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La filosofia di Donald Crowhurst è quella di un pazzo?

Chissà se c’è ancora qualcuno che si ricorda di Donald Crowhurst e della sua folle, disperata, patetica impresa di velista oceanico, autore di una colossale, ma ingenua mistificazione sportiva, della quale egli stesso fu la prima e principale vittima.

Inglese trentaseienne, classe 1932, di origini modeste, imprenditore fallito e sull’orlo del disastro, con una famiglia composta da una moglie e quattro bambini da mantenere, pur essendo un velista dilettante on pochissima esperienza di navigazione, e nessuna esperienza in regate d’altura vere e proprie, nel 1966 decise di iscriversi alla prima edizione Golden Globe Race, nata sulla scia delle imprese nautiche di Sir Francis Chichester, ossia la circumnavigazione in solitario della Terra, senza scalo e doppiando i tre capi dell’emisfero australe: Horn in Sud America, Leeuwin in Australia, Buona Speranza (in realtà, Agulhas) in Africa, competizione alla quale si erano iscritti navigatori di grandissima esperienza, come Bernard Moitessier e Robin Knox-Johnston. A spingerlo, due motivazioni principali, e non si saprebbe dire quale prevalesse sull’altra: il disperato bisogno di denaro per rimettere in sesto i suoi affari, e una bruciante ambizione di celebrità, che lo accompagnava sin dagli anni della giovinezza.

Crowhurst, infatti, perito elettronico, era il classico uomo "normale" divorato da aspettative più grandi di lui: possedeva una granitica fiducia in se stesso e una stupefacente capacità di persuadere gli altri circa il proprio valore: solo così si spiega come, oberato di debiti, sia nonostante tutto riuscito a ottenere dei finanziamenti da privati per acquistare, armare e attrezzare la sua barca, un trimarano denominato «Teingmouth Electron». Aveva sempre pensato che lo attendesse un futuro brillante, fuori del comune, nel quale sarebbe riuscito a rivelare le sue doti nascoste, che supponeva eccezionali; aveva, fra l’altro, sfornato una quantità di strane e discutibili invenzioni nel campo dell’elettronica, quindi aveva messo in piedi una piccola ditta, la «Electron Utilisation», che, però, dopo un periodo iniziale abbastanza buono, era finita nelle secche dei debiti e degli affari sempre più magri. Avvicinandosi alla quarantina, Crowhurst sentiva sfuggirgli di mano quel che riteneva spettargli: la dimostrazione al mondo intero di quel che valeva, anche se egli stesso non sapeva ancora bene in che cosa sarebbe consistita. L’unica cosa che sapeva era di aver diritto a una porzione di celebrità, perché credeva strenuamente in se stesso, e anche perché ne aveva bisogno dal punto di vista economico.

Così, quando seppe della regata intorno al mondo, sentì che quella era l’occasione giusta, si iscrisse e partì dall’Inghilterra, giusto all’ultimo minuto, il 1° ottobre, a causa di una serie di ritardi e contrattempi nella preparazione della barca, dovuti anche alla sua imperizia e, ciononostante, alla sua pretesa di immischiarsi in ogni singolo aspetto di essa, salvo poi dimenticarsi alcune delle cose più essenziali. Sta di fatto, che al momento della partenza, nella confusione e nella fretta aveva dimenticato alcuni materiali importanti e, quel che è peggio, il suo impianto elettrico lasciava alquanto a desiderare, al punto che per tutto il tempo della regata ebbe serie difficoltà a comunicare con la base. A un certo punto, peraltro, queste difficoltà si volsero, in un certo senso, a suo favore: fu quando decise di imbastire la sua mistificazione.

Fin dall’inizio della navigazione, infatti, si rese conto che non sarebbe mai riuscito a tenere il ritmo che aveva immaginato: nelle sue fantasticherie precedenti la partenza, si era immaginato di poter filare a una velocità molto superiore a quella degli altri concorrenti. Giunto a metà dell’Atlantico, realizzò che la partita era persa: che non sarebbe riuscito ad aggiudicarsi né il primo posto, né il secondo: in breve, che sarebbe andato incontro a una inevitabile sconfitta, all’umiliazione a alla prospettiva di ritrovarsi davanti, appena sbarcato, le stesse difficoltà economiche dalle quali era fuggito, anzi, ancora più gravi, dato che circa un anno sarebbe andato perso nella navigazione in solitario: già aveva penato moltissimo per assicurare di che vivere alla sua famiglia, durante la sua assenza. La radio, intanto, lo metteva al corrente dei progressi degli altri navigatori, sicché non gli restava alcuna speranza di poter riguadagnare il tempo perduto nelle prime settimane di navigazione; e, come se non bastasse, la barca registrava seri inconvenienti, teneva male il male ed imbarcava acqua.

Decise così, dapprima quasi esitando, poi con decisione sempre maggiore, di "inventarsi", per sé e per il mondo, una crociera tutta sua: di falsificare il giornale di bordo e di mandare segnali radio sempre più confusi e laconici, lasciando immaginare di essere molto più avanti di quel che era; per esempio, di avere già doppiato il Capo Horn (la fase più delicata e rischiosa dell’intero viaggio) quando era ancora a Nord delle Falkland. Mano a mano che le sue bugie si accumulavano, egli era costretto a studiare in maniera sempre più dettagliata il modo di renderle credibili, e, in questo, dispiegò realmente una abilità quasi geniale: qualcuno ha osservato che i suoi finti calcoli astronomici erano molto più complicati di quelli che avrebbe dovuto fare, se fossero stati veri. Intanto teneva aggiornato anche un giornale di bordo veritiero: si stava così sdoppiando in due personalità distinte: una che raccontava invenzioni sempre più mirabolanti, sostenendo di aver percorso quasi 250 miglia in un solo giorno, e una che annotava realisticamente l’andamento del suo viaggio. Inoltre cominciò a mettere per iscritto le sue riflessioni, diciamo così, filosofiche: parlava, ma in maniera sempre più sconnessa, letteralmente di tutto, di Dio, dell’universo, della rivelazione del destino, dell’ordine cosmico: un diario che possediamo, perché è stato ritrovato a bordo della sua barca, e che testimonia il progressivo aggravarsi della sua dissociazione mentale, del suo estraniamento dal mondo reale e del suo delirio misticheggiante.

Vale la pena, crediamo, di rileggere alcuni passaggi del quaderno in cui Donald Crowhurst annotava le sue riflessioni, nella fase finale della sua impossibile regata (in: Nicholas Tomalin e Ron Hall, «Lo strano viaggio di Donald Crowhurst»; titolo originale: «The Strange Voyage of Donald Crowhurst», Time Newspapers Ltd, 1970; traduzione dall’inglese di Renato Prinzhofer, Milano, Mursia, 1971, pp. 250-285 passim):

«L’uomo è una leva, della quale in definitiva spetta a lui medesimo determinare la lunghezza e la forza del braccio. Saranno la sua indole e il suo talento a decidere dove debba stare il fulcro. Il matematico puro porrà il fulcro in prossimità del punto in cui viene esercitata la potenza; essendo le sue attività più mentali che fisiche possono sollevare la "resistenza", cioè le sue idee, poiché non porteranno con sé quel cammino che la sua stessa mente e forse alcune menti affini. La sconvolgente rivelazione che E = mc² è un esempio supremo di simile attività. […] Einstein — un ebreo — il volto di Dio, o di Cristo — il Messia? Il Re che reca la Salvezza agli ebrei? Energia nucleare! Il mistero della Profezia! Il passo della mente. Le fasi di sviluppo dell’uomo, come lo sviluppo dell’istruzione dell’uomo: elementare, secondaria, superiore. Nessuna reale classificazione possibile finché non raggiunto lo stadio superiore — alla mente stallata [termine dell’aviazione: che ha raggiunto il limite delle possibilità], lo stadio presente sembrerà sempre superiore. Alla mente libera, lo stadio presente sembrerà sempre elementare. […] Mi sembra che il progresso sia la moneta di maggior valore per l’umanità… Progresso verso che cosa? Ma verso l’integrazione cosmica, naturalmente! In quale altra direzione credete mai che stiamo andando? […] L’Anticristo? "Ama il prossimo tuo come te stesso" in un’epoca in cui l’esistenza fisica è appesa a un filo sottile. "Ama le idee del tuo prossimo come le tue ci guiderà attraverso la galleria. […] L’arrivo di ogni parassita provoca un’accelerazione nel ritmo del Dramma, provocando differenziali di primo grado nel suo stesso periodo di vita all’interno dell’ospite, e differenziali di secondo grado all’interno dell’ospite dentro l’ospite ecc. ecc. Fin qui abbiamo un vuoto, che ospita un universo fisico, che ospita un universo intelligente. Dov’è destinato ad andare il sistema? Al punto in cui provocherà un cambiamento fondamentale al ritmo degli avvenimenti dentro l’ospite. […] Quando comprendiamo un sistema normalmente stabile in modo tale da poterlo alterare in modo innaturale dobbiamo stare attentissimi a ciò che decidiamo di fare. Dobbiamo pensare bene a lungo al sistema prima di fare qualsiasi cosa, e quando decidiamo di agire dobbiamo stare attenti a non precipitare gli eventi. Come le reazioni a catena nucleari, nel sistema della materia, così l’intero nostro sistema di astrazione creativa può venire portato al punto di "decollo"… Nello scrivere tali parole do il segnale d’inizio del processo…[…] Esistono così nell’intelletto umano delle possibilità assopite che possono provocare tutto ciò. Se ne ha una prova nella profezia e nella chiaroveggenza. […] Perché mi sento stranamente in pace nel guardare il tramonto, in mezzo all’Atlantico? Perché sono chiaramente consapevole del fatto di stare osservando la pace e la bellezza dell’ambiente che è stato la culla della forma di vita che reca in sé la mia intelligenza. Vincolata al tempo newtoniano, la mia "anima" ha il presentimento della liberazione futura da questa bella culla, e io provo nostalgia come il bambino che avverte di essere in procinto di andarsene da "casa" per sempre. […] La libera volontà – gli obblighi nei confronti della morale, ogni uomo fornisce degli impulsi al sistema e deve pensare bene alla loro natura — questo è l’unico obbligo morale che l’individuo ha nei confronti del sistema. Rifletto a questa affermazione con una certa trepidazione, pensando alle conclusioni che traggo così rapidamente dal sistema, ma tranquillo in merito all’esito perché l’impulso è nella forma voluta: il pensiero. Se o squalo che si strusciava nel fondo della barca mi avesse potuto acchiappare, oggi, non avrebbe alcuna importanza. La soluzione non sparirebbe, se si trovasse la barca. Mi "dispiacerebbe" se la barca e il libro andassero in fumo, perché in tal caso andrebbe perduto il "mio" impulso.[…] Se stipulo, di mio libero arbitrio, che, imparando a manipolare il "continuum" spazio-tempo, l’Uomo diventerà Dio e sparirà dall’universo fisico quale noi lo conosciamo, io fornisco al sistema un impulso. Se la mia soluzione ha fondamento nei requisiti matematici di una soluzione, è esatta e immediatamente accettabile a un numero crescente di uomini, e allora sono vicinissimo a Dio e dovrei, con i metodi che dichiaro disponibili, giungere infine alla profezia. Proviamo! Il libro arbitrio, mistero teologico centrale, si riduce a questo quesito di una semplicità infantile. Accetterà l’uomo, con atto di libero arbitrio, di stipulare che quando avrà imparato a manipolare il "continuum" spazio-tempo egli possederà gli attributi di Dio? La scelta consiste semplicemente in questo. Vogliamo continuare aggrappandoci all’idea che "Dio ci ha creati", o renderci conto che rientra nei poteri del nostro libero arbitrio di creare Dio? […] Siamo ancora scimmie e ci occorrono i corpi delle scimmie come veicoli della nostra intelligenza e come mezzo per dare una realtà meccanica alle nostre idee. Se si uccide la scimmia il computer si arresta. Ci dispiace moltissimo che i nostri computer si arrestino, perché avvertiamo che, quando si arresta il computer, in qualche modo di arrestiamo anche noi come individui. Questo probabilmente è vero, ahimè non rivedrò mio padre morto a meno di, poiché non vedo in qual modo il sistema tragga beneficio dal conservare un computer incapace di azione in seno al sistema, quando il sistema prevede un rifornimento sempre pronto di nuovi computer capaci di agire in seno al sistema stesso. […] È bene andare in chiesa,. Non c’è niente di male nell’andare dal vostro sacerdote una volta alla settimana, e dirgli: "Avanti, Padre", e giocare la partita del rituale cattolico romano. È un gioco di divertimento. Come tutti i buoni giochi, , è un gioco di significati. Il suo significato è appunto un gioco chiamato "Trovare la Verità". […] Il segreto vergognoso di Dio. Il trucco che ha usato sapendo che la verità avrebbe fatto troppo male. Sapendolo prima, lo strumento ottimo e lucente non sarebbe quel che è oggi. […] L’uomo è costretto a certe conclusioni in virtù dei suoi errori. Nessuna macchina può lavorare senza errore! L’unico guaio dell’uomo è che prende la vita troppo sul serio!" […] Abbandonerò questa partita solo se converrai che la prossima volta in cui questa partita sarà giocata sarà giocata secondo le regole immaginate dal mio grande dio che ha rivelato infine a suo figlio non solo l’esatta natura del motivo delle partite ma anche ha rivelato la verità su come è la conclusione della prossima partita che / è tutto finito / è tutto finito è la Grazia. […] È la fine della mia / mia partita la verità si è rivelata e sarà fatto come la mia famiglia mi comanda di fare. è venuto il tempo in cui la tua mossa deve cominciare. Non occorre che io prolunghi la partita. È stata una buona partita che deve aver termine al / io giocherò questa partita quando mi pare. Abbandonerò la partita / Non c’è motivo per l’atroce…»

La vicenda di Donald Crowhurst – drammatica, toccante, ma con una componente di assurdità e millanteria che la svuota di autentica serietà – è indicatrice di quel che può accadere quando l’ambizione e la smania di celebrità si insinuano nell’anima umana e fermentano nella vana attesa dell’evento rivelatore e liberatorio. L’ambizione si avvita sui se stessa, la smania di celebrità scende a compromessi, a raggiri, ad autentici imbrogli: l’obiettivo verrà comunque centrato, perché la gente parlerà di un soggetto del genere e della sua impresa, e a lungo, anche se non precisamente nei termini che egli aveva sperato.

C’è infatti una forte dose di impazienza, di esaltazione, di cieca imprudenza nel carattere di Crowhurst: fin dall’inizio, fin da quando decise di iscriversi a una competizione velica che avrebbe richiesto ben altre competenze che le sue, e un grado ben più grande di esperienza nautica, si rivela la sua natura irrealistica, narcisista, stravagante: una miscela esplosiva che, a contatto con la dura realtà della vita, non può che deflagrare.

Si illuse davvero, Donald Crowhurst, che avrebbe potuto farla franca? Che avrebbe potuto ingannare la giuria, composta da persone altamente qualificate? Sappiamo che Chichester mangiò la foglia quasi fin dal principio, e mise in guardia gli organizzatori: troppo strane quelle brevi e confuse comunicazioni radio, troppo alta la media della velocità tenuta dal "Teingmouth Electron", troppo sospetta la mancanza di riferimenti precisi ai venti, alle correnti, ai capi doppiati, a cominciare dall’Horn: non c’è navigatore che non spenda qualche parola per celebrare l’avvento avvistamento di una località tanto famosa e temuta nel mondo ella marineria, quasi il simbolo del’avventura. Ma Crowhurst, niente: non si riusciva nemmeno a capire quando avesse doppiato l’estremità meridionale del continente americano, né in quali condizioni del mare e del vento. 

In effetti, egli non aveva doppiato nessuno dei tre capi prescritti dal regolamento, per il semplice fatto che non era mai usciti dall’Oceano Atlantico: il Pacifico e l’Indiano aveva solo fatto finta di traversarli. Quando gli altri concorrenti stavano ormai rientrando in Inghilterra (Moitessier, che pure era stato in testa, si era di fatto ritirato, proseguendo per suo conto la circumnavigazione), egli si rese conto che doveva fare qualcosa, perché si avvicinava inesorabilmente il "redde rationem". Allora risalì dall’Atlantico meridionale, questa volta sì ad una media eccezionale (quasi una beffa del destino), tanto che dovette virare ad ovest, verso l’America, per perdere tempo, altrimenti sarebbe giunto troppo presto rispetto agli altri, che il giro del globo lo avevano fatto per davvero. E tuttavia, era chiaro che i libri di bordo sarebbero stati controllati al momento dell’arrivo, e l’inganno sarebbe venuto in luce. Questo pensiero gli divenne intollerabile: e, a partire da quel momento, cominciò a corteggiare il pensiero della morte.

è questa la fase più confusa e drammatica delle sue riflessioni filosofiche, affidate alle pagine di un quaderno. Crowhurst, probabilmente, era assillato da un divorante senso di colpa, anche se non ne parla mai in modo esplicito, perché quelle che scrisse non erano note o sfoghi di carattere personale, ma proprio riflessioni di tipo filosofico, echi di una nebulosa esperienza mistica. Provava vergogna per il proprio fallimento, lo angosciava il pensiero della figuraccia che avrebbe fatto davanti al mondo, davanti a sua moglie e ai suoi figli? Il mondo intero, in quei giorni, faceva il tifo per lui. Poco o nulla era trapelato dei sospetti di Sir Francis Chichester e di qualche altro: la stampa parlava di lui come di un portento, di un eroe del nostro tempo rivelatosi all’improvviso. E lui lo sapeva. Lui, che aveva sempre creduto in se stesso, anche troppo, adesso doveva meditare su quel che sarebbe accaduto di lì a qualche settimana, quando avesse toccato di nuovo il suolo della patria.

Non c’è niente di peggio che sopravvalutare se stessi oltre un certo limite, anche nell’età adulta; di credersi destinati a grandi cose, quando non si possiedono doti superiori al normale, e, per giunta, quando si manca completamente di realismo, di senso della realtà. La non conoscenza di se stessi porta a disastri, quando ci si prefigge di raggiungere mete che sono molto al di sopra delle proprie possibilità. Questo era il caso di Donald Crowhurst: un piccolo uomo ambizioso e stranito, deciso ad emergere sulla massa, senza sapere lui stesso in virtù di che cosa. Eppure – strano che quasi nessuno di coloro che si sono occupati questa vicenda – Donald Crowhurst, dopo tutto, ha compiuto realmente una impresa eccezionale: anzi, doppiamente eccezionale. È stupefacente che un velista dilettante come lui sia stato capace di scendere lungo tutta l’estensione dell’Atlantico, dall’Inghilterra alle Falkland, solo e senza aiuti, con una barca mal costruita, senza poter contare su nessun tipo di assistenza tecnica (toccò terra una sola volta, in una località deserta dell’Argentina, e fu aiutato dalla Guardia costiera a liberare il trimarano che si era arenato sulla spiaggia, senza essere riconosciuto); ed è stupefacente che abbia sopportato nove mesi di perfetta solitudine, lui che mai aveva affrontato prima una esperienza del genere. Se non si fosse posto un obiettivo troppo al di sopra dei suoi mezzi, quella navigazione sarebbe stata comunque una impresa degna di tutto rispetto: in un altro contesto, sarebbe apparso un grand’uomo. Anche la sua abilità nell’inventare una rotta immaginaria, nel descriverla (sia pure in maniera lacunosa), nello spargere indizi della sua presenza là dove non era stato, ha del prodigioso: di fatto, dispiegò il triplo di energia e d’intelligenza per falsificare le carte di bordo e i pochi messaggi radio, che se avesse riferito esattamente come stavano le cose.

Ma intanto i giorni passavano e la fine si avvicinava. I suoi appunti si facevano sempre più sconclusionati, quasi deliranti: sembrano copiati da un romanzo del mistero o dell’orrore marinaresco, ricordano un po’ le pagine finali del "Gordon Pym" di Poe. Il 1° luglio scrisse l’ultima pagina (due giorni prima aveva interrotto il collegamento radio): si gettò in mare, quasi certamente, alle 11,20 del mattino, al largo delle Bermude. Il suo trimarano venne trovato, mentre andava alla deriva, da una nave di passaggio, che trovò una parte dei documenti di bordo, ma nessuno a bordo, e nemmeno il cronometro. La notizia giunse subito in Inghilterra e nel resto del mondo. Dall’esame delle carte, inevitabilmente, la frode apparve chiara: ne fu data notizia solo alla fine di luglio, quasi un mese dopo. Ma l’opinione pubblica fu misericordiosa, una volta tanto. Nessuno infierì sulla sua vicenda; e il vincitore, Robin Knox-Johnston (fra parentesi, l’unico che riuscì a completare la gara, mentre tutti gli altri si erano ritirati, nonché  il primo uomo ad aver circumnavigato il mondo in solitario e senza scalo) volle devolvere alla vedova di Crowhurst le 5.000 sterline del premio. E ce n’era davvero bisogno, perché il marito, prima di partire, era stato costretto a ipotecare la sua stessa casa, oltre alla barca con cui si accingeva a salpare per la competizione.

Che insegnamento ricavare da una vicenda come quella di Donald Crowhurst? Forse aveva ragione Moitessier, il grande navigatore francese, che, all’opposto di Chichester, detestava il fatto della competizione in sé: per lui, la gioia del mare era premio a se stessa; infatti, virò di bordo e fece un altro mezzo giro del globo, quando era in posizione favorevole per aspirare alla vittoria finale. Ma, al di là di questo – e anche al di là dell’esasperazione mediatica che le grandi competizioni sportive, per loro stessa natura, innescano: elemento non ultimo, crediamo che poté contribuire allo squilibrio mentale di Crowhurst – resta il fatto che un uomo deve imparare a valutare le proprie forze, a conoscere se stesso, a porsi obiettivi che, per quanto ambiziosi, non siano totalmente irrealistici. Il che è come dire che la vita si sforza d’insegnarci quello che possiamo e quel che dobbiamo fare di essa. Sta a noi sforzarci di imparare e comprendere che l’importante non è quel che facciamo, ma come lo facciamo. Sentirsi dei vincenti o dei perdenti dipende, in buona sostanza, proprio dall’aver compreso questo, oppure dal non averlo compreso.

Tornando alla domanda iniziale: la filosofia di Donald Crowhurst — digiuno, oltretutto, a quel che sappiamo, di studi filosofici -, così come egli l’ha vergata durante le interminabili ore, settimane e mesi della sua folle crociera, è quella di un pazzo? Prima di rispondere in maniera netta e recisa — cosa che, lo diciamo subito, non ci sentiamo di fare (e del resto, quante pazzie hanno scritto filosofi di professione, a cominciare dal buon vecchio Hegel) — vorremmo fare una considerazione. Vi sono circostanze della vita nelle quali la fatica, l’angoscia, il senso di colpa, il bisogno di espiazione, uniti ad una estrema solitudine, fanno sì che l’uomo, anche il meno preparato dal punto di vista intellettuale, si trovi, per così dire, sospeso sull’abisso: intravede, magari per un attimo, le vertiginose profondità dell’essere; intravede anche — forse – la sua essenza, che è amore misericordioso, ma anche giustizia; e ne resta folgorato. Non ci sentiremmo di escludere che Donald Crowhurst si sia trovato in una tale condizione, affacciato sull’abisso e abbagliato dall’essere. Purtroppo gli mancavano gli strumenti, più che intellettuali, morali e spirituali, per reggere e conservare il suo equilibrio, dopo una tale rivelazione. Afferma Nietzsche che non si può guardare troppo a lungo nell’abisso, senza che l’abisso, a sua volta, cominci a guardare in noi. Quello sguardo, lo sguardo dell’abisso, è qualcosa che l’essere umano non può reggere — nemmeno Nietzsche lo ha retto, come è noto -, a meno che possieda delle facoltà assolutamente speciali di equilibrio, di saggezza, di umiltà. E quand’anche le avesse, ciò non basterebbe ancora; ci vorrebbe una cosa ulteriore: l’aiuto che scende dall’Alto, e che non viene concesso se non a chi lo sa domandare. Perché l’uomo, da solo, per quanto equilibrato, saggio e intelligente, non può sostenere lo sguardo di Dio, a meno che non abbia ricevuto il dono soprannaturale della Grazia, che non si trova in alcun libro e che non può essere trasmesso, insegnato o surrogato per mezzo di alcun essere umano: perché, semplicemente, non appartiene alla scienza dell’uomo.

Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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