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30 Luglio 2015Per uscire dal cerchio stregato del pensiero soggettivo occorre postulare il Pensiero Assoluto

Chiamiamo filosofia l’amore e la ricerca del vero; e il pensiero è il processo razionale mediante il quale perseguiamo una tale ricerca. Si noti che la razionalità non si esprime in maniera univoca; essa è sempre, in qualche misura, soggettiva, perché sempre esprime il punto di vista del soggetto, sebbene si sforzi di fissare delle regole condivise: ma lo fa all’interno del proprio paradigma culturale, che è, anch’esso, soggettivo. Due diversi paradigmi culturali non si capiscono e non possono, pertanto, dialogare: ad esempio, il paradigma moderno ammette, per il pensiero razionale, una sola modalità di procedimento, e bolla come "irrazionale" il pensiero mitico degli antichi o dei cosiddetti primitivi — il che è come pretendere di giudicare senza mai essere giudicati, quasi che il pensiero moderno fosse il Pensiero per definizione.
Anch’esso, invece, è il prodotto d una situazione storica; anch’esso, pur servendosi dei processi logici a sua disposizione, non coglie direttamente l’essenza delle cose — ciò sarebbe impossibile, perché il pensiero è sempre pensiero di ciò che ad esso si presenta, vale a dire non le cose in se stesse, non il reale in quanto tale, ma il reale in quanto manifestazione. Il pensiero di un singolo soggetto, o l’insieme dei pensieri di più soggetti appartenenti al medesimo paradigma culturale, è sempre pensiero riflesso, cioè pensiero di pensiero: si rivolge alla cosa pensata, non alla cosa assoluta. Ma la cosa assoluta è ciò che sta fuori dello spazio e del tempo: e, per definizione, ciò che si trova all’interno dello spazio e del tempo, come il pensiero umano, non può giungere ad una tale altezza, in nessun modo e a nessuna condizione.
È qui che si manifesta la tentazione del solipsismo. Se l’unica realtà che posso cogliere col pensiero, io soggetto pensante, è una realtà riflessa, vale a dire una realtà di secondo grado, allora sarei quasi portato a dire che essa sia l’unica realtà: posso infatti supporne un’altra, ma soltanto supporla, perché qualunque realtà concreta io di fatto sperimenti, sarà sempre una realtà soggettiva: colta da me, all’interno del mio stesso pensare. E niente e nessuno potranno mai garantirmi che non si tratti delle allucinazioni di un folle; nemmeno il buon Cartesio, con tutto il suo "cogito": perché il pensiero è pur sempre un atto umano che si svolge all’interno del soggetto e che non ci dà il reale in quanto tale (il "noumeno" kantiano), ma sempre e solo il fenomeno.
Siamo dunque condannati a muoverci nel circolo vizioso del pensiero soggettivo, della razionalità soggettiva, del sapere soggettivo, senza speranza né possibilità di uscirne? E, se è così, cosa rende il mio pensiero più veritiero, più attendibile, e, in definitiva, più degno di essere preso a norma dell’atto di penare, di quanto non lo sia il pensiero degli altro soggetti pensanti? Ciascuno avanza la sua pretesa di veridicità; e ciascuno, dal proprio punto di vista, ha ragione: perché tutti, nessuno escluso, muovono dal soggetto all’oggetto e dunque tutti, nessuno escluso, possiedono la dignità inerente allo statuto ontologico del pensante.
Ma giungere a una tale conclusione, significa precipitare il mondo nella pazzia: perché se ogni pensiero è vero, allora sono veri anche i pensieri che si contraddicono a vicenda; e così viene a cadere la pietra d’angolo della razionalità stessa, vale a dire il principio di non contraddizione. Se si può dire che una cosa è nello stesso tempo, grande e piccola, calda e fredda, bella e brutta, giusta e sbagliata, buona e cattiva, vera e falsa, allora il mondo non è che un vasto manicomio e la vita umana si riduce ad un mero incidente, privo di alcun significato. È questo che vogliamo, quando cerchiamo la verità e quando costruiamo dei sistemi filosofici? Evidentemente no. Eppure, date le premesse, pare difficile, se non impossibile, sottrarsi a una simile conclusione.
Osservava, a questo proposito, Giuseppe Maria Zanghì in un interessante articolo di trentacinque anni fa, «L’intellettuale, chi è?» (in: «Nuova umanità», Roma, Città Nuova Editrice, marzo-aprile 1980, pp. 6-11):
«È chiaro che la ragione è il pensare dispiegato. Una ragione che non proceda per argomentazioni una ragione che non si muova nell’ambito della deduzione o dell’induzione, negherebbe se stessa. Ma questo ci fa evidente che la ragione è segnata dallo spazio e dal tempo: la ragione è individua. Per questo dobbiamo riconoscere che se in astratto si ha LA ragione, in concreto si hanno TANTE ragioni quanti individui pensanti,. La ragione si organizza in sistema, versione logica di quell’altro sistema che è l’individuo che pensa. […]
Il pensiero che si esprime nel movimento della ragione è discorsivo, procede cioè da analisi a sintesi, sintesi che andranno sciolte in ulteriori analisi che saranno ricomposte in nuove sintesi. Questo discorrere è il SISTEMA: organizzazione logica della spazio temporalità del soggetto che pensa e della realtà pensata e della relazione fra i soggetti pensanti. Ogni sistema è, dunque, insieme sintesi e analisi — solo a questo patto sarà razionale. […]
La razionalità parte dai dati che il reale le fornisce (e per reale intendo il diverso dal soggetto in quanto questo è pensante — compreso quindi il sé esistente rispetto al sé pensante -; diverso che è dato come origine del pensare: il pensare non nasce dal pensare stesso. L’interrogarsi sulla "realtà del reale" e il cercare nel pensare l’origine del penare , è segno, a mio avviso, di una iniziata paranoia del soggetto pensante, paranoia che va risolta non nell’ambito del pensiero stesso, – non se ne uscirebbe più — ma in una modificazione della vita vissuta del soggetto pensante, soprattutto del suo rapportarsi al DIVERSO. Ma se parte dai dati, la razionalità non si ferma ad essi, li elabora, costruisce, cerca connessioni: nasce il sistema. Ciò non vuol dire — è importante rilevarlo — che il sistema debba essere inteso come "esterno" al dato reale, esaurito nell’ambito della pura logica; il discorso razionale è esso stesso un reale e fa corpo con il reale, che ne costituisce la concretezza interiore. Ma è anche vero che, nel sistema, il reale viene "letto", interpretato in un ambito che non è il reale come tale ma il reale COLTO nel pensiero. E qui nascono i problemi. L’esistente come tale, non come pensato, sovrabbonda il discorso azionale, sfugge al sistema. Non c’è il rischio, allora, che il sistema mi dia, alla fine, solo me stesso che lo ho elaborato, gettandomi in una paurosa solitudine razionale? Posso stabilire un confronto con altri sistemi? Con il reale come reale? Ma può essere la razionalità il criterio di questo confronto? Se essa, dispiegata, mi dà il sistema, confrontandosi con altre espressioni razionali moltiplicherà i sistemi senza mai uscire veramente dal sistema in cui io soggetto mi vado esprimendo. Cioè, il confronto con altri sistemi avverrebbe necessariamente ALL’INTERNO del MIO sistema. La solitudine rimane. […]
Al livello della sola razionalità, i sistemi sono destinati a restare degli universi chiusi ed incomunicabili fra loro., poiché la diversità entra a costituirle in se stesse, al punto tale che è facile scambiare una razionalità diversa — perché segnata da un diverso spaziotempo — con una pura e semplice irrazionalità. Per un certo tempo, ad esempio, filosofi e sociologi hanno parlato di un pensiero primitivo "prelogico", riservando la razionalità al pensiero maturato nella Grecia. Oggi sempre più scopriamo l’autentica razionalità dei sistemi elaborati dal pensiero "mitico", veri universi profondamente logici. La differenza fra filosofia e mito, dunque, non sta in una pretesa pre-logicità di questo rispetto a quella. Ma nella diversa razionalità in cui si esprime l’INTUIZIONE ORIGINARIA, in un diverso atteggiamento dell’uomo, all’interno delle coordinate spaziotemporali, e che si è espresso appunto nella razionalità mitica e nella razionalità filosofica. Si tratta, allora, di rifarsi alle intuizioni originarie da cui scaturiscono i sistemi razionali; rifarsi a ciò che vorrei chiamare VISSUTI LUMINOSI: percezioni globali dell’esistenza in tutte le sue dimensioni penetrate di luce. […]
È qui che si può risolvere la domanda che prima ho posta: come stabilire un confronto tra sistemi, tra razionalità, che mi conduca veramente a qualcosa che non è il mo sistema né il tuo, e che mi consenta di verificare la verità del mio sistema – un confronto che mi conduca alla verità! Se la verità, infatti, fosse la ragione, l’unico assoluto resterebbe il mio sistema — l’angoscia, come è stato avvertito, resterebbe il senso vero della mia razionalità…»Se la verità fosse il dato reale come tale, ci chiuderemmo in una contraddizione senza uscita, perché di fatto il dato reale io lo colgo razionalmente solo all’interno del mio sistema… […]
Devo supporre, se voglio uscire dalla contraddizione, un PENSIERO REALE, ASSOLUTO, trascendente i termini mediati, e nel quale ORIGINARIAMENTE è posta la relazione fra soggetto pensante e oggetto e fra i soggetti pensanti. In questo Pensiero avviene l’uscita dei termini in relazione, l’uno verso l’altro, In questo Pensiero Assoluto le cose sono come nella loro origine; in questo Reale Assoluto il mio pensiero è come nella sua origine (nel suo grembo, direbbe S. Agostino). Qui è il fondamento originario del mio pensiero; il quale, pur esprimendosi nella razionalità, perché segnato nella sua espressione dalla dimensione spaziotemporale, nella sua radice partecipa d’un modo d’essere che supera lo spaziotempo, la razionalità: è un "evento", e "accade" nell’istante, che è unidimensionale. Chiamo dunque Assoluto — Dio — il Pensiero che dà origine al mio pensiero; chiamo INTELLETTUALITÀ il modo d’essere del mio pensiero nella sua sorgente profonda; chiamo INTELLETTO il mio pensiero in quanto trascende lo spaziotempo; CHIAMO INTELLETTUALE COLUI CHE VIVE IL PENSARE IN QUESTA RADICE. A questa profondità è possibile un confronto reale dei sistemi di pensiero, che mentre ne rispetta la diversità, ne coglie l’unità profonda.»
Il ragionamento ci sembra ineccepibile. Non è un ragionamento originale: lo aveva già fatto Platone, e altri dopo di lui. Le cose contingenti rimandano alla Cosa in se stessa; le verità parziali, alla Verità senza attributi; dunque anche il pensiero rimanda ad un Pensiero senza attributi né specificazioni, ad un Pensiero puro, assoluto, necessario, così come il buono, il bello, il giusto, rimandano al Bene, alla Bellezza, alla Giustizia.
Ma questo passaggio, perfettamente logico e razionale – se logica e razionalità hanno un senso -, la maggior parte dei filosofi moderni non sono disposti a farlo: sembra loro un salto nel buio, una scappatoia, una rinuncia, un sacrificio troppo grande per il loro orgoglio di pensatori. Non sono disposti d inchinarsi davanti alla Verità: preferiscono coltivare, ciascuno di loro, la propria, piccola verità, parziale, contingente, meschina, infedele. Infedele, perché la verità con la lettera minuscola, cioè la verità che io ritengo tale, ma che non può essere accettata da alcun altro, se non per fede, non è una verità intera, ma una verità incompleta, mutilata, sanguinante: una ferita nella struttura dell’Essere (se l’Essere, beninteso, potesse soggiacere ai colpi che gli vengono inferti dalla buffa presunzione degli esseri). Ricordiamo la vecchia definizione tomista della verità: essa èl’adeguamento del giudizio alla cosa; dunque, la verità non è il fine del conoscere, ma solo la via per arrivare a un qualcosa di più grande e di assoluto: la Verità in se stessa, che è, per forza di cose, l’Essere. Le verità del pensiero moderno, diceva Chesterton, sono schegge di verità cristiane impazzite, perché sciolte dal loro legame originario con l’Essere. Questa è la rivolta dell’ente contro la propria origine: la volontà ostinata, cocciuta, arrogante, di negare il proprio legame originario con l’Essere, la propria condizione di realtà riflessa (che contiene una scintilla divina, ma che non è il Divino). Ed è una rivolta che porta dritto alla pazzia.
Il mondo moderno è un mondo di pazzi, perché si basa su verità impazzite: su verità parziali, mutilate, infedeli alla Verità originaria: mezze verità che pretendono di essere verità assolute, mentre non lo sono, e divengono la causa e l’oggetto di una infinta contesa con mille, centomila altre verità che si contrappongono loro, ciascuna con la propria pretesa di assolutezza, ciascuna portatrice della propria infedeltà e della propria menzogna essenziale. Non c’è verità al di fuori dell’Essere: nemmeno nella persona umana. La persona umana, con il suo pensare soggettivo, per quanto razionale pretenda di essere, sarà sempre una impostura, una contraffazione, una scheggia impazzita, se non riconosce la propria condizione creaturale, se non ammette il proprio legame originario con l’Essere.
Esiste, pertanto, una ed una sola strada che può condurre fuori dall’Inferno della lotta delle verità soggettive: ed è il ritorno alla dimora dell’Essere. Mettersi su quella strada, vuol dire ritrovare senso e scopo, nonché una direzione da prendere. Al di fuori di ciò, non resta che vagare, come Dante, nella selva notturna, infestata da belve pronte a divorarci: i fantasmi deliranti del nostro stesso io…
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