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Qual è la sorgente della bellezza?

Il bisogno del bello è insito nella natura umana: non è possibile vivere una vita da uomo se si è totalmente privati della bellezza e ridotti a una dimensione puramente utilitaristica. Ma che cos’è esattamente la bellezza, e da dove proviene il senso del bello? Si usa dire: un bel paesaggio, un bel tramonto, una bella persona. Nei primi due casi parrebbe che la bellezza sia nella cosa di cui si parla; nel terzo, si affaccia anche l’intuizione che la bellezza possa essere una qualità dell’anima e che rivesta di sé le cose materiali. In effetti, la discussione se la bellezza sia nella cosa oppure nell’occhio che la contempla rischia di essere fuorviante. È ovvio che essa è nell’occhio, perché se non ci fosse l’occhio, non ci sarebbe qualcuno che possa cogliere il bello; ma è anche ovvio che si trova nelle cose, perché se non vi fosse, nessuno la riconoscerebbe come tale. Sembrerebbe, a questo punto, che si sia giunti a un punto morto, come per l’origine dell’uovo e della gallina; invece la distinzione fra la cosa e l’occhio che la contempla ci aiuta a superare l’apparente impasse. Innanzitutto, una questione di linguaggio: quando esclamiamo: che bello!, intendiamo dire che una certa cosa è bella, ma intendiamo dire anche che il nostro animo esulta riconoscendo un’intima assonanza fra sé e quella cosa; più ancora: che il nostro animo ha vibrato come la corda di uno strumento musicale al tocco di un qualcosa che solo in ultima istanza è la cosa che l’ha fatta vibrare, ma che andrebbe individuato ancora più a monte. Proviamo a riflettere: quando la suonatrice d’arpa pizzica la corda e ne trae una nota, ad esempio il sol, si può anche dire che la sua mano, le sue dita, hanno prodotto il suono; ma naturalmente questo è solo un modo di parlare figurato, perché la mano e le dita hanno obbedito a un ordine che veniva dalla mente, e dunque dalla volontà di quella suonatrice; se poi ella stava eseguendo una musica di Bach, l’espressione più precisa per descrivere l’evento sarebbe questa: il concerto che ci strappa di bocca l’esclamazione: che bello!, ha la sua origine solo materialmente dalle mani e dalle del suonatore, ma effettivamente la sorgente di quella bellezza è nel pensiero creativo di colui che ha concepito e composto quella musica. E lasciamo stare, per adesso e per non complicare ulteriormente il nostro ragionamento, se anche quel pensiero creativo non abbia, per caso, un’origine che va ricercata ancora più a monte della mente del compositore; se questi non si sia limitato a rendere disponibile la propria mente e la propria sensibilità ad un’armonia che viene dall’alto, come la suonatrice d’arpa mette a disposizione dell’esecuzione del concerto la propria mano e le proprie dita. Dunque: dicendo: che bello!, noi riconosciamo che esiste un qualcosa di bello, ma ovviamente riconosciamo anche che in noi esiste il senso del bello, perché senza quest’ultimo nulla ci apparirebbe bello; pertanto, la bellezza proviene dalla doppia azione di un oggetto che stimola il nostro senso del bello, e dal nostro senso del bello che riconosce in quell’oggetto proprio ciò che lo sollecita, il che non avviene, viceversa, in presenza di altri oggetti, i quali lo lasciano più o meno indifferente. Il concetto della bellezza è unitario, ma ciò che nel concreto noi chiamiamo bello è dato dall’unione di due elementi, uno esterno, l’oggetto, e uno interno, il nostro giudizio. Si noti, fra parentesi, che questo vale per ogni forma del conoscere: il freddo, ad esempio, è un concetto che nasce dall’incontro di un elemento esterno, le condizioni climatiche e meteorologiche in quel dato momento e in quel dato luogo, e uno interno, la percezione soggettiva di tali condizioni (chi soffre di CIPA, insensibilità congenita al dolore con anidrosi, non avverte né il caldo, né il freddo, né il dolore). E che si tratti di due elementi diversi lo prova il fatto che non tutti percepiscono come bello un determinato oggetto, anche se pare esistere un consenso di massima su alcuni oggetti, e infatti è su questo consenso che si basa la storia dell’arte, così come la critica letteraria, artistica, musicale, ecc.; se non ci fosse, evidentemente nessuna di queste discipline e attività avrebbe alcuna ragione di esistere, ma ciascun soggetto deciderebbe da sé cosa sia bello e cosa non lo sia.

Ora, mettiamo fra parentesi la questione della critica "ufficiale" e il giudizio estetico dato dai cosiddetti esperti su un determinato oggetto, perché, a ben guardarlo, si tratta sostanzialmente di un fatto culturale, nel quale giocano la pare decisiva il principio di autorità da una parte, e l’abitudine, il conformismo e una certa pigrizia intellettuale, dall’altra. In altre parole, non bisogna confondere il bello con ciò che alcuni sedicenti specialisti definiscono tale, e che le masse accettano di riconoscere non perché lo pensino davvero (e quando mai le masse, propriamente parlando, sono capaci di pensiero?) ma semplicemente per non fare la figura degli stupidi. Se i critici, ad esempio, affermano che una delle massime opere di pittura del Novecento è Guernica, di Pablo Picasso, il pubblico prende atto di tale giudizio e vi si sottomette docilmente, anche se intimamente non ne è affatto persuaso (e ben a ragione): non avendo una specifica competenza estetica, si rimette al giudizio della maggioranza e non si chiede neppure quanto esso sia fondato. Ma a noi, in questa sede, non interessa il bello in quanto considerato in un contesto storico e culturale, ma il bello in se stesso, vale a dire considerato da un punto di vista prettamente filosofico. Vogliamo capire cosa renda bella una certa cosa, da dove scaturisca il giudizio su di essa e quanta parte vi abbia la cosa in se stessa, e quanta invece ne abbia la percezione soggettiva di questo o quell’individuo, nell’atto di porsi di fronte ad essa.

Perché una cosa è bella? I pittori, gli architetti e i musicisti ci spiegheranno che è, in primo luogo, un fatto di proporzioni: che al giudizio umano si presenta come piacevole ciò che rispetta una certa sequenza di proporzioni, sia che si tratti del corpo umano, o di un edificio, come una chiesa o un palazzo, oppure di una partitura musicale. Le proporzioni armoniose del corpo umano, le proporzioni di una navata scandita dalla fuga prospettica delle colonne, le proporzioni di un adagio o di un andante con la sua successione di note e di pause, sono l’elemento centrale che determina la percezione del bello. I chiaroscuri, la tonalità, la sapienza compositiva, il gioco dei pieni e dei vuoti, insomma la maestria dello stile fanno il resto. Nel caso degli oggetti naturali, come il corpo umano o un paesaggio naturale, tale armonia e tale scansione delle proporzioni sono effetto di un dato che si pone immediatamente davanti ai nostri sensi, e la cui origine appare avvolta in un fitto velo di mistero: bisogna forse pensare che la natura possiede un innato senso estetico, e che tutto ciò che fa, la fa con la sapienza e la perfezione del più raffinato artista? Osservando la struttura di una conchiglia, o di una foglia, o di una "semplice" goccia d’acqua, verrebbe da pensarlo; e infatti lo pensa chiunque possiede un animo religioso, o meglio chi ha conservato il proprio animo naturalmente religioso nonostante il lavaggio del cervello incessantemente condotto dalla cultura moderna. Costui non solo si stupisce e si meraviglia davanti a ogni singolo fatto della natura, ma pone un’inferenza pressoché ovvia fra la perfezione e la bellezza degli oggetti naturali e la perfezione e la bellezza di Colui che li ha concepiti fin da prima che iniziassero ad esistere. Anche il bambino si stupisce sommamente, e prova un forte senso di ammirazione davanti alle cose della natura: nella sua maniera istintiva e immediata, anche lui sa cogliere la straordinarietà del quotidiano e avverte che dietro ad essa si cela un grande mistero, o meglio il Mistero in quanto tale, quello da cui derivano tutti gli altri. Ma poi, crescendo e adattandosi alle misere spiegazioni che gli offrono gli adulti, e accettando di mostrarsene persuaso, rinuncia al tesoro della propria intuizione e si lascia irreggimentare nell’esercito delle masse materialiste, dominate dal conformismo e incapaci di porsi in maniera critica di fronte al reale.

D’altra parte, se una cosa ci appare bella perché dotata di certe proporzioni e invece priva di tale attributo se incompleta, come quando un bambino raccoglie sassi colorati e arrotondati sul greto di un fiume, e si rammarica perché uno di essi, particolarmente bello per forma e colori, è stato però spezzato da una forza esterna e quindi ha perso il suo pregio principale, ebbene ciò significa che noi non possiamo dire nulla sulla bellezza in sé, o almeno non possiamo dire nulla sulla base della nostra esperienza, perché la nostra esperienza ci presenta sempre oggetti concreti, i quali presentano o non presentano quelle caratteristiche di armonia, proporzione e stile, tutte qualità che hanno a che fare con il giudizio umano e che non sussistono in se stesse, indipendentemente dall’occhio o dall’orecchio che li percepisce. Noi non possiamo dire se il Sole è bello in se stesso; possiamo solo dire che il suo calore è piacevole alla sensibilità umana, che il suo colore è gradevole alla vista, ecc. Ciò significa che il bello non è una qualità delle cose, ma una forma del giudizio: il solo bello di cui possiamo parlare con piena cognizione di causa, è il bello che si offre ai nostri sensi. Pertanto è ozioso continuare a chiedersi se la bellezza sia nella cosa o se sia in noi stessi: per quel che ne sappiamo, il bello è sempre un giudizio che noi cogliamo nelle cose, e nessuno ha mai potuto dire di una cosa che sia bella, se quella cosa non è stata "catturata" dalla vista, dall’udito, dal tatto, ecc., ossia valutata dal nostro giudizio. Certo che possiamo supporre logicamente l’esistenza del bello immateriale, del bello invisibile, facendo un’analogia con il bello sensibile, e ancora una volta la musica, la meno materiale di tutte le forme del bello, ci aiuta a formulare l’idea di una bellezza che non è legata alle forme, al tempo e allo spazio, ma che sussiste in sé e per sé, al di là della barriera dei nostri sensi limitati e della nostra stessa esistenza, così breve e circoscritta nel tempo. Il bambino, ad esempio, percepisce la sua cara nonna come una donna bellissima; per lui non contano le rughe, né i denti falsi; per lui conta solo quella bellezza che scaturisce dalla bontà e dall’affetto che li lega; e quando la nonna sarà morta e sepolta, la sua bellezza non avrà per questo cessato di esistere, ma sopravvivrà nella memoria del bambino, il quale la "vedrà" sempre come la vedeva un tempo, quand’era viva, e lo cullava sulle ginocchia e gli raccontava le fiabe. Poi, crescendo e divenendo adulto, quel bambino, se sarà riuscito a non farsi lavare il cervello dalla cultura materialista dominante, potrà fare un passo ulteriore e giungere, per analogia, all’inferenza che la bellezza della nonna non sopravvive solo nel ricordo, ma sopravvive proprio in se stessa, essendo sempre stata un qualcosa di spirituale, che della materia si serviva solo come di un’occasione temporanea per manifestarsi nella dimensione del finito, ma dalla quale riceveva ombra più che luce; e dunque qualcosa che, una volta sciolta dalla materia, entra definitivamente nella dimensione dell’Assoluto, della quale era stata come una caparra e nella quale esiste di un’esistenza piena e non più condizionata da fattori estrinseci.

Questo, per quanto riguarda il versante della bellezza considerata come una qualità della cosa. Per quanto riguarda il versante della bellezza come giudizio che noi diamo sulle cose, ci resta da far luce sul fattore che presiede alla formulazione del giudizio, oltre al riscontro delle proporzioni, dell’armonia e dello stile. Che cosa rende possibile il passaggio dalla constatazione della bellezza alla formulazione del giudizio vero e proprio su di essa? Abbiamo accennato che, guardando alla realtà in un certo modo, ossia con lo stupore e la meraviglia di un bambino, tutte le cose appaiono belle, o almeno dotate di un certo grado di bellezza, ed è ciò che sente anche l’artista, ad esempio il pittore che coglie la bellezza in uno squallido cortile di periferia, circondato da tetri e sporchi palazzoni, solo che vi scorga, in un angolo, una pozzanghera nella quale si riflette un raggio di sole come in un minuscolo arcobaleno, oppure un fiore che riesce a sbocciare, miracolosamente, da una fessura tra l’asfalto della strada e il muro di una casa. È solo una questione quantitativa, ossia la percezione di una maggiore o minore presenza delle proporzioni, dell’armonia e dello stile? O c’è anche qualcos’altro? A noi pare che ci sia qualcos’altro, e precisamente l’elemento indispensabile dell’immaginazione. Per noi è bella una cosa che, oltre ad avere in sé determinate caratteristiche, si presta anche ad un ulteriore processo di abbellimento operato dalla nostra mente con la facoltà della immaginazione. Senza scomodare la poetica leopardiana del vago e dell’indefinito, che trova una famosa e magnifica applicazione nella poesia L’infinito (ma anche in parecchie liriche del Pascoli, ad esempio Lavandare) è intuitivo che una cosa appare tanto più affascinante quanto più suggerisce delle qualità che non si mostrano del tutto, ma che, in base a ciò che si mostra, promettono di essere notevoli, ancor maggiori di ciò che si vede. Una donna appare bellissima quando non si mostra del tutto, anzi quando in parte si nasconde, se appena lascia vedere di sé qualche parte, la quale si rivela meravigliosamente dotata di armonia, proporzioni, stile, sia nell’aspetto sia nel contegno, nello sguardo, nella voce, ecc. Ecco allora che l’immaginazione si mette in movimento e suppone che quanto non si vede deve essere altrettanto bello, e probabilmente ancora più bello, di ciò che si vede. Abbiamo così chiarito che l’elemento decisivo per il giudizio sulla bellezza di una cosa risiede nel fascino, e che il fascino è suggerito più da ciò che s’intuisce che da ciò che appare: si pensi al fascino evocativo della parola poetica, fatta più di allusioni che di chiare determinazioni. Fortunati perciò quelli che sono sensibili al fascino delle cose; disgraziati quanti non sanno vederlo.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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