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Lutero ha cristianizzato il popolo tedesco, ma al prezzo di germanizzare il cristianesimo

Forse la storia della cosiddetta Riforma luterana — che è stata, in realtà, una rivoluzione: più precisamente, una rivoluzione conservatrice — se si smettesse di considerare Lutero come, appunto, essenzialmente un riformatore religioso, e lo si vedesse, una volta per tutte, sotto la dimensione fondamentale del nazionalismo tedesco. Lutero è stato colui che ha germanizzato il cristianesimo e che, per poterlo fare, ha contribuito – forse più di chiunque altro – a cristianizzare il popolo tedesco, rompendo per sempre il fondo pre-cristiano, pagano, della sua anima. E questo, sotto la spinta di un bisogno che era più di natura psicologica, anzi psicopatologica, che religiosa: il senso terrorizzante della solitudine dell’uomo, della sua impotenza, della sua abiezione radicale e irrimediabile. Per soccorrere un uomo così, totalmente solo e disperato, ci voleva un Dio che fosse costruito in proporzione: duro, incomprensibile, lontanissimo; donde il ritorno all’Antico Testamento e la rottura deliberata con la cultura umanistico-rinascimentale, pur sempre fiduciosa nella capacità dell’uomo di prende in mano il proprio destino: si pensi soltanto alla polemica sul libero arbitrio fra Lutero ed Erasmo da Rotterdam.

D’altra parte, per germanizzare il cristianesimo, ossia per riportarlo alla sua dimensione tedesca, anti-rinascimentale, duramente agostiniana, bisognava recidere i legami con la teologia cattolica delle opere: Dio è tutto, l’uomo è niente; non ci si salva che con la fede; ma la fede è dono gratuito di Dio, dunque non ci si salva se non è Dio a salvare. Ed ecco, inevitabile, il ritorno al fondo pagano dell’anima tedesca: il destino, qui nella versione della predestinazione divina, riprende il suo posto centrale nell’antropologia e consegna l’uomo alla prospettiva di una eterna dannazione o di una eterna salvezza che non dipendono da lui, dunque lo restituisce a quell’angoscia e a quella disperazione da cui aveva preso le mosse la "riforma" luterana. Corto circuito che mostra come non sia possibile restituire all’uomo il senso del suo destino, se quel Destino gli è sottratto e messo nelle mani di un Dio corrucciato e imprevedibile. Si perde, qui, il senso più profondo di quella cristologia paolina, cui pure Lutero continuamente si richiama: l’uomo non è più figlio di Dio, torna ad essere servo e anche meno di un servo, perché a un servo non si spiega quali siano le intenzioni del padrone, ma a un figlio sì.

Non solo. Con Lutero trionfa, si fa per dire, l’individualismo moderno, perché l’uomo di Lutero non è solamente un uomo disperato, è anche un uomo solo, incapace di relazionarsi armoniosamente e serenamente con i propri simili: è chiuso e sepolto nella propria disperazione che lo isola, lo acceca, lo separa dal consorzio umano e lo spinge verso Dio, non già per incontrarvi il suo prossimo (che di fatto non esiste, perché non lo vede), ma solo e unicamente per cercare e trovare protezione contro l’urlo della sua sconfinata angoscia e della sua devastante disperazione, che lo spingerebbe al suicidio, se solo non avesse una paura troppo grande di finire tra le fiamme dell’inferno. Eppure il Dio che lo salva, se pure lo salva, non appare sotto la veste della misericordia, ma, ancora e sempre, sotto le spoglie di un padrone accigliato e terribile, che è impossibile soddisfare e rabbonire, per quanto il figlio ce la metta tutta per adeguarsi alla sua volontà.

Si potrebbe anzi spingere il discorso ancora più lontano e vedere nella psicanalisi di Freud, questo ebreo tedesco che non crede più in alcun Dio, né quello dei suoi padri, né quello dei cristiani, ma che si porta dietro un immenso senso di colpa per averlo, nietzschianamente, "ucciso", una versione aggiornata e corretta del luteranesimo: anche qui un Dio che è un padre-padrone, onnipotente e incomprensibile; anche qui un figlio sbigottito e terrorizzato, in preda ad un’angoscia immedicabile; anche qui un vicolo cieco, un male peggiore di quello da cui si voleva uscire: perché l’Inconscio è un Dio ancora più tremendo e ancora più incomprensibile di quello di Lutero, e perché all’uomo non si offre una vera e propria redenzione, ma solo un surrogato insoddisfacente di essa, vale a dire una "guarigione" che coincide, in ultima analisi, con l’accettazione della nevrosi cronica, pena l’orrore di precipitare nell’Inferno della "barbarie" degli istinti scatenati. E allora non è un caso, forse, che il nuovo Verbo freudiano abbia fatto la sua comparsa, ed abbia mietuto i suoi primi, trionfali successi, nel contesto della cultura germanica e non, poniamo, di quella italiana, o francese, o spagnola.

Ci sembrano particolarmente acute le osservazioni svolte dal germanista Alberto Krali, docente di Lingua tedesca presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università cattolica del Sacro cuore di Milano (A. Krali, «L’uomo solare e le tenebre del Nord», in: «Il nuovo Areopago», rivista trimestrale di cultura, Bologna, n. 4 del 1983, pp. 25-7):

«Non già un Dio a misura d’uomo, ma un Dio in funzione dell’uomo sta a segnare in modo incontrovertibile il passaggio, con Eriugena, dal cristianesimo mediterraneo a quello nordico-germanico e questo, per la prima volta, in modo così esplicito. È qui da riscontrarsi il principio spirituale dell’individualismo moderno che avrà la sua consacrazione in Lutero.Egli non può certo considerarsi un "moderno" e tanto meno un riformatore, ché il suo intento era restauratore diciamo conservatore, ma egli si trova a rendere manifesto ciò che a partire da Eriugena e fors’anche prima era il problema principale del cristianesimo nel centro e nord d’Europa: per l’appunto la sua identità germanica. Con Lutero ha preso coscienza ed è diventato realtà non solo religiosa ma politica ciò che per mille anni aveva dovuto nascondersi nelle pieghe di un cristianesimo estraneo alla tradizione ed ai costumi germanici. Possiamo dire che egli ha cristianizzato in senso pieno il popolo germanico, riportando l’unione là dove vi era frattura, conciliando la predicazione del Vecchio e del Nuovo Testamento con la sensibilità di un credente sempre più cosciente della sua diversità culturale dal modello imposto da Roma.

Ha portato a compimento quel processo di fusione tra religiosità germanica, cultura non scritta e messaggio evangelico che al cattolicesimo romano non era mai riuscito, ma l’ha fatto ovviamente da tedesco. L’uomo di Lutero è un uomo disperato. Gli fa paura la sua tremenda solitudine. La vita gli appare troppo crudele perché egli possa vedere un Dio consolatore, un Dio soprattutto vicino. Al contrario gli appare onnipotente, incommensurabile, tanto grande da divenire irraggiungibile. Nella lontananza di questo Dio, che non comunica, l’uomo è costretto a porsi al centro del mondo. L’inintelligibilità del suo creatore lo esenta dal dare significazione alla sua volontà suprema e quindi lo esime dall’avere certezza della propria salvezza. Tutto si consuma nel presente, in un presente tragico, perché demandato alle sole forze umane, dove all’uomo non resta che il timore servile verso il Padre. Ciò che Dio deciderà dell’uomo non è dell’uomo.

Precetti morali e meditazioni speculative finiscono per essere inutili fardelli ad una vita che si intende solo come espressione di un sincero sentire. In questa dimensione l’uomo luterano si sente libero di dar corso alle forze vitali che lo pervadono, senza doversi continuamente domandare se vadano represse o mitigate in nome di un ordine morale superiore. L’unitarietà tra sentire ed operare viene così riaffermata e con essa la convinzione che il dato concerto sia unica diretta espressione della totalità della persona umana.

Poiché l’uomo non è in grado di stabilire l’intensità e la sincerità del sentimento altrui, tutto viene demandato alla coscienza individuale e quindi interiorizzato. Solo l’azione resta l’unico strumento di valutazione certo, perché verificabile coi sensi, dell’operato umano. La dignità è misurata nell’azione, perché in essa si racchiude l’essenza di valori altrimenti non immediatamente riscontrabili. L’assenza di una misericordia divina che già su questa terra possa lenire il dolore dell’uomo fa sì che tutto trovi realizzazione nella giustizia umana. A queste condizioni la dimensione del giusto non è espressione di una intenzionalità e quindi di una valutazione della persona umana in funzione anche trascendente, ma frutto diretto di fatti concreti. Essi e solo essi sono gli strumenti di valutazione di una realtà che altrimenti appare sfuggevole e incomprensibile.

È indubbiamente merito di Lutero aver dato riscontro palese a questa dimensione della spiritualità tedesca e a questo è da attribuirsi la repentina e assolutamente imprevista diffusione del suo pensiero sul suolo germanico sin dagli inizi della sua opera.»

In questo senso, precisamente, abbiamo iniziato la presente riflessione, sostenendo che la figura e l’opera di Lutero hanno primariamente a che fare con la dimensione del nazionalismo tedesco, e solo di riflesso con l’ambito religioso e spirituale; anche se è in quell’ambito che egli ha ottenuto i suoi successi più spettacolari, grazie ai quali si è conquistato un posto ragguardevole nella storia europea.

Tuttavia, a differenza di Alberto Krali, noi pensiamo che la dimensione "politica" della riforma di Lutero non consista semplicemente nell’aver germanizzato il cristianesimo, ma anche e soprattutto nell’aver dato, in quest’ultimo, espressione teologica a un tipico atteggiamento dell’anima tedesca nei confronti del reale: l’abitudine all’autoaffermazione e all’autosufficienza, che, nella psicologia di milioni d’individui, coincide, a un dipresso, con il non aspettarsi mai alcun aiuto dall’altro, per nessun motivo, e nell’andare incontro al proprio destino, eventualmente anche alla disfatta, in perfetta solitudine, senza attendersi (e, naturalmente, senza concedere) quartiere. Se la vita è una lotta, ebbene questa lotta bisogna combatterla da soli, senza sconti.

L’altra radicata abitudine mentale tedesca, quella di lasciarsi inquadrare e di procedere in gruppo, quasi annullando la propria individualità, essendo più visibile e più sconcertante per lo spirito non tedesco, è quella che ha maggiormente richiamato l’attenzione su di sé, anche per le sue implicazioni etiche nel rapporto fra società e persona, fra legge dello stato e legge della coscienza. Però, a ben guardare, essa non è che il rovescio della medaglia di quella: il tedesco, quando è impegnato nell’esercizio del proprio dovere, o anche, semplicemente, quando si batte per affermare i suoi obiettivi personali, non pensa, né crede, che la cosa si possa risolvere senza che una delle due parti in conflitto, vale a dire se stesso e il suo antagonista, chiunque egli sia, possa essere stata pienamente debellata, lasciando intero campo libero al vincitore. E tutto questo è pagano, ricorda la mitologia germanica e le ferali passioni dei Nibelunghi, la vendetta spietata e lungamente accarezzata di Crimilde; ricorda il Crepuscolo degli dèi e il "vivere pericolosamente" di Nietzsche. Non è cristiano, e tanto meno cattolico.

Il cristiano sa e confida che qualunque cosa accada, e specialmente quando è impegnato in una lotta la cui posta è la salvezza non solo del corpo, ma dell’anima, egli non si troverà mai del tutto solo e abbandonato a se stesso; sa di poter contare sull’aiuto di Dio, padre amorevole che viene incontro al figlio smarrito, al peccatore, al disperato. Se Lutero avesse considerato bene tale aspetto dell’onnipotenza divina, cioè la misericordia, sarebbe stato egli stesso più misericordioso con i suoi antagonisti: volta a volta il papa, il clero, i contadini ribelli, gli ebrei, gli umanisti, i riformatori cattolici: verso i quali, viceversa, non manifesta altro che la più viva ripugnanza ed il più acre e sguaiato disprezzo. Lutero non conosce la pietà, perché, da tedesco, non chiede e non si aspetta misericordia: probabilmente fu lui stesso il primo a meravigliarsi di non esser finito sul rogo, quand’era in potere dell’imperatore Carlo V; da parte sua, non avrebbe mai commesso un simile "errore" nei confronti dei suoi nemici.

Forse l’opera di Lutero era inevitabile, o, quanto meno, necessaria, per realizzare pienamente la fusione tra cristianesimo e germanesimo, che, in quasi mille anni, non era stata ancora completata. È impossibile immaginare un Lutero italiano, spagnolo, francese (lo stesso Calvino è più fine, più ponderato, anche se non meno inesorabile davanti ai nemici): la Germania, che si era cristianizzata solo superficialmente, aveva bisogno di un uomo come Lutero, che la cristianizzasse a fondo, e sia pure al prezzo di germanizzare Cristo. Le differenze teologiche fra cattolicesimo e protestantesimo sono la conseguenza delle differenze culturali e spirituali fra mondo latino e mondo tedesco: una rivolta "antropologica" dell’uomo del Nord contro la civiltà del Mediterraneo (che era, in quel momento, la civiltà del Rinascimento) si è vestita di pretesti religiosi, mediante un frate agostiniano.

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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