato: da dove nasce, la bellezza? È già presente nelle cose belle, nelle cose che ammiriamo e dalle quali ci sentiamo attratti, oppure risiede, per così dire, nell’occhio di colui che la sa cogliere, che la sa vedere, anche là dove altri non vedono proprio nulla di notevole, tanto meno qualcosa di bello? Ce lo siamo sempre domandati: fin da quando, da bambini, abbiamo avuto la prima intuizione che certe cose, bellissime per noi, per altri non rivestivano alcun particolare significato. E già che abbiamo rievocato quello scorcio di via Martignacco che ai nostri occhi ha un po’ il fascino dei navigli milanesi, ecco un altro viale alberato, stavolta senza acqua che scorre, ma dalle chiome ancor più imponenti e dai fusti ancor più poderosi: via Chiusaforte, lunga e dritta come una freccia nel verde, coi suoi maestosi platani, cedri e abeti a scandire la quiete di un luogo poco trafficato, silenzioso, dove si poteva udire lo stormire delle ampie chiome al soffio del vento profumato di primavera. Eravamo un gruppo di amici e stavamo discutendo, in un piccolo giardino privato della vicina via Aonez, su come impiegare le ore di un lungo e sereno pomeriggio estivo, senza più il pensiero molesto della scuola e dei compiti; di solito si facevano furiose corse in bicicletta e spericolate volate, fantasticando d’essere i corridori del Giro d’Italia; ma quel giorno una voce che veniva dal profondo dell’anima ci spinse a proporre, molto semplicemente, una passeggiata sotto le ampie chiome dei platani di via Chiusaforte. La proposta, naturalmente, non ebbe accoglienza favorevole: meglio annoiarsi in quel giardino a far nulla – capitano delle giornate così, perfino ai ragazzini più vivaci e intraprendenti — piuttosto che adattarsi a fare una cosa tanto semplice e prosaica. Noi stessi, mentre la stavamo formulando, coglievamo la stranezza che si annidava in essa: figuriamoci, una noiosa passeggiata senza meta e senza scopo, lungo un viale a poche decine di metri da dove ci trovavamo. Non avremmo avuto né vecchie case o fabbriche abbandonate, forse popolate di misteri, nelle quali penetrare di nascosto, né misteriose uccellagioni da esplorare sulla sommità delle verdi colline circostanti, né capanne da costruire in riva ad un torrente coi rami raccolti nel bosco, le cose che di solito ci appassionavano; solo una passeggiata a piedi, dove né l’occhio né la fantasia potevano trovare alimento ai sogni avventurosi dell’età magica in cui non si è più bambini, ma non si è ancora adulti e perciò il mondo conserva un fascino vago e indistinto, dove tutto, o quasi tutto, può ancora accadere. La nostra proposta era stata lasciata cadere, insieme ad altre più "normali", e non v’insistemmo, senza per questo averne riconosciuto nel nostro intimo l’incongruenza; semplicemente, avevamo compreso che sarebbe stato vano cercar di spiegare cosa ci attirava verso quel luogo, il fascino inesprimibile di quella prospettiva diritta puntata verso le montagne, la doppia fila di alberi maestosi, l’ombra e il silenzio che regnavano sotto le dense chiome che sussurravano carezzate dal vento e dalle quali veniva il richiamo dei passeri, come in un regno sontuoso, cui si accede solo se si è in possesso di una chiave magica. Fu allora che ci colpì l’intuizione che quella chiave magica non tutti la possiedono, non tutti la vedono, non tutti ci credono, anche se vien loro posta sul palmo della mano: perché per vedere la bellezza bisogna averne le chiavi, e ciò richiede una fede incondizionata nel fatto che il suo regno è pronto ad accogliere chiunque sia capace di farsi piccolo e disposto a chinarsi con umiltà sotto il portone, per entrare nel suo meraviglioso giardino segreto. Decidemmo fra noi, pertanto, che quella passeggiata l’avremmo fatta da soli, in un’altra occasione, perché ne sarebbe comunque valsa la pena, anzi da soli l’avremmo goduta ancor più a fondo. Per un momento tuttavia avevamo creduto e sperato di poter condividere quelle sensazioni inesprimibili con i nostri migliori amici, coi quali eravamo soliti condividere tutto il resto, o quasi; ma ci eravamo accorti che quello no, una cosa tanto semplice non era condivisibile con loro, anzi per dir meglio che non era neanche comunicabile. Non avrebbero capito le ragioni di quella preferenza, meno ancora avrebbero scorto in essa l’attrattiva che vi scorgevamo noi: e quella fu la rivelazione che la bellezza non è nelle cose in se stesse, ma piuttosto in colui che le guarda e trova in esse un’intima risonanza con il proprio animo e la propria sensibilità estetica.

Ma cos’è la bellezza? Bello viene dal latino bellus, che è diminutivo di bonus. In origine, dunque, bellezza e bontà di una cosa praticamente coincidono: è bello ciò che è buono ed è buono ciò che è bello. Per dire semplicemente "bello", in un senso meramente estetico, i romani usavamo la parola pulcher, oppure la parola formosus (quest’ultima si è conservata in altre lingue romanze, ad esempio lo spagnolo, dove formoso indica una cosa o una persona, specialmente una donna, di notevole piacevolezza estetica). Ora, se è possibile, entro certi limiti, separare la dimensione della bellezza pura, come se fosse una qualità del tutto indipendente, da una più ampia accezione della bellezza, intesa come ciò che è complessivamente buono (non si dice forse: una bella persona, per indicare una persona profondamente buona?), non è tuttavia possibile sopprimere la sensazione che, per essere davvero appagante, la bellezza deve possedere anche qualcos’altro: deve trasmettere un sentimento totale di bontà/bellezza, un senso di pace e armonia che non si esaurisca nelle proporzioni, nelle forme, nelle tonalità — che si tratti di un paesaggio naturale, o di un quadro, o di un brano musicale, o di un volto umano — ossia in qualcosa di formale e di "tecnico", ma abbracci la totalità di quell’oggetto e ci trasmetta a sua volta un appagamento totale, senza residui. Noi, di fronte a un bel viso, possiamo sì ammirarne le linee e l’armonia, ma restare tuttavia freddi, o addirittura diffidenti, di fronte a una luce non buona presente nello sguardo; oppure, di fronte a una tela, possiamo riconoscere la maestria del pittore nel disporre i vari elementi, le linee, i piani, i colori, i chiaroscuri, eppure trovare tutto ciò artificioso, meccanico, incapace di commuovere o trasmettere alcunché, tranne appunto un’ammirazione puramente tecnica.

Perciò, in effetti, quando ci sgorga dal cuore l’espressione: che bello!, essa non è mai limitata agli aspetti formali, ma investe l’essenza di quella cosa, così come essa investe noi nella nostra totalità: intelligenza, sensibilità, volontà, memoria; significa che siamo stati afferrati, tutti interi, da una forza, da un’emozione che soni più grandi di noi, e che ci trasportano non sappiamo dove, comunque in un altrove, e verso l’alto. Siamo usciti dalla dimensione del quotidiano e siamo entrati, o almeno siamo giunti sulla soglia, della dimensione dell’assoluto. Ecco perché la bellezza piena, totale, non ci sorprende dal lato sensuale: di fronte a un bellissimo nudo, per esempio, non siamo catturati dalle pulsioni dei sensi, ma al contrario siamo proiettati verso una meta ulteriore, che ci aiuta a cogliere la bellezza essenziale di quel corpo, che non è più solamente corpo, non è più qualcosa di puramente materiale, ma è corpo e spirito insieme, e, dei due, è la parte spirituale che abbellisce e dona fascino alla parte corporea, e non viceversa. Perciò un autentico nudo artistico può essere casto quanto una figura interamente velata; viceversa, un nudo realizzato da un arista mediocre, o furbesco, può colpirci, sì, per la bravura anatomica e descrittiva, ma non ci trasporta affatto verso l’alto, semmai verso il basso, nel senso che ci porta verso le profondità delle pulsioni inferiori, verso le passioni disordinate, e ci preclude la bellezza totale, che è sempre diretta dallo spirituale. In un paesaggio, la vera bellezza può scaturire dalla verità delle cose, dalla loro grazia nascosta, dalla loro armonia segreta, e tali elementi si possono cogliere in un cortile abbandonato e invaso dall’erba, in una vecchia fontana ormai disseccata, in un marciapiede di periferia da cui sbucano un ciuffo di verde e un fiore inaspettato; mentre un paesaggio perfettamente curato, come può essere un giardino all’italiana, con gli alberi potati con arte suprema e una scelta meticolosa delle essenze vegetali, delle sculture, delle vasche, dei muretti, può darci sì il senso della perfezione formale, ma non toccare le nostre corde più profonde. E qui torniamo al viale di pioppi costeggiato dal canale, alle vecchie case dalle facciate stanche e dai balconi chiusi, al riflesso degli alberi nell’acqua corrente, il tutto circondato dallo sfrecciare dei mezzi di trasporto e al rumore di un quartiere in movimento. La bellezza non è qualcosa di dato e di formale, ma qualcosa di intimo e di totale, che tocca la sostanza delle cose e ne svela l’intima essenza.

Resta il fatto che la vera bellezza, per sua stessa natura riservata e quasi schiva, sfugge alla maggior parti degli sguardi che la incrociano e che le scivolano sopra senza fermarsi, perché non la riconoscono. Ciò significa che essa è in gran parte un dono che viene concesso ad alcuni, per vie misteriose, e non un bene di consumo offerto in pasto a chiunque. Come per tutte le cose importanti, che toccano la nostra essenza, la bellezza contiene un elemento misterioso, che nessuna definizione rigorosa e nessun ragionamento teorico riescono a spiegare sino in fondo; e del pari misteriose sono, in buona parte, le ragioni che ci spingono verso di essa. Non bisogna tuttavia cadere nella ingenuità di pensare che il mistero possa sostituire l’essenza del bello; il mistero ne è una componente, ma non la assorbe e non la annulla in se stesso. Per esempio, la bellezza della liturgia cattolica — parliamo, ovviamente della liturgia preconciliare, e non di quella semi-protestante e semi-modernista di oggi — allude al mistero della Trascendenza, ma non ne è il surrogato, né la controfigura. Il credente, e specialmente il bambino, attraverso la bellezza di quella liturgia, ad esempio della musica d’organo e del canto gregoriano, si eleva e si avvicina alla sfera del divino, in una maniera di cui non sarebbe capace per via puramente razionale; ma né la liturgia né la musica, né il canto sostituiscono il mistero del divino, che è e resta un mistero; né sostituiscono la ragione, la quale, per la sua via — quella indicata da san Tommaso d’Aquino — può spiegare almeno alcuni tratti essenziali di tale mistero, e predisporre l’anima ad accogliere la parte che la ragione non può chiarire con le sue sole forze. Ecco perché gli argomenti dei progressisti, rendere le sacre funzioni più "vicine" al popolo, ad esempio sostituendo le lingue nazionali al latino, e rivolgendo gli altari verso l’assemblea di fedeli, sono semplicemente risibili. Non è che la famosa vecchietta, di cui si riempiono sempre la bocca, non capisse l’essenza della preghiera per il fatto che veniva recitata in latino; la capiva, eccome, e osiamo dire che la capiva meglio di tanti credenti dei nostri giorni, anche se non aveva studiato il latino e se la conoscenza delle parole rende un testo più chiaro sul piano formale. La bellezza, però – lo abbiamo detto — non è forma, ma sostanza delle cose; e il culto reso a Dio è questo e non altro: verità e bellezza nell’inchinarsi di fronte al Mistero più grande…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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