
Come la cultura femminista ha introdotto ovunque la velenosa cultura del sospetto
30 Luglio 2015
Sfogliando un vecchio libro di “archeologia scientifica”
30 Luglio 2015Si deve a Ernst Jünger non solo il più ambizioso e completo tentativo di razionalizzare e trasfigurare in senso progressivo l’esperienza della Prima guerra mondiale, per cui milioni di uomini furono gettati nell’orrore delle trincee e delle battaglie di logoramento per circa quattro anni e mezzo, e ciò quando le filosofie ottimistiche dell’Occidente celebravano il fatale cammino dell’umanità verso un mondo sempre più prospero e pacifico, grazie ai prodigi della scienza e della tecnica; ma anche uno degli sforzi più meditati e generosi per cogliere il senso della civiltà della macchina e per offrire agli uomini una estrema possibilità di riprenderne il controllo, o, in alternativa di mettersi in sintonia con esso, cioè di condividerne il destino.
Jünger vede la guerra mondiale come l’ultimo approdo della civiltà della tecnica, e le battaglie che l’hanno caratterizzata, vale a dire soprattutto battaglie di logoramento e di materiali, come lo sbocco crudele e ineluttabile di quella civiltà. D’altra parte, egli sente che proprio quel nuovo tipo di guerra, che proprio quelle forze spirituali che essa coinvolge e mobilita, sia consce sia, soprattutto, inconsce, interpella il nostro essere più profondo e ci costringe a interrogarci con più serietà e intensità sul significato che ancora rimane aperto alla libertà dell’azione umana, sul campo di manovra che ancora rimane impregiudicato per il nostro pensare e, più ancora, per il nostro agire
La concezione vitalistica che caratterizza le filosofie anti-postivistiche di fine Ottocento e del primo Novecento, dal superomismo nietzschiano allo slancio vitale bergsoniano, si incontrano e si sposano, nella visione di Jünger, con lo stesso ottimismo positivistico, con la fiducia nel progresso affidato alle macchine — che è anche si badi, un tratto distintivo del marxismo -, e, cosa non meno importante, con l’insofferenza e lo spirito di rivolta nei confronti del "filisteismo" borghese, con tutti quei modi di sentire, di pensare e di vivere che si appagano del qui ed ora e che non sentono l’anelito verso l’assoluto, la spinta verso il superamento.
Sono istanze piuttosto confuse, come si vede, anche se indubbiamente generose, alle quali manca una solida e coerente base spirituale, appunto perché ritengono esaurito il ruolo della tradizione e partono dall’assunto che l’orizzonte di senso dell’uomo contemporaneo deve essere interamene ricostruito a partire da nuovi valori e soprattutto, da nuove esperienze: prima e più importante di tutte, l’esperienza capitale e rivelatrice della guerra.
Per Jünger, l’esperienza della guerra in prima linea, della trincea, degli assalti contro i reticolati e le mitragliatrici nemiche, è stata qualche cosa di molto simile alla scoperta del cielo da parte del principe Andrej Bolkonskij, in «Guerra e pace» di Tolstoj, di "quel" cielo, così azzurro e limpido, con la sfera enorme del Sole, che improvvisamente gli fa apparire così piccole e vacue, così insignificanti, tutte le cose e le preoccupazioni ordinarie: vale a dire un’esperienza mistica, a-temporale, assoluta, dopo la quale la vita non appare e non è più la stessa cosa di prima, è diventata qualche cosa d’altro, di profondamente mutato. Si sono spalancate nuove prospettive si sono aperti nuovi interrogativi, che mettono in questione, con una urgenza e una impazienza mai prima neppure immaginate, il senso complessivo dell’esser-ci, tutto quello che, sino a ieri, appariva relativamente chiaro o, quanto meno, suscettibile di spiegazione.
Razionalismo e irrazionalismo, pragmatismo e misticismo, libertà e destino, caso e necessità si interrogano a vicenda nella sintesi audace che Jünger, novello apprendista stregone, tenta di elementi alchemici contrastanti e apparentemente inconciliabili: impavido, cinico e un po’ folle, egli non esita a imboccare un sentiero proibito, non mai tentato da alcuno, alla fine del quale spera di trovare, dopo avere affrontato e sconfitto il drago che ne custodisce l’accesso, la ritrovata unità e coesione dell’io, la riunificazione armoniosa delle membra sparse dell’esistenza, della conoscenza, del sapere, di tutto ciò che la marcia inesorabile della tecnica ha frantumato, diviso, polverizzato, disperso, mescolato e reso incomprensibile.
Novello Edipo, Jünger affronta la Sfinge della guerra e, invece di rispondere alle sue domande, le pone le proprie, che si possono riassumere in questa: esiste la maniera di far sì che il finalismo e la volontarietà dell’esistenza si incontrino e si compenetrino l’uno nell’altra, in modo che l’uomo, rudemente spossessato del proprio destino, del proprio senso, della propria anima, possa tornare a guardare il mondo – e se stesso — con occhio pacificato, con sguardo francio e sicuro, con una rinnovata consapevolezza dei suoi compiti e dei suoi doveri, ma anche di ciò che può attendersi, che può sperare, che può desiderare nella vita?
È un tentativo supremo, quello di Jünger, di riconquistare il senso complessivo dell’esistere; di ritrovare la strada smarrita dalla civiltà occidentale nel dedalo della tecnica e nei labirinti tenebrosi dell’inconscio, i cui fantasmi chiedono d’essere esorcizzati; di riprendere il controllo di una società impazzita, pronta ed evocare, da un momento all’altra, gli orribili demoni della distruzione totale, in una misura quale mai l’umanità aveva conosciuto, perfino nelle epoche più buie del passato. Una rivoluzione conservatrice: perché non si tratta di distruggere per creare un ordine nuovo, ma di ripristinare l’umanità nei suoi diritti, restaurando un complessivo orizzonte di senso, in condizioni, tuttavia, radicalmente mutate, e dunque tenendo conto che un semplice regresso ai tempi passati è impossibile e, inoltre, sarebbe assurdo ed ingiusto, perché equivarrebbe a vanificare il sacrificio dei camerati morti in battaglia.
Proprio qui risiede la folle pretesa del filisteo borghese: nel pesare che gli uomini, dopo la tremenda esperienza della guerra di trincea, possano tornare alle loro case, alle loro fabbriche, ai loro uffici, come se niente fosse stato; che riprendano i loro mestieri e le loro professioni, come facevano prima; che rientrino in seno alle loro famiglie, o che se ne creino di nuove, dimenticando ciò che quei quattro anni e mezzo hanno rappresentato, quanto li abbiano segnati nel profondo, fino a che punto li abbiano irrevocabilmente trasformato. Chi ha vissuto quella esperienza, non potrà mai più guardare al mondo, alla vita, a se stesso, con lo stesso sguardo di prima; non potrà mai più essere lo stesso uomo che era, o che credeva di essere: perché essa gli ha aperto una nuova, sconvolgente prospettiva, gli ha rivelato una nascosta, inaudita verità. E dunque è necessario, è doveroso, anche per il rispetto dovuto ai compagni seppelliti nel corso di quella sistematica carneficina, fare in modo che tutto ciò non scompaia nel nulla, che rappresenti qualcosa per il domani.
Il cameratismo, infatti — verso i vivi e verso i morti -, è la grande novità creata dalla guerra mondiale: alla disumanizzazione di una guerra tecnologica, dove vince chi possiede un sistema industriale più potente del nemico e dove la stessa strategia militare, con le sue regole, viene piegata alla logica della produzione e della pianificazione industriale, si sono offerte al combattente nuove e insperate possibilità di socializzazione, di solidarietà, di fusione con i propri simili in un disegno comune e in un comune destino, cementato dal ferro e dal sangue. Il combattente, dunque, è il nuovo operaio; anzi, è l’operaio che ha dismesso la tuta della fabbrica per indossare l’uniforme dell’esercito, e che getta le basi per un nuovo tipo di società, che non annienti, ma preservi quel che di meglio la civiltà occidentale ha prodotto nella sua evoluzione storica, sposando le due grandi forze che ne sono divenute protagoniste: la tecnica e il mistero.
Ha osservato in proposito Ferruccio Masini, uno dei massimi germanisti italiani, nel suo libro «Gli schiavi di Efesto» (Roma, Editori Riuniti, 1981; Pordenone, Ed. Studio Tesi, 1990, pp. 179-181):
«Sguardo stereoscopico significa regressione all’elementare: è questo il senso ultimo della stessa ottica della guerra e della "mobilitazione totale". La prima guerra mondiale, come liquidazione del’antico spirito cavalleresco, e codice d’onore e quindi come superamento della stessa ideologia del "Kriegserlebnis" (propria del "Soldatischer Nationalismus", si espone alla cruda anonimità delle "battaglie di materiali" che vengono pertanto trasvalutate nella loro determinatezza empirica. A questo passaggio va collegata la crisi del nazionalismo borghese, quale ancora affiora nella prima stesura di "Im Stahlgewittern" e nel "Wäldchen 125", in nome di un "nazionalismo rivoluzionario" a cui si dischiudono le prospettive di un sovvertimento mondiale. La guerra viene pertanto "contemplata" come arena di lotta di potenze elementari: si esprime in essa lo scatenamento del "Polemos", vale a dire di quell’evento metafisico a cui è tolta ogni predeterminazione teleologica. La regressione afinalistica è propria dello sguardi stereoscopico , nel senso che è questo stesso a produrla, allontanando l’evento della guerra in quella "quarta dimensione" del tempo vissuto in cui ebbrezza e cognizione magica coincidono. "È il mio orgoglio segreto — scriveva Jünger in "Das Abenteuerliche Herz" – aver colto dietro la matematica delle battaglie il sogno splendido in cui la vita si precipitava, allorché troppo era divenuto per essa il tedio della luce. Per questo sono riuscito a strappare la guerra dai denti dei piccolo-borghesi, cosa non facile in un tempo di coscrizione generale obbligatoria, e per la quale parecchi ragazzi gagliardi mi hanno espresso la loro gratitudine."
La guerra si presenta così come una via d’accesso alla "Tiefe" ["profondità"], a quella religione costituita da misteriosi e non finalistici fondamenti su cui si muove la vita: sta qui la radice senza senso e del non-senso, propria dello stelo rizomatico. La tecnica stessa, agente come protagonista delle "Materialschlachten", non costituisce, per altro verso, che la riconferma di quell’assenza di funzioni in cui s’innerva l’eventi della guerra: l’iperfunzionalità della macchina risulta così destinata a un corpo senza funzioni.
Il ponte tra tecnica e mistero è così gettato: la "verità" del sangue sta nel suo configurarsi come rivendicazione di un possesso elementare: "Il sangue deve impadronirsi della vita, delle sue estrinsecazioni e forme sino alla forma onnicomprensiva dello Stato. Deve prendere possesso delle macchine, poiché soltanto in questo modo questo lavoro monotono, finalizzati e incessante acquista il suo compito superiore, la sua variopinta pienezza e il suo senso più profondo. Il "sangue", come tramite di un’appropriazione che è conoscenza potenziata, ri-conoscimento, consanguineità magica, costituisce il "fondo" della regressione: "Con l’occhio noi vediamo, con le orecchie [sic] udiamo, con le mani palpiamo, con il cervello riceviamo pensieri altrui, ma se tutto questo è per noi solo materia morta o se invece sta con noi in una relazione vitale, questo lo decide il sangue. Con i nervi e i sensi percepiamo ciò che è; con il sangue si disvela a noi quel che vi sta nascosto. Con i sensi conosciamo, con il sangue riconosciamo. Con il sangue ci sentiamo consanguinei."
Nello Jünger degli anni Venti il sangue diventa la categoria centrale di una filosofia della vita dal timbro nettamente decisioni stico e quindi orientata nel senso di una "rivoluzione conservatrice" proiettata sul terreno del mito politico. Non a caso è questa categoria ad articolare i temi del sacrificio eroico, dell’autoannullamento nella "comunità del fronte", nel cameratismo cementato in trincea: sarà dal sangue che si verrà costruendo lo stesso modello della "Volksgemeinschaft" prenazista e nazista. Ma il sangue è per Jünger anche la possibilità offerta dall’"altro" sguardo per destrutturare le gerarchie dell’intelletto e abbattere la supremazia dell’edificio razionale. Alla consapevolezza fattuale e normativa del "telos" si sostituisce così la sospensione di ogni autonomo progetto umano nella "costrizione originaria del desino". Si tratta di isolare i uno spazio magico la perentoria necessità di un "potere" che non può dare ragione di sé perché precede ogni ragione. Nell’ordine dell’immaginale regressivo questo potere è espresso dal sangue. "Il sangue canta, per così dire, il canto del destino. La costrizione originaria per cui questo canto erompe è per noi inafferrabile.[…] Ogni sistema, ogni dottrina, con cui noi articoliamo il mondo, cerca di renderlo afferrabile e possibile. Quel mondo presagisce un destino, ma non lo chiarisce e non sa per quale ragione esso sia Necessario. Quanto più qualcosa è carica di destino, tanto meno penetra le sue ragioni, tanto maggiore è la riluttanza con cui si dispone alla discussione.»
Il tentativo alchemico, stregonesco di Jünger, di gettare un ponte fra tecnica e mistero, equivale al tentativo di conciliare e armonizzare gli elementi contrastanti della civiltà moderna, il nuovo e l’antico, che, sino ad ora, hanno creato sofferenza, lacerazione, isolamento; di gettare un ponte fra uomo e uomo, fra conscio e inconscio, fra natura e cultura, fra civiltà e barbarie.
Un tentativo coraggioso, audace e, sicuramente, generoso; ma anche un tentativo estremamente velleitario, perché privo di solide basi spirituali — Jünger avrebbe replicato che proprio questo era il problema — e perché, inoltre, viziato da una estemporanea tentazione estetizzante, del tutto stonata e fuor di luogo, che gli derivava dalla obiettiva contiguità con le avanguardie artistiche specialmente al futurismo e alla sua esaltazione della guerra come fatto estetico — e da una intima parentela con la volontà di potenza nietzschiana e con la attitudine, propria di Zarathustra, a trasformare il mondo della morte di Dio in uno spettacolo di pura contemplazione estetica, in un tramonto fiammeggiante che facesse da sfondo all’avvento dei nuovi dei.
Ma questi nuovi dei, per Jünger, stentano ad affermarsi, e del resto è difficile riconoscerli: non si capisce che cosa vogliano dal’uomo, non si capisce se essi abbiano ancora bisogno dell’uomo, e se l’uomo abbia realmente bisogno di loro. Alla fine, egli giunge a identificarli con i mostruosi Titani, che tentano, ancora una volta, di dare l’assalto all’Olimpo: lotta cosmica e sconvolgente, della quale l’uomo finisce per essere semplice spettatore e futura vittima, e rispetto alla quale, in ultima analisi, non gli rimane altra strada che quella del brigante anarchico, dello corridore dei boschi, solitario e autosufficiente, pronto a tutto, come un animale braccato dai cacciatori e quindi sempre all’erta, sempre con tutti i sensi desti per far perdere le sue tracce, per confondere gl’indizi che potrebbero condurre fino a lui.
L’uomo, per Jünger, sia nella veste del "soldato", sia in quella dell’"operaio" – o meglio, sia dell’"operaio-soldato", sia dell’"operaio-tecnico" — non possiede risorse sufficienti per opporsi frontalmente al progresso disumano delle forze demoniache evocate alla tecnica, per contrastare la scalata all’Olimpo dei Titani,: tanto più che non ha altri dei nei quali riporre la sua fede e dai quali attendersi aiuto e significato. L’uomo, comunque, non è soltanto quello che attualmente ed effettivamente è — come vorrebbe ogni forma di pragmatismo e di realismo — ma anche e soprattutto ciò che può essere, ciò che potrebbe diventare — e qui, senza dubbio, il filosofo-scrittore è in linea con le tendenze spiritualistiche che, per reazione all’Illuminismo e al Positivismo, si sono diffuse in Europa e hanno difeso, contro la potenza cieca della macchina e del sistema industriale, il senso profondo del mistero.
Il sogno di Jünger è, forse, quello di un uomo che faccia propria la potenza della macchina, ma che conservi via, in se stesso, l’attrazione verso il mistero: un uomo post-umano, proprio come lo auspicava Zarathustra, reso più forte dalle prove tremende che ha dovuto affrontare e divenuto capace di conferire un senso all’assurdo, un significato all’incomprensibile. Un uomo trasfigurato, se non pacificato, che unisca in sé gli estremi opposti del caso e del destino, della razionalità e dell’inconscio, dell’attitudine scientifica e di quella magica. Un uomo divenuto duro come il ferro e agile come la pantera, l’agguerrito abitante di un mondo senza Dio, che porta ancora, in se stesso, la struggente nostalgia delle altezze.
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