
Guelfi bianchi e guelfi neri: erano davvero conservatori contro progressisti?
30 Luglio 2015
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30 Luglio 2015Ma che bravi questi Inglesi: mentre gli altri popoli facevano le guerre, e talvolta seguitano a farle, per quisquilie come le successioni dinastiche, l’onore, la potenza, la gloria, loro le fanno e le hanno sempre fatte esclusivamente per ricavarne degli utili: si cittadini pagano le tasse e dunque hanno diritto a esser certi che i loro quattrini siano spesi bene.
Per coloro che ammirano svisceratamente il sistema politico liberale, la Gran Bretagna, patria nobile di esso, questa è una ragione in più per ammirare gli Inglesi: un popolo dal forte senso pratico, che non si perde dietro inutili chimere; non per nulla quasi tutta la filosofia inglese è una variazione sul tema dell’empirismo, dell’utilitarismo, del pragmatismo e non per nulla han costruito l’impero coloniale più grande della storia non per altro che per i soldi: così come per i soldi, cioè per ridurre al minimo i danni finanziari, lo hanno lasciato andare, dopo il 1945, senza sparare un solo colpo di fucile.
Non è da tutti. Mentre i Francesi si dissanguavano a Dien Bien Phu e nella Cabilia, nel vano tentativo di puntare i piedi contro il progredire della decolonizzazione, loro, da gran signori, han levato baracca e burattini in quattro e quattr’otto. Dove c’erano patate troppo bollenti da sbucciare, come in Palestina, per non scottarsi le dita hanno tagliato letteralmente la corda, che si sbudelliamo pure gli altri, e chi s’è visto s’è visto. E dove c’era una difficile eredità da spartire, diciamo qualcosa come un sub-continente, loro han fatto da onesti mediatori: le ferrovie un tanto all’uno e un tanto all’altro; la polizia, i tribunali, le scuole, gli ospedali, stessa cosa: così sono nati l’India e il Pakistan. Con qualche milione di morti negli scontri fra indù e musulmani; ma loro, gl’Inglesi, intanto se ne sono andati da gran signori anche di lì. I Francesi non avevano mica un quarto delle terre emerse da porre in liquidazione: avevano solamente mezza Africa e una bella fetta d’Indocina. Poca roba, in confronto.
E non solo la Gran Bretagna ha sempre coltivato l’arte di dominare mezzo mondo con pochi uomini e con mezzi relativamente esigui; si è ancor più specializzata nell’arte di finanziare gli altri popoli perché si scannino in suo pro, a costo di ridurre l’Europa a un cimitero, purché la potenza egemone di turno venga abbattuta e nessuno osi insediarsi minaccioso sulla Manica; il tutto sotto il vessillo ipocrita della libertà, e spingendo l’astuzia alla sublime perfezione di indurre gli altri popoli a contrarre debiti nei suoi confronti per seguitare a sbudellarsi nel suo unico ed esclusivo interesse. Guadagnandoci, così, due volte: ottenendo l’egemonia indiretta sul continente e diventando creditrice degli Stati che si sono battuti e dissanguati per farle raggiungere un tale obiettivo. Solo chi possiede una dose insuperabile di genio mercantile è capace di tanto.
Dicevamo dell’ammirazione dei liberali di mezzo mondo, dunque anche dei nostri. Un giornalista come Indro Montanelli, improvvisatosi storico insieme a Roberto Gervaso, nella sua ben nota «Storia d’Italia» – opera peraltro non priva di meriti, almeno a livello divulgativo — non esita a magnificare questo aspetto pratico, non ideologico, squisitamente finanziario dell’imperialismo britannico; dalle sue parole, parrebbe che la Gran Bretagna abbia raggiunto il vertice assoluto della civiltà europea solo per questo, che le sue navi da guerra e i suoi preziosi soldati non vennero mai "sprecati" in stupidi conflitti di prestigio o di potenza, ma solo e unicamente in efficienti e razionali guerre per il controllo dei mercati, delle rotte commerciali, delle piazze d’affari di gran parte dell’orbe terracqueo.
Dopo aver parlato delle guerre dinastiche del Settecento, e particolarmente della Guerra di successione spagnola, conclusa dalle paci di Utrecht e Rastadt, rispettivamente del 1713 e 1714, i due autori citati se ne escono con queste pacate e sensate riflessioni (da: Montanelli-Gervaso, «L’Italia del Settecento», Milano, Rizzoli, 1970, 1995, pp. 23-26):
«Questo sistema [quello delle paci di Utrecht e Rastadt] è opera dell’Inghilterra, la vera trionfatrice di Utrecht. Essa ha raggiunto tutti i suoi obiettivi. Quello fondamentale non era di dare la vittoria all’uno o all’altro contendenti, ma d’impedirla a entrambi. È stata alleata degli Asburgo quando i Borbone minacciavano di spazzarli via: Ma quando ha visto che a correr questo rischio erano i Borbone, si è affrettata a fare la pace. Essa ha ormai scelto la sua linea politica che rimarrà invariata per due secoli, cioè fino alla seconda guerra mondiale, e che si riassume nella formula "balance of power", equilibrio delle potenze. Applicata all’Europa di allora, questa formula significa equivalenza di forze tra i due grandi blocchi continentali: quello borbonico e quello asburgico. […] Ma la diplomazia britannica non si accontenta di questo risultato. Fra i due blocchi rimessi in equilibrio fra loro in modo che si neutralizzino a vicenda, essa interpone e potenzia una sfilza di piccoli stati satelliti, che da questi momento diventano i suoi protetti. […]
Di questo equilibrio, l’Inghilterra si fa la patrona e garante. Essa non ha cercato di annettersi neanche un palmo di terra, sul continente. Il premio della sua vittoria l’ha cercato altrove. Si è accaparrata Gibilterra e Minorca: due piccole cose, ma che le danno il controllo del Mediterraneo, dove d’ora in poi la sua flotta la farà da padrona. Si è fatta consegnare la Baia di Hudson, terranova e l’Acadia dalla Francia, che forse non si è accorta di avere con queste cessioni rinunziato al Canada, o anche se se n’è accorta non vi ha dato peso, perché anche il Canada Parigi lo considerava "pochi arpenti di neve"., come diceva Voltaire. Tutte briciole, insomma. E briciola sembrava anche il monopolio dell’"asiento" [il monopolio della tratta dei neri nelle colonie spagnole] strappato alla Spagna, e il "vascello di permesso", cioè il diritto d’inviare una volta all’anno una nave a vendere il suo carico nei Paesi spagnoli del Sud America. Solo più tardi la Spagna si renderà conto che l’"asiento" costituiva la più grande fonte di ricchezza dei commerci marittimi internazionali e il "vascello di permesso" era un grimaldello destinato a far saltare la barriera protezionistica in cui la Spagna si sforzava di chiudere il suo impero latino-americano per farne la propria esclusiva riserva economica. Così l’Inghilterra, con tre o quattro clausole del trattato di Utrecht, che sembrano di secondaria importanza è diventata insieme, o si sta avviando a diventare, l’arbitra dell’Europa e l’incontrastata padrona delle vie di comunicazione tra il vecchio e il nuovo mondo americano, dove nessuno può più farle concorrenza.
Il perché di tanto successo è abbastanza facile da capire. E si può riassumere così: di tutte le potenze europee, salvo l’Olanda, l’Inghilterra è l’unica che agisce in base ai suoi interessi nazionali, invece che a quelli dinastici, Il Re Sole ha messo a soqquadro il Continente non per la Francia, ma per procurare altri troni alla sua famiglia, i Borbone. Gli Asburgo hanno fatto altrettanto. I Savoia non hanno avuto di mira che la corna reale. Fra poco vedremo la Spagna lanciarsi alo sbaraglio [sotto la regia dell’Alberoni] per procurare reami e Ducati ai figli della sua regina Farnese. Quella che perseguono tutte queste teste coronate è una politica di puro ingrandimento dinastico. L’Inghilterra, no. Anch’essa ha un Re o una Regina. Ma ha anche un Parlamento che non gli consente di sovrapporre l’interesse della dinastia a quello del Paese. Ecco perché, invece del prestigio, essa persegue vantaggi concreti. La guerra la fa il cittadino, che la paga di tasca sua e col suo sangue. E questi sacrifici non è disposto a farli per regalare al suo Re un trono o un titolo. Il cittadino vuole Gibilterra perché Gibilterra è il Mediterraneo coi suoi noli e i suoi mercati. Vuole l’"asiento", perché l’"asiento" è il monopolio del traffico più redditizio. Vuole il Canada perché il Canada è il grano, il legname e le pellicce. Vuole il "vascello di permesso" perché con quello apre a alla propria esportazione il continente sud-americano. E soprattutto vuole la padronanza incontrastata sui mari perché i mari sono, per lui isolano, la sicurezza e la ricchezza. Di troni e di titoli per i suoi Re, s’infischia. È questa preminenza del pubblico interesse sull’interesse dinastico che rende così prosaica, ma anche così efficiente la politica inglese. Essa non corre dietro ai pennacchi della grandezza. Va al sodo. Le guerre non si fanno per la gloria. Si fanno per la prosperità, di cui la potenza militare è solo uno strumento. La guerra di successione spagnola è costata parecchio denaro, che ha obbligato la Tesoreria a contrarre parecchi debiti ci cittadini. Costoro reclamano il rimborso. Il governo li appaga facendoli azionisti di una Compagnia dei Mari del Sud, cui concede il monopolio del commercio col continente latino-americano. L’Asburgo vuole aggiungere il Belgio ai gioielli della sua corona? Se lo prenda. Ma con l’impegno che resti spalancato alle flotte e all’esportazioni britanniche. La preponderanza inglese sull’Europa è il frutto di questa superiore saggezza. Che non si esaurisce soltanto nel fatto militare e diplomatico. Diventa anche lezione ed esempio morale. Piano piano le menti più avvertite del continente si rendono conto che il successo dell’Inghilterra è dovuto a una concezione dello stato che contraddice in pieno a quella delle monarchie per diritto divino che affliggono l’Europa, e si mettono alla sua scuola. A garantire e rafforzare il suo piano, d’ora in poi, non sono più soltanto l’invincibile flotta, la grande banca, la grande industria che da questo momento prende l’aire, ma anche il modello di organizzazione politica moderna ch’essa offre all’antiquata Europa degli assolutismi, affrettandone la crisi.»
A leggere questa pagina di prosa, che sembra scritta da un seguace di Locke o da un discepolo di Adam Smith, ci si potrebbe far l’idea che la Storia non abbia mai saputo produrre niente di più bello, di più giusto, di più moderno ed efficiente dell’imperialismo britannico (perché di questo si tratta, e Montanelli e Gervaso non lo nascondono affatto). Peraltro i nostri Autori non si peritano di ragionare come se «l’Inghilterra» fosse una ipostasi o una specie di categoria metafisica, e non un governo formato anch’esso da creature umane, espressione di interessi ben precisi, che non coincidono affatto con il superiore interesse del Paese, ma con i propri interessi specifici, di classe o di partito. Se no, non si capisce nulla: si giudica la politica inglese secondo categorie metafisiche, e quella degli altri Paesi europei secondo categorie terra terra, volgarmente miopi ed anguste, perlopiù di ordine dinastico (come se anche il senso della fedeltà dinastica non fosse un valore più che rispettabile per la convivenza civile: e lo prova, ad esempio, la storia plurisecolare dell’Impero austriaco). Sembra quasi, a leggere quel che scrivono Montanelli e Gervaso, che il contadino irlandese, stremato dalle carestie, dalle tasse e dalle prepotenze del governo britannico, accampato in casa sua come in terra di conquista coloniale, avrebbe dovuto fare salti di gioia e brindare a "champagne" ogni qual volta un nuovo trofeo andava ad aggiungersi al bottino dell’imperialismo britannico: Gibilterra, Minorca, l’Acadia, eccetera. O che il piccolo artigiano del Galles o ella Scozia, rovinato dalle industrie nascenti e dalla politica delle "enclosures", avrebbe dovuto sentirsi riempire il petto di orgoglio per le vittorie del duca di Marlborough a Blenheim e Ramillies, pensando che così venivano umiliate le ambizioni del potente Re Sole.
La storia raccontata dai liberali, specie quando si tratta di esaminare il periodo che vide l’apogeo del liberalismo e dei suoi successi economici e finanziari, finisce per essere, inevitabilmente, una storia auto-celebrativa: un po’ come lo sarebbe quella degli Stati Uniti d’America, se il generale Custer fosse stato chiamato a raccontare la storia delle guerre indiane (prima del disastro del Little Big Horn, beninteso). No, signori, così non va. Se si vuol fare della storiografia intellettualmente onesta, bisogna mettere nel conto sia le luci che le ombre e non limitarsi a sciorinare i successi della parte politica con cui si simpatizza, ma mostrare apertamente anche i costi che essa ha imposto, e che sono pur stati pagati da qualcuno. E questo qualcuno, nel caso dell’imperialismo britannico, sono stati, nell’ordine: i cittadini britannici senza terra, senza reddito o con pochi beni al sole, carne da cannone o materiale da emigrazione per popolare le colonie; i popoli dell’Europa, gettati l’uno contro l’latro nell’esclusivo interesse politico ed economico della Gran Bretagna, fino al suicidio finale del continente, con le due guerre mondiali del XX secolo; i popoli delle colonie e dei "Dominions" britannici, sottoposti a un feroce sfruttamento e, in non pochi casi — vedi i Tasmaniani o i Maori — a dei veri e propri tentativi di genocidio, a volte pienamente riusciti.
È vero filosofo chi sa vedere il tutto e non solo la parte; la stessa cosa si può dire del vero storico…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash