
Shakespeare vorrebbe placare la tempesta, esorcizzare i demoni che insidiano la «harmony»
30 Luglio 2015
Ma un capo non deve mettersi in salvo per primo, mai, per nessuna cosa al mondo
30 Luglio 2015La dottrina cattolica del Peccato originale è stata "inventata" da san Paolo e da altri teologi e padri della Chiesa al solo scopo di salvaguardare la perfetta santità di Dio, non potendo spiegarsi in altro modo l’irresistibile forza del male e la sconvolgente realtà del peccato?
Il teologo Sergio Quinzio (Alassio, 1927 — Roma, 1996) è stato un teorico della "sconfitta di Dio": nella sua vasta opera esegetica e speculativa, infatti, egli sostiene, in estrema sintesi, che Dio, già per il solo fatto della creazione, si è posto in una condizione di "impotenza", perché tale creazione, oltre ad essere "altro" da lui, aveva la possibilità, come di fatto avvenne in Adamo ed Eva, la possibilità di rifiutare il suo piano amorevole e di disobbedire alle sue prescrizioni; da ciò l’irrompere del male nel mondo, male che Dio, non potendo evitarlo, pur vedendolo perfettamente e, anzi, avendolo previsto, si trova a subire controvoglia. In ciò consisterebbe il suo scacco, la sua sconfitta; e da ciò sarebbe sorta, secondo lui, la necessità di "coprire" la sua sconfitta, o almeno di assolverlo dalla responsabilità tremenda del male presente nel mondo, "inventando", a carico dell’uomo, la dottrina del Peccato originale.
Ma siamo sicuri che tale dottrina sorga unicamente da ragioni estrinseche alla riflessione sulla natura umana, che nasca soltanto da preoccupazioni — intellettualmente disoneste, perché deliberatamente disconoscenti la verità — di tipo teologico? Andiamoci piano. Lo scrittore e filosofo colombiano Nicolás Gómez Dávila (1913-1994), per esempio, era persuaso che l’intera umanità si può dividere in due categorie: quella di coloro che credono al peccato originale, e — diceva argutamente, ma in perfetta serietà – «quella degli sciocchi». E come lui la pensavano e la pensano fior fiore di teologi e di filosofi che, nell’arco di duemila anni, si sono affannati intorno al problema del male morale.
Perché di questo si tratta: non del male fisico, frutto — evidentemente — della imperfezione di ogni cosa contingente; ma del male morale, quello causato dalla libera volontà dell’uomo stesso. Perché, se l’uomo non è libero, non sarebbe giusto addebitargli il male che fa, e neppure lodarlo per il bene che compie: sarebbe solo un povero burattino in balìa del primo soffio di vento che tira. Questa è precisamente la visione di Lutero, il quale, estremizzando le testi agostiniane contro il cosiddetto ottimismo pelagiano — Pelagio, appunto, negava la trasmissione universale del peccato di Adamo ed Evo -, riteneva che l’intera umanità altro non fosse che una miserabile massa di peccatori destinati alle fiamme dell’Inferno. Più coerente di Lutero, Calvino insisteva sul fatto che Dio ci ha predestinati alla salvezza (pochi) o alla dannazione (i più), nel suo imperscrutabile giudizio, e che né la fede, né le opere, di per se stesse, ci possono salvare: se ci salviamo oppure no, non è in alcun modo cosa che dipenda da noi, ma unicamente dal libero volere di Dio.
Ma torniamo alla teoria che vede nella dottrina del Peccato originale un "escamotage" per salvare la purezza e la "giustizia" di Dio, in un mondo così palesemente funestato dalle conseguenze del male morale; e, più precisamente, ritorniamo alla tesi centrale di Quinzio — un teologo che, quando parlava di Dio, lo faceva con quella disinvoltura, con quella sicurezza che un naturalista, ma anch’egli a torto, ostenta talvolta quando si parla della natura: come di cosa, cioè, i cui segreti, pur se non interamente svelati, sono destinati ad esserlo, perché egli ne comprende il meccanismo; e che non mostrava quella umiltà, quella pensosità, quel senso del limite che dovrebbe essere il naturale abito mentale di colui che tenta di gettare lo sguardo su abissi così smisurati, e senza il quale si è simili alla formica che, giunta in cima al sasso, pensa d’aver conquistato la sommità del mondo.
Riportiamo alcuni passaggi essenziali del percorso speculativo che porta Sergio Quinzio, attraverso una puntuale, ma assai soggettiva lettura esegetica della Lettera ai Romani, a decidere per l’artificiosità della dottrina cattolica sul Peccato originale, limitandoci a espungere, per brevità, i numerosi riferimenti testuali alla Bibbia, coi quali l’autore appoggia le proprie tesi (da: S. Quinzio, «Un commento alla Bibbia», vol. IV, Milano, Adelphi, 1976, pp. 17-23):
«…Se l’uomo è impotente a fare il bene, allora il male che non può non fare gli è connaturato come l’Antico Testamento più volte ripete […] deriva cioè in definitiva da Dio,che ha creato l’uomo così com’è. Il monoteismo coerente, che senza introdurre surrettiziamente criteri diversi pone l’origine di ogni cosa e di ogni possibilità in Dio […], non può non coinvolgere Dio nel mondo e nel male del mondo. Colui che, potendo comunque impedirlo, permette che si compia il male, come potrebbe non portarne la responsabilità? Perciò la morte espiatrice di Dio [..] è uno sviluppo paradossalmente coerente del monoteismo. La dottrina del Peccato originale è appena un esile schermo tra il peccato che ogni uomo non può non compiere […] e l’attribuzione della responsabilità del peccato a Dio. È una mediazione che devotamente attutisce l’urto scandaloso, ma che in realtà non scalfisce la terribile verità. […] Se il peccato è "entrato nel mondo" passando "attraverso" Adamo [come dice san Paolo], da dove proveniva? La malizia tentatrice del serpente non è forse un male che sta prima del peccato dell’uomo? Come la ‘legge naturale’ inscritta nella coscienza di ciascuno, così il ‘peccato originale’ — pur essendo in effetti una cancellazione o quasi cancellazione di tale inscrizione — dichiara l’attribuzione della colpa all’uomo, a ogni uomo per il fatto di essere uomo. Entrambe le ‘dottrine’ — sebbene contraddittorie o quasi contraddittorie tra loro – esprimono un’unica cosa: che l’uomo è colpevole, malgrado l’unicità di Dio che, padrone e signore di tutto, "fa la pace e crea la disgrazia"[…]. Non sono ‘dottrine’ che ‘spiegano’ come e perché l’uomo sia colpevole; o, piuttosto, lo sono nel senso che tentano di coprire lo scandalo inaudito che è, di fronte alla perfezione di Dio dal quale tutto promana, il male. […] L’antica sapienza degli scribi copriva lo scandalo del male proclamando la stretta giustizia dell’espiazione, senza fare del ‘peccato originale’una dottrina. Anche la sapienza del nuovo ordine sacro incipiente deve tentare di coprire lo scandalo del male. Ma ormai con l’allargamento dell’orizzonte ai pagani la visione del male si dilata fino ad abbracciare in unico terrificante spettacolo l’idolatria dello sterminato mondo e Israele che spinge sulla croce il Signore: ciò obbliga a porre all’inizio di questa catena, che più spaventosamente è vista affondare nella maledizione della morte, anziché la giustizia di Dio, il "mistero dell’iniquità"[…]. L’orrore è troppo grande, e ogni sospetto deve essere allontanato da Dio. La responsabilità dev’essere addossata a priori esclusivamente all’uomo. , a ogni uomo indipendentemente dal fatto che abbia commesso azioni malvagie: dall’istante in cui esce dal ventre materno e per sempre, qualunque cosa faccia o non faccia, l’uomo è peccatore e quindi condannato. Ma bisogna capire che questa affermazione non è pacificamente accettabile, che è anzi mostruosa. Parlare qui di ‘libero arbitrio’ e di ‘libertà umana’ (come anche dire che il male ‘ontologicamente’ non è) significa appellarsi vanamente a categorie estranee e inconciliabili, non solo completamente inadeguate ma infinitamente sorde. L’abissale vicenda che coinvolge con tutti gli uomini e tutta la creazione lo stesso Dio onnipotente fino a trascinarlo nella morte, come potrebbe lasciar sussistere intatta la libera e consapevole scelta di un debole vivente costretto a fare "il male che non vuole" […]? Quello che il mondo ha interpretato oggi come condizionamento ‘biologico’, ‘psicologico’, ‘sociale’, non è che la descrizione dei modi attraverso i quali si manifesta la disperata condizione nella quale sono stretti e lottano tutti i viventi. La volontà dell’uomo vuole ciò che può e non ciò che vuole, e se davvero esistesse nell’uomo una capacità di vincere la sua miseria per scegliere di fare il bene, allora come dice Lutero la sua volontà, che è in lui ciò che è più altamente umano, non avrebbe bisogno di nessuna redenzione. Ma già Adamo, come avrebbe potuto avere una piena capacità di scegliere il bene, se non conosceva neppure la distinzione tra bene e male? In realtà la miseria dell’uomo precede la colpa, così come (e ne è una conseguenza) il perdono precede il pentimento […]. La libertà non è la condizione ‘naturale’ ma il dono escatologico,m la cui primizia è nella speranza, che rende l’uomo partecipe della libertà divina: le Scritture — come del resto anche i testi di Qmran che affonda no le radici nella stessa terra — non conoscono altra libertà che la liberazione dalla sofferenza e dalla morte, la salvezza data da Dio […] Mentre lungo la storia del mondo la libertà dell’uomo contenuta nella sua embrionale "somiglianza" con Dio […] non può far altro che restringersi sempre più, fino a dissolversi nell’indifferente indecidibilità dell’attuale orizzonte pluralistico. Salvaguardata con la dottrina del ‘peccato originale’ la perfetta santità di Dio mediante la postulazione della colpa di ogni uomo, antecedente a ogni sua volontà o intenzione, il discorso svolto poi da Paolo è tutto condotto in modo tale da implicare che sia non l’uomo ma proprio Dio — il Dio che aveva indurito il cuore di Faraone[…] — a causare il male. […]
Mostrando questo abisso nel quale è precipitata l’intera opera di Dio, fino a capovolgere le primitive intenzioni divine, la Lettera ai Romani ha faticosamente e rischiosamente aperto la strada all’annuncio della salvezza in Gesù Cristo, salvezza tanto più grande e necessaria quanto più infimo è il luogo nel quale l’opera di Dio è caduta […] Le stesse dolorose contraddizioni che attraversano come un fremito il discorso paolino vanno paradossalmente a confermare l’urgenza e la radicalità assolute della salvezza necessaria, in quanto salvezza dall’assurdità più mostruosa. La salvezza in Gesù Cristo è l’unica, estrema risposta all’unico orrore che ha portato al moltiplicarsi della maledizione e della morte attraverso i millenni e i popoli, fino alla crocifissione di Dio…»
Troppo lungo sarebbe soffermarsi ad analizzare, uno per uno, gli anelli della catena che formano il ragionamento di Sergio Quinzio; ci limiteremo pertanto a coglierne due, per poi soffermarci sulle sue conclusioni di ordine generale.
Primo: egli afferma che «a volontà dell’uomo vuole ciò che può e non ciò che vuole», e qui sembra proprio che non stia citando questo o quel passo delle Scritture, ma stia formulando una propria conclusione personale: ebbene, chi lo dice? Chi è in grado di affermare che la volontà umana "vuole" ciò che può e non ciò che "vuole"? Non è questa una contraddizione in termini, proprio di ordine logico? La volontà, se è veramente tale, è la capacità di orientare le forze dell’anima verso un determinato obiettivo: se vuole qualcosa, indipendentemente dal fatto che sia in grado di realizzarlo, già è confermata in se stessa, cioè nella propria natura volitiva. Ma se vuole qualcosa, allora significa che è libera: se non volesse nulla di determinato, o se fosse costretta a volere qualcosa, piuttosto che qualcos’altro, allora si potrebbe dire che non è libera, e dunque che non è tale, che non è "volontà". Ora, Quinzio ha ammesso che la volontà "vuole" qualcosa; solo, vede — con san Paolo- che non è capace di metterlo in pratica, cioè che non è in capace di mettere in pratica il bene che desidera; ma questo non ci autorizza affatto a negare che ella sia, e che essa sia libera. La libertà del volere non è la stessa cosa della libertà dell’agire: io posso volere una certa cosa, ma non essere capace di farla.
Secondo: Quinzio si chiede, a proposito di Adamo e del suo peccato, «come avrebbe potuto avere una piena capacità di scegliere il bene, se non conosceva neppure la distinzione tra bene e male»; e ne conclude che «in realtà, la miseria dell’uomo precede la colpa», e non viceversa, come affermano, invece, le Scritture. Ma è proprio così? Eppure il racconto biblico, nella sua apparente semplicità, è chiarissimo: Dio non spiegò affatto ad Adamo perché non avrebbe dovuto mangiare i frutti dell’Albero della conoscenza del bene e del male; gli raccomandò semplicemente di non farlo, lasciandolo libero di gustare qualunque altro frutto del Guardino dell’Eden. Dunque, il peccato di Adamo non consistette nella scelta deliberata di un male specifico, ma nella disobbedienza al comando di Dio, comando che aveva la sua ragion d’essere nella fragilità dell’uomo e nella sua incapacità di decidere da se stesso che cosa sia bene e che cosa sia male. Adamo, infatti, non doveva decidere fra il bene e il male: doveva, molto più semplicemente, astenersi dall’assumere, con le sue sole forze, una tale decisione, appunto perché non era capace di farlo. Ed ecco che anche il comando di Dio perde quel carattere di minacciosa proibizione, con un sapore quasi di gelosia (gelosia che sarebbe assurda, se si pensa che Dio ha creato liberamente l’uomo a sua immagine e, quindi, capace di rifiutarlo) per assumere un carattere molto più dolce e paterno, anzi quasi materno: il tentativo di proteggere Adamo da un pericolo più grande di lui, e che egli è del tutto incapace di valutare nella sua estrema gravità.
Fonte dell'immagine in evidenza: Immagine di pubblico dominio (Raffaello)