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L’«antifascismo perenne» di Gabriele Pepe è stato l’ipocrita divisa del politicamente corretto

L’antifascismo è una categoria "perenne" dello spirito, ed esso può fornire la base della cultura politica di una nazione?

Posta così, la domanda sembra, più che stupida, semplicemente – e irrimediabilmente – assurda: poiché il fascismo è stato un fenomeno storico, l’antifascismo non può che essere un altro fenomeno storico, ad esso uguale e contrario; è impensabile eleggere al rango di categoria perenne un qualcosa che sorge storicamente, vale a dire in un tempo e in un luogo precisi e circoscritti, allo scopo di contrastare un altro fattore storico.

E lasciamo perdere che, se il fascismo ha una data di inizio, ha anche una data finale: che può variare dal 25 luglio del 1943 (nel qual caso sarebbe stata una morte per suicidio) al 25 aprile del 1945 (nel qual caso sarebbe stato un omicidio: e non certo per le punture di spillo delle bande partigiane, ma per le migliaia di tonnellate di bombe sganciate dai "liberatori" anglosassoni): per cui è una contraddizione in termini, semantica ancora prima che concettuale, immaginare un "antifascismo" che si prolunghi oltre la morte del fascismo stesso. A meno di immaginare l’antifascismo come una veglia al sepolcro del nemico defunto, un po’ come gli armigeri del Sinedrio (i Romani si rifiutarono di prestare un così basso servizio) che furono posti a presidio del sepolcro di Cristo, per evitare che il corpo venisse trafugato.

Eppure, non solo la cultura politica italiana, e, con essa, buona parte della "intellighenzia" nel suo complesso, hanno risposto in maniera affermativa alle nostre due domande iniziali: ne hanno fatto addirittura la base del paradigma dominante, nonché la quintessenza di ciò che è da considerarsi politicamente corretto: sicché, per più di quattro decenni (cioè, fin dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della Guerra fredda) non è stato neppure immaginabile che si muovesse foglia, nel panorama politico, sociale e culturale italiano, se non sotto l’insegna del più ostentato e retorico "antifascismo", vero e proprio mantello protettivo, buono per tutte le stagioni e per coprire qualsiasi operazione politica, sociale, culturale.

A formulare la teoria, diciamo così, "scientifica", dell’antifascismo permanente, è stato uno storico dell’antichità, del quale abbiamo già avuto occasione di occuparci: Gabriele Pepe (cfr. il nostro precedente articolo: «Lo "spirito dell’epoca" come problema storico nella concezione di Gabriele Pepe», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 14/06/2013). Nel 1945, a guerra civile da poco terminata (ove non si consideri la lunga "coda" di sangue degli assassinii politici perpetrati dai partigiani comunisti per molto tempo ancora, appunto con la giustificazione ideologica dell’antifascismo), egli pubblicò un saggio intitolato «Antifascismo perenne». Forse avrebbe preferito definirlo "eterno": ma una cosa eterna non ha principio né fine; volendo indicare una categoria dello spirito che aveva avuto, bensì, un inizio, ma che non avrebbe dovuto mai avere fine, Pepe formulava la categoria dell’antifascismo "perenne" (una reminiscenza della "rivoluzione permanente" di Trotzkij, o una oscura premonizione della "enduring freedom" di George W. Bush?), ossia, in parole povere, teorizzava la guardia armata al sepolcro del nemico morto, e ne faceva il cardine della futura vita politica italiana.

Lo storico Enzo Santarelli (Ancona, 1922-Roma, 2004), dapprima vicino al fascismo di sinistra, poi, dopo l’8 settembre 1943, passato all’antifascismo militante, e, nel giro di un triennio, dal 1945 al 1948, passato dai liberali, ai repubblicani, ai comunisti, per i quali fu eletto deputato nel 1958, ricorda questo aspetto della cultura politica italiana, peraltro senza rilevarne affatto l’incongruenza e la faziosità, anzi, portandolo ad esempio del "politicamente corretto" (da: Enzo Santarelli, «Storia critica della Repubblica. L’Italia dal 1945 al 1994», Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 175-176):

«In una prospettiva storiografica, l’antifascismo si presenta come un punto di forza e insieme di debolezza della democrazia repubblicana. Gli antifascisti avevano raccolto e rielaborato l’idea della Repubblica, riprendendola dalla democrazia risorgimentale e postrisorgimentale, e nel dopoguerra il loro impegno prioritario era consistito nell’allontanamento della monarchia. Si cancellava — nella carta costituzionale — la tradizione centralistica, autoritaria, dittatoriale, vissuta e subita nel ventennio e si gettavano e basi di una riforma dello stato e riorganizzazione della comunità nazionale, la cui modernità è stata generalmente sottovalutata. E tuttavia sulla nuova vita repubblicana incombeva anche un’altra tradizione. Il progetto democratico regionale, in cui la società avrebbe potuto rinnovarsi e riconoscersi, rimase incompiuto. Nonostante tutto, l’antifascismo come la resistenza, ma più quello che questa, rappresentavano forze minoritarie, politicamente egemoni soltanto in alcuni momenti di intensa vita collettiva. Quanto complesso fosse il volto dell’antifascismo si ricava dall’ampio ventaglio di posizioni emerse fra il ’43 e il ”46. La Repubblica ne eredita l’intreccio originario fra memoria storica, coscienza civile e lotta politica. Osservando che "il fascismo ha spostato la sua ubicazione" e registrando "una inattesa fioritura fascistica nella massa degli indifferenti di un tempo", uno scrittore di storia poneva, alla fine del ’44, una questione preliminare: "Ha la tirannide fascista il diritto, legittimo e costituzionale, di risorgere?" (C. Barbagallo, "Neo-fascismo", in "Avanti!", 29 novembre 1944).

Prima ancora che in Germania, anche in Italia si profila un "passato che non passa". Nella saggistica postbellica fra tutti si distingue, per tensione ideale e originalità delle categorie, "Antifascismo perenne" di Gabriele Pepe. Licenziato alle stampe sulla fine del ’45, mentre saliva al potere De Gasperi e venivano liquidati i Cln, l’autore si collocava fra Croce, che combatteva per il suo conservatorismo, e Parri, pur non amando il Partito d’azione. Era un liberale di sinistra, che intendeva impegnarsi"non più contro il fascismo di Mussolini ormai spento con le sue ideologie e i suoi armati, ma contro il nuovo fascismo che vorrebbe sorgere dalle rovine della patria"."In questo libro — aggiungeva — l’antifascismo assurgeva al significato di lotta contro ogni forma di reazione, ciò che lo identifica con il liberalismo: di qui la sua perennità". Altri particolari non servono: all’alba della Repubblica ha inizio una seconda vita dell’antifascismo. Saranno le istituzioni repubblicane, unitamente alle varie forme assunte dal neofascismo, all’evolversi della società e al succedersi delle generazioni, a segnarne l’identità. Da un lato il ciclo della lotta politica e di parte, dall’altro i valori ideali connessi ai tempi lunghi della storia italiana evocati, ad esempio, da Gobetti o da Gramsci, e sofferti dalla cultura dell’esilio e del carcere. L’antifascismo storico aveva dato origine, sia pure con gradi e contenuti diversi, a un processo del tutto inedito (e per la sua durata e intreccio assolutamente peculiare dell’Italia): "radicalizzazione della tematica dei DIRITTI CIVILI nella componente liberale, dei DIRITTI POLITICI nella componente democratica e dei DIRITTI SOCIALI in quella marxista" (G. De Luna, M. Revelli, "Fascismo e antifascismo. Le idee, le identità", Firenze, 1995, p. 27). Era qualcosa che andava a innestarsi sull’identità e dialettica della nazione.»

Fra parentesi, ma lo notiamo solo di sfuggita, è interessare notare la massiccia presenza di storici dell’antichità e di filologi classici nei ranghi dell’antifascismo militante, più o meno perenne: Corrado Barbagallo, Gabriele Pepe, Concetto Marchesi (colui che porta la responsabilità morale dell’assassinio di Giovanni Gentile), per non citarne che alcuni, per arrivare fino al vivente Luciano Canfora, che, in un programma televisivo abbastanza recente, ha paragonato la battaglia di Stalingrado a quella delle Termopili, nel senso di battaglia epocale in difesa della libertà e della civiltà (con l’Armata Rossa di Stalin nell’improbabile ruolo di baluardo della "libertà" e della "civiltà"). Ce ne siamo domandati la ragione, e abbiamo formulato questa ipotesi: i filologi classici e gli storici dell’antichità hanno letto troppo Platone e Aristotele, e hanno fatto indigestione di Cicerone e Tacito: vivono in un mondo tutto loro, libresco e retorico, fatto di eroi senza macchia e senza paura, che lottano contro le forze oscure e demoniache del Potere: perciò capita loro, con una certa facilità, di scambiare un qualsiasi Stalin per un Armodio, e un Mao Tze Tung per un Leonida. E qui chiudiamo la parentesi e proseguiamo nel nostro ragionamento.

Gabriele Pepe, dunque, è stato il primo a teorizzare che la categoria dell’antifascismo è una categoria perenne dello spirito, perché equivale ad ogni forma di "reazione". Anche questa è una formulazione interessante, perché fondata su una tautologia e, insieme, su un semplice scivolamento del significato semantico. Tautologico, infatti, è dire che l’antifascismo è una lotta contro ogni forma di reazione, laddove "reazione" viene a integrare e ad assolutizzare la nozione di "fascismo": si sposta e si dilata a dismisura il significato, ma non lo si spiega. Cosa è stato il fascismo? Non il "fascismo" come categoria assoluta, ma il fascismo come fenomeno storico. È stato una delle tante forme che prende la cosiddetta reazione? E, in tal caso, che cosa si intende per "reazione"? Lo si intuisce, ma non viene spiegato, non viene definito: per cui finisce per diventare come un vestito elasticizzato, che si può indossare sopra qualunque corpo. La repressione del movimento dei Gracchi, nell’antica Roma repubblicana, fu un episodio di "reazione", da parte del Senato? E la repressione dei contadini tedeschi, nel 1525, da parte dei signori e dei principi – sia protestanti che cattolici – è stata un’altra manifestazione della "reazione" perenne? Ma solo le repressioni equivalgono a una reazione, oppure la reazione può anche essere "preventiva" — così come lo è stato, in fondo, il fascismo stesso, a giudizio di alcuni, come Luigi Fabbri?

E, d’altra parte, se "reazione" è sinonimo di "oppressione conservatrice", come negare che anche lo stalinismo lo sia stato, e ciò non solo a giudizio dei suoi avversari di destra, ma anche di quelli di sinistra, ad esempio i trotzkisti? Qui, però, scatta il riflesso condizionato dell’antifascismo: no, lo stalinismo no; e il comunismo neppure. Perché? Perché il comunismo è stato una componente della Resistenza, una componente essenziale; e il liberale Gabriele Pepe, in nome della solidarietà antifascista, non trova nulla di strano nel sostenere che, se l’antifascismo è l’espressione di una categoria perenne, il "liberalismo", allora il liberalismo, a sua volta, in quanto lotta contro ogni reazione, può benissimo procedere di conserva con la democrazia e con il marxismo, nella difesa dei diritti civili, politici, sociali. Che guazzabuglio ideologico! Il liberalismo è una categoria perenne, perché corrisponde alla difesa permanente contro "ogni reazione"; e va a braccetto con il marxismo, che, a quanto pare, non ha nulla di illiberale, né di antidemocratico. Tutti insieme appassionatamente, dunque, liberali, democratici e marxisti, sulla via delle magnifiche sorti e progressive, alleati di ferro, pieni di stima e comprensione reciproca, uniti e compatti contro il solo, orrido, intollerabile avversario di ieri, di oggi, di sempre: la reazione.

Ed ecco che il cerchio si chiude. La cultura storiografica italiana degli ultimi settant’anni è vissuta all’ombra dello stesso equivoco ideologico che ha determinato le modalità della vita politica: un "antifascismo" rigoroso e intransigente, grande contenitore all’interno del quale l’intera classe politica italiana ha trovato riparo e legittimazione ideologica, specialmente quella (generosa) parte di essa che aveva molte cose, forse troppe, da far dimenticare. Tutti quei "liberali" che avevano accolto il fascismo e che avevano collaborato con esso; tutti quei democratici che si erano scoperti tali dopo il 25 luglio del 1943, folgorati sulla via di Damasco; tutti quei socialisti e comunisti che avevano condotto una guerra civile, i cui strascichi, sotto forma di esecuzioni sommarie e di assassini gratuiti, erano proseguiti ben oltre il 25 aprile del 1945, adesso trovavano una nuova bandiera sotto la quale ostentare una rinnovata rispettabilità: l’antifascismo. Così i grandi industriali e i banchieri, che avevano ottenuto insperati vantaggi e realizzato ingenti profitti durante il Ventennio, ora, con un salto acrobatico, venivano a collocarsi dalla parte "giusta" della barricata, fra i virtuosi, mentre a destra non restavano che i reprobi, destinati all’Inferno di coloro che ostinatamente, pervicacemente, avevano rifiutato qualunque percorso di redenzione.

Del resto, basta scorrere l’elenco dei grandi elettori della sinistra post-marxista del terzo millennio, per rendersi conto quale scelta di campo abbiano fatto la grande industria e la finanza che conta. Eterno camaleontismo delle classi dirigenti nostrane: che siano i Borboni o i Savoia, l’importante è stare sempre dalla parte del vincitore. Perciò, attenzione: le loro metamorfosi non sono certo finite…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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