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La condizione dei Romani sotto i Longobardi nella riflessione storica di Arrigo Solmi

Quali fossero, in realtà, le relazioni reciproche fra Italiani e Longobardi, non solo dal punto di vista pratico, ma altresì giuridico, è una "vexata quaestio" che divide da sempre gli storici in due categorie inconciliabili: quelli che parlano di un sia pur lento, ma sostanziale processo di integrazione fra i due popoli, e quelli che sostengono la divisione totale, voluta ed imposta dai conquistatori ai danni dei conquistati.

Ne abbiamo già parlato in un apposito articolo (cfr. «L’Editto di Rotari nella concezione storiografica di Pasquale Villari», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 25/07/2015), per cui non ci torneremo sopra; ci limiteremo, in questa sede, a spendere qualche riflessione sulla posizione di un altro insigne studioso, Arrigo Solmi.

Così si esprimeva, sulla dibattuta questione dei rapporti fra Romani e Longobardi, l’eminente storico e giurista Arrigo Solmi (nato a Finale Emilia nel 1873 e morto a Roma, 1944), prestigioso insegnante di Diritto all’Università di Roma, nella sua notevole opera «Storia del diritto italiano» (Milano, Società Editrice Libraria, 1930, pp. 110-12):

«Prima di tutto è necessario accennare a un grave problema, che da secoli affatica gli storici e che non è senza importanza per la spiegazione genetica delle nuove classi sociali. Quale condizione ebbe la popolazione romana sotto i Longobardi?

Le molte e varie risposte date a questa domanda formano da sole un ampio capitolo nella storia del diritto italiano; giungono a opposte conclusioni, poiché vanno dalla affermazione della piena libertà civile e politica, concessa al popolo vinto nell’ambito degli antichi ordinamenti giudiziari e municipali lasciati in vita dai vincitori (Savigny), alla opinione che vede i Romani ridotti a piena, irriducibile schiavitù (Leo). Tra le dottrine intermedie, sta quella che assegna ai Romani la condizione giuridica, pur duramente inferiore e soggetta, degli aldi (Manzoni, Troya, Hegel, Perile); mentre invece altri suppone che in tale condizione siano stati costretti solo finché durò più aspra la lotta coi Bizantini e finché non si concluse la pace., che separò nettamente kl’Italia longobarda dalla bizantina (a. 610: Hartmann). Vi ha finalmente l’opinione che, affermando la libertà dei Romani, dà a questa libertà carattere strettamente civile, non politico, e, pur riconoscendo ai vinti il diritto di un popolo vinto, li vede tuttavia esclusi dall’esercizio dei diritti politici, in una condizione di inferiorità di fronte ai conquistatori (Schupfer).

Non par dubbio che gli argomenti più gravi stanno a favore di quest’ultima opinione. Giova intanto fissare due punti estremi, che possono servire ad una delimitazione storica sicura. I Longobardi, a differenza di altri popoli germanici, non vennero in Italia come "foederati", bensì come conquistatori; onde nei primi tempi della conquista, tenendo più che altro al bottino , riguardarono i Romani come nemici, che forse furono in parte ridotti a schiavitù, in parte fatti tributari. Tuttavia è certo che i conquistatori formavano una esigua schiera rispetto alla numerosa, se non folta, popolazione romana: sicché non si spiegherebbe come valessero a costringere tutto il popolo dei vinti nella rigida dipendenza non soltanto politica, ma giuridica dell’aldionato. Nell’impeto della conquista e del bottino, i Romani poterono essere considerati e trattati come nemici; ma, nel nuovo ordinamento, che succedete all’interregno, anche la condizione dei vinti, quella delle città conquistate e dei campi assicurati all’invasore, trovò nel nuovo regno una sicura, per quanto inferiore, protezione giuridica; e, se fu esclusa dall’esercizio dei diritti politici, che si vollero riservati ai vincitori, ebbe tuttavia il godimento della libertà civile. Fu dunque condizione politicamente inferiore, ma di piena libertà civile, nel senso che la popolazione romana entrò, a titolo di dipendenza, nella compagine del nuovo Stato, rimanendo in quella classe sociale, in cui giuridicamente si trovava al tempo della incorporazione. Perciò i documenti parlano di una classe numerosa di liberi Romani ("Romani", "cives romani", "liberi"), che hanno una proprietà pienamente riconosciuta e compiono validamente ogni specie di negozio giuridico, senza l’intervento dei vincitori… Così d’altra parte non mancano dati storici che attestano la perpetuazione degli antichi vincoli del colonato, e la continuazione delle classi servili… Questo dimostra che, tranne le straordinarie conseguenze della guerra e della conquista, nulla i Longobardi imputarono riguardo alla condizione personale del popolo vinto.»

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Biswajeet Mohanty from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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