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13 Agosto 2015Che gli intellettuali italiani, in larga maggioranza fascisti — per convinzione o per convenienza — fino al 25 luglio del 1943, si siano scoperti improvvisamente una vocazione democratica e libertaria dopo quella data, e abbiamo poi fatto carriera — chi più, chi meno — all’ombra di una dubbia fama di "resistenti" e di antifascisti, magari della tredicesima ora, è cosa fin troppo nota, perché valga la pena di tornarci sopra ancora una volta.
Questo spiega la cappa, pesantissima, mefitica, di conformismo e di ipocrita "rispettabilità" che ha caratterizzato il dibattito culturale italiano, non solo in ambito strettamente politico e sociale, ma in ogni ambito, comprese la filosofia, la letteratura e la poesia: e tuttavia si tratta, in buona sostanza, di cose assai note, almeno per chi possieda un minimo di onestà intellettuale; e, del resto, di cose che hanno il loro equivalente anche nelle vicende dell’intellighenzia francese, tedesca, spagnola, russa, polacca, ungherese, romena, norvegese, olandese, insomma di quasi tutta l’Europa.
Altrettanto noto è il fatto che il Partito comunista seppe intercettare e riordinare le scompigliate file dell’intellighenzia nostrana e, dopo un corso accelerato di rieducazione "popolare", seppe riportarle in campo, a battaglioni compatti — s’intende, sotto le sue trionfanti bandiere — all’insegna del politicamente corretto, vale a dire dell’antifascismo militante, del progressismo, del pacifismo, del buonismo a senso unico; e che per oltre un quarantennio, fino alla caduta del Muro di Berlino, ebbe buon gioco nell’esercitare un controllo pressoché totale su gran pare delle manifestazioni del pensiero, della cultura, dell’arte, per non parlare dell’ideologia politica.
Anche questo, però, lo si arriva a capire abbastanza facilmente, specie in un Paese — come il nostro – dove la memoria corta è un vizio nazionale, gabellato per virtù, e dove un inveterato cinismo e un bieco opportunismo hanno sempre caratterizzato l’atteggiamento delle classi colte verso il potere, sia esso esterno o interno. Solo così si spiega il fatto – che resterebbe altrimenti stupefacente — di una intellighenzia comunista, o filo-comunista, che è diventata, oggi, praticamente all’unanimità, filo-atlantista, filo-sionista e filo-americana; solo così, anzi, si spiega la conquista del potere da parte degli esponenti di quella trista stagione, laddove nel resto del mondo, i loro omologhi hanno dovuto puramente e semplicemente sparire, per l’impresentabilità dei loro trascorsi.
Quello su cui non si riflette abbastanza è che gli intellettuali vennero arruolati in massa nelle file del Partito comunista italiano, o, quanto meno, nell’armata dei "socii et foederati", non solo in base ad un astratto calcolo di convenienza, da parte loro, e d’una generica pressione, politica e morale, da parte di quello; ma che si consumò, fra i due, una operazione molto più concreta e molto più turpe, che si può e si deve definire "ricatto" nel senso tecnico e specifico della parola. Naturalmente, perché vi sia un ricatto, bisogna che vi sia tanto colui che tenta di attuarlo, quanto colui che decide di subirlo, magari in cambio di non disprezzabili vantaggi: e, nel nostro caso, vi erano entrambi i soggetti e ambedue le condizioni.
Vediamo, dunque, i fatti. Palmiro Togliatti, il Migliore, segretario del Partito comunista italiano, fu ministro di Grazia e Giustizia dal 21 giugno 1945 al 1° luglio del 1946; e, come è noto, ha legato il suo nome alla famosa amnistia che, apparentemente, doveva servire a pacificare gli animi e porre un limite alle epurazioni sommarie, mentre in pratica servì anche, e soprattutto, a togliere dai guai quei partigiani comunisti – che sarebbe più giusto chiamare, semplicemente, assassini – i quali, specialmente negli ultimi giorni di guerra e nelle settimane immediatamente successive, avevano seguitato a farsi "giustizia", eliminando migliaia e migliaia di persone, compresi donne e bambini, sia per ragioni di rapina e di vendetta personale, sia per togliere di mezzo tutti quei soggetti — preti, maestre elementari, giornalisti scomodi – i quali, un domani, avrebbero potuto opporsi alla "seconda fase" della Resistenza: la presa del potere, la distruzione fisica della borghesia e l’instaurazione di un regime sovietico di tipo staliniano.
Ebbene, il ministero di Togliatti fu importante anche per un’altra ragione, ai fini della egemonia comunista nel nostro Paese: nella sua qualità di titolare del dicastero della Giustizia, egli ebbe accesso ai documenti riservati della polizia segreta e a tutti quegli incartamenti che riguardavano la carriera, i finanziamenti, i privilegi, di cui avevano goduto, durante il Ventennio, decine e decine di giornalisti, scrittori, intellettuali d’ogni genere. In altre parole: il Partito comunista, tramite Togliatti e i suoi collaboratori del ministero, ebbe modo di mettere le mani sui fatti più compromettenti riguardanti il passato di tutta quella infinita legione di intellettuali i quali, avendo felicemente effettuato il trasbordo dal Fascismo alla democrazia, o, addirittura, da Salò alla Resistenza, pensavano che i loro scheletri nascosti negli armadi sarebbero rimasti dimenticati, e già s’immaginavano di non dover pagare alcun prezzo supplementare per il loro "brillante" ritorno alla direzione o nelle redazioni dei giornali e della radio, nelle università e nei licei, nelle case editrici e nelle università popolari, dopo la spiacevole ma già dimenticata parentesi in camicia nera.
Togliatti, però, era uno che non dimenticava niente: dimenticare non era nella mentalità comunista. Gli archivi, del resto, gli schedari, a questo servono: a tenere sotto scacco le persone sulle quali è stato aperto un fascicolo. Se qualcuno fa tanto da alzare un po’ troppo la testa, ecco che saltano fuori i dossier compromettenti: tecnica di ieri, di oggi, di sempre. Niente di nuovo sotto il sole. Di nuovo, c’era solo la smania degli intellettuali di rifarsi una verginità democratica in ventiquattro ore, e del Partito comunista di assorbire, direttamente o indirettamente, meglio ancora, di fagocitare l’intera cultura italiana: boccone gigantesco, pasto pantagruelico, che tuttavia fu condotto sostanzialmente a buon fine, complice il disinteresse della Democrazia cristiana per le questioni culturali: a torto convinta, com’essa era, che quello che conta è assicurarsi il potere politico. Calciolo miope, di corto respiro: nel lungo periodo, è la cultura che fa la differenza: una o due generazioni cresciute con il "giusto" grado di indottrinamento, et voilà, il gioco è fatto: il potere cade in grembo, come un frutto maturo, a chi si è auto-legittimato per mezzo dell’intellighenzia.
Lo dice molto bene, e con l’abituale, cristallina chiarezza, Indro Montanelli nella testimonianza resa a Tiziana Abate (da: I. Montanelli, «Soltanto un giornalista», Milano, Rizzoli, 2002, pp. 130-131):
«Che i guai degl’italiani non dipendessero dai regimi politici, l’avevo capito da un pezzo. Erano i regimi politici, caso mai, che s’intonavano ai difetti degli italiani. Così la Liberazione non era ancora completata che la cultura del dopoguerra era già tutta svenduta. E svenduta al Pci. Togliatti sfruttò da maestro le manie epuratrici degli altri partiti, specialmente di quello d’Azione invasato di puritanesimo giacobino, per aggiogare al suo carro coloro che ne erano minacciati. Non li assunse come militanti, ma come "compagni di strada". E ne fu compensato perché costoro si mostrarono molto più zelanti dei militanti: alcuni dei quali, forti del loro passato, sapevano anche dirgli di no.
I metodi dei comunisti erano quelli della scuola delle Frattocchie, che stava a metà strada tra il convento medievale e la caserma prussiana. Per prima cosa, dunque, s’impadronirono degli archivi della polizia segreta, del ministero dell’Interno e del Minculpop. Cominciò così il grande ricatto al quale tutti, o quasi tutti, gl’intellettuali italiani si piegarono perché tutti, o quasi tutti, compromessi col regime: che peraltro, in cambio di titoli e prebende, richiedeva al massimo qualche omaggio formale, e talvolta neppure quello. Togliatti, insomma, invece dell’epurazione fece l’amnistia e coi relitti del fascismo fraudolentemente legittimati ingrassò il suo partito avendo mano libera perché i democristiani, da buoni palancari, della cultura non s’interessarono affatto.
Quanto ai renitenti, adottò due tattiche: o l’accusa di fascismo, oppure il silenzio su tutto ciò che facevano o dicevano. Il caso forse più clamoroso fu l’ostracismo dato a Giovannino Guareschi, il cui "Candido", insieme al "Borghese", costituì una delle pochissime voci controcorrente di quegli anni. Il suo "Don Camillo" è certamente l’opera più significativa dell’immediato dopoguerra. Il pubblico lo comperava a decine di migliaia di copie, lo traducevano perfino in giapponese, ma per la nostra critica letteraria non esisteva. Oltretutto quella storia di odo-amore fra un parroco e un sindaco comunista precorreva i tempi. Dentro c’era già il compromesso storico, un fatto politico che allora non si sarebbe potuto neppure immaginare, ma che Guareschi con il suo intuito aveva prefigurato.
Sotto la mannaia del silenzio caddero anche le mie corrispondenze da Norimberga., che non vennero pubblicate perché giudicate, in quel momento, "inopportune". Norimberga mi sembrò da subito un madornale errore. Non perché gli imputati non meritassero un processo: molti di loro erano dei criminali. Ma solo un tribunale tedesco avrebbe obbligato i tedeschi a un esame di coscienza collettivo dal quale, invece, il tribunale alleato li esentò. L’avvocato Schlabrendorff, che difendeva i nazisti, mi disse: "I tedeschi non saranno mai abbastanza grati agli Alleati del favore che gli fanno esonerandoli dal rovistare nei propri misfatti."Avversata nell’Italia attraversata dai furori antifascisti, anche in Germania la mia constatazione, e cioè che quella del vincitore sul vinto non è mai vera giustizia, ma quasi sempre vendetta, non trovò sottoscrittori.»
Un patto sporco, quindi, un patto scellerato: da una parte, il bagno di verginità e di legittimazione democratica per tutti quegli intellettuali, grandi e piccoli, che, per un ventennio, avevano adulato il Fascismo, o, in ogni caso, ne avevano ricevuto vantaggi di carriera e di stipendio; dall’altro, un Partito comunista brutalmente calcolatore, che aveva bisogno di presentarsi come l’unica forza viva capace di restituire pace e benessere al Paese straziato e sconfitto, e questo mentre ancora Togliatti e i suoi prendevano lezioni da Stalin, in tutto e per tutto (come non ricordare Giorgio Napolitano che, ancora nel 1956, plaude alla sanguinosa repressione attuata dai carri armati sovietici a Budapest, beninteso per "riportare la pace" in Ungheria?): operazione altamente spericolata, addirittura acrobatica, ma insomma non impossibile in una nazione abituata a lasciarsi convincere non da chi dice le cose come stanno realmente, ma da chi dice le cose che piacciono ai più, condite però con una sufficiente dose di retorica avvocatesca e di florilegio letterario.
Montanelli cita il caso di Guareschi come eccezione che conferma la regola; si potrebbero fare, ovviamente, anche altri nomi, ma la sostanza della sua analisi resta inconfutabile: o la denigrazione sistematica, o il silenzio. E questo, si badi, per quegli intellettuali che — nella stragrande maggioranza — facevano la fila per ottenere il tanto sospirato colpo di spugna sui loro imbarazzanti trascorsi in orbace; mentre restavano tagliati fuori, senza pietà, quei pochi che non si piegarono al ricatto e che si rifiutarono di sputare sul cadavere di Mussolini. Anche gli Alleati, del resto (i "liberatori"!) vollero avere voce in capitolo: e giornalisti come Mario Appelius (che aveva ripetuto alla radio: «Dio stramaledica gli Inglesi!») e come Concetto Pettinato ne ebbero, praticamente, la carriera stroncata — benché fossero ottimi giornalisti e bravi scrittori, l’uno e l’altro (cfr. i nostri precedenti articoli: «Una pagina al giorno: l’ultima vergine, di Mario Appelius», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 21/03/2008; «Una pagina al giorno: i giorni di Lublino nel 1914, di Concetto Pettinato», sempre sul sito di Arianna, in data 19/12/2008; «Una pagina al giorno: Sono buoni gli Inglesi?, di Concetto Pettinato», in data 21/12/2008).
La cappa di conformismo staliniano, pardon, democratico e antifascista, era così opprimente, che non solo scrittori che si erano apertamente compromessi col regime, e che non volevano rinnegare il loro passato fascista, ma anche scrittori di alta caratura, che erano sempre stato fascisti critici, o fascisti solo in parte, e che, dopo il 1945, avevano di meglio da fare che sognare un impossibile ritorno al passato, ma nemmeno volevano piegarsi al ricatto comunista — pensiamo a un Longanesi, a un Papini, a un Prezzolini — faticarono non poco a conservare qualche sia pur ristretto margine di manovra: tutto intorno a loro era stato fatto il vuoto. Il vuoto venne fatto anche intorno a Julius Evola; Giovanni Gentile era stato assassinato; quanto agli scrittori di area cattolica — Bonaventura Tecchi, Nicola Lisi, Domenico Giuliotti — se poterono ancora scrivere e pubblicare liberamente qualcosa, fu perché sussisteva, bene o male, un minimo di editoria cattolica, non soggetta ai diktat delle Botteghe Oscure (mentre oggi non c’è più nemmeno quella). I liberali, poi, da Croce a De Ruggero, erano tollerati, perché potevano esibire sufficienti credenziali antifasciste e resistenziali…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash