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30 Luglio 2015
La trasgressione è frutto della noia e partorisce l’abbrutimento dell’anima
30 Luglio 2015Ernst Bloch, o i contorsionismi di un pensatore marxista per conciliare l’inconciliabile

In che rapporto stanno il marxismo, ideologia politica che si è sempre autodefinita "scientifica", con l’utopia, categoria ideologica quanto mai vaga ed evanescente, da sempre guardata con sospetto misto a disprezzo da parte, appunto, dei pensatori marxisti ortodossi?
Se lo è domandato Ernst Bloch (1885-1977), intellettuale marxista della generazione "di mezzo", figlio dei duri e puri dell’età staliniana e padre degli eurocomunisti e dei marxisti eretici e un po’ scettici della terza, ed ultima, generazione: quella che fino all’ultimo ha tentato di rivitalizzare una ideologia (per fortuna) morente, da ultimo di rimettere insieme con ostinazione, con pervicacia, i cocci del crudele idolo andato in frantumi.
Il solo fatto che Bloch abbia tentato l’operazione di "sdoganare" l’utopia dal purgatorio marxista e di accreditarla come una forma di pensiero presentabile e rispettabile, anzi, addirittura come la cifra per comprendere la stessa ideologia marxista — operazione da lui svolta nel celebre saggio filosofico «Il principio speranza», apparso in tre volumi fra il 1954 e il 1959 — illustra in maniera eloquente, da un lato i contorsionismi cui era costretto chiunque volesse "aggiornare" il marxismo dopo il manifestarsi delle crepe, sempre più vistose, dell’edificio comunista — dai massacri di Kronstad, alle "grandi purghe" staliniane, al patto Hitler-Stalin, ai fatti di Budapest — e, dall’altro, la via obbligata che doveva imboccare un pensatore ateo militante che volesse salvare e giustificare, nondimeno, la fiducia marxista (ma di origine hegeliana) del "meglio" cui è diretta l’evoluzione storica, dopo aver leopardianamente affermato che non solo la storia umana, ma l’intera evoluzione cosmica non sono che un "esperimento fallito" e che il nulla sarà il suo inevitabile e insindacabile atto conclusivo.
Marx ha fede nell’avvento della società comunista: tanta fede quanta ne ha Hegel nella marcia trionfale della Ragione; tanta che, a ben guardare, non si capisce bene perché i lavoratori debbano prendersela così calda per fare la rivoluzione, visto che il comunismo sarà comunque l’esito inesorabile delle contraddizione intrinseche al sistema di produzione capitalista e la borghesia è destinata ad autodistruggersi. A che serve, dunque, la speranza, un concetto che, da sempre — secondo l’ottica marxista — preti e altri mistagoghi hanno sfruttato per esercitare un dominio politico e sociale sulle masse lavoratrici? E, inoltre, come giustificarla, in una prospettiva che prevede non solo il fallimento totale e inescusabile non solo dell’esperimento "uomo", ma anche dell’esperimento "mondo"? In altri termini: come far digerire ai compagni marxisti un principio così palesemente contro-rivoluzionario, così irrimediabilmente piccolo-borghese, individualista, narcisista e reazionario; e, nello stesso tempo, come persuaderli che di un principio "speranza" — ma, ben s’intende, diverso e opposto a quello dei preti e dei metafisici — v’è bisogno, proprio per fondare l’attesa messianica del paradiso marxista e, addirittura, per spiegare la stessa natura del marxismo, che non è solo "scientifica", ma anche — e qui l’ebreo Bloch s’incontra con l’ebreo Benjamin — chiamata a colmare quella che un critico ha definito «la terribile carenza di fantasia marxista», non senza influenze talmudiche e cabalistiche.
Era, insomma, un tentativo di conciliare il Diavolo dell’utopia, cioè della metafisica, con l’acqua santa (si fa per dire) del marxismo ortodosso: tentativo che incontrò le ire dei marxisti ortodossi — celebre la contestazione subita da Bloch a Lipsia, in occasione della sua ultima lezione pubblica nella Repubblica Popolare Tedesca, correva l’anno 1956 e le strade di Budapest stavano per tingersi di sangue — e che costrinse l’Autore ad abbandonare la cattedra e la "patria" socialista: gesto senza dubbio coerente e dignitoso, ma, nello stesso tempo, conferma lampante della insostenibilità teorica della sua posizione. Perché, bisogna pur dirlo – anche se questo discorso, senza dubbio, oggi non piace e non può piacere né a destra, né a sinistra — avevano pienamente ragione i suoi detrattori, a cominciare da R. O Gropp, allorché lo accusarono di aver frainteso la dialettica materialista di Marx.
Cosi Ernst Bloch si esprimeva, nel corso di una intervista concessa alla televisione francese, nel magio del 1974 (in: M. Bloch, "Marxismo e utopia", a cura di Virginio Marzocchi, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 97-100; titolo originale: "Tagtraume vom aufrechten Gang. Sechs Interviews", Suhrkamp Verlag, 1977):
«[…] In "Das Prinzip Hoffnung" allargai l’arco dell’utopico, di quell’utopico che viene speso equiparato in modo denigratorio al perdersi tra le nuvole, ai ‘dreams’, ai vuoti sogni. L’espressione: E’ una cosa utopica, è divenuta quasi un insulto. Come a dire: Va bene, non c’è bisogno di parlarne. O se se ne parla, lo si fa solo in tono polemico. L’altro concetto è la casa natale del’utopia, di quell’utopia che esiste fin dai tempi più antichi come utopia sociale, ovvero come sogno di una migliore società, di una società utopicamente sognata. Il che è esatto; anzi, costituisce una grande categoria, che però, allorché viene giustificata prendendo le mosse non solo da esigenze sociali, ma insieme dalla tecnica (in Bacon, dapprima, ma anche in Campanella, e di poi in Jules Verne), conservò, a prescindere da alcune eccezioni, un aspetto romanzesco, spassoso, divertente, da ‘science fiction’ di provenienza americana, ovvero mantenne la configurazione di utopia puramente tecnica. Tutto ciò non venne preso molto sul serio. Noi invece lo prendiamo sul serio. Nasce così un nuovo principio nella filosofia, ovvero la speranza. Di che si tratta? Si tratta della speranza non come affetto, in opposizione alla paura, bensì della speranza come atto cognitivo, come atto di conoscenza; della speranza non come concetto oppositivo, bensì alternativa: ricordo di ciò che è stato e speranza per il futuro, per ciò che sta per venire. Non in modo astratto, non necessariamente in modo astratto, così come il piccolo commerciante intende l’utopia e come essa, a ragione, venne intesa anche da Marx ed Engels in riferimento ai grandi utopisti sociali come Tommaso Moro, Campanella, nel XVI e XVII secolo, ai grandi francesi come Fourier, Saint-Simon e Etienne Cabet, ovvero ai grandi precursori del socialismo scientifico, secondo le parole di Engels. Essi, dunque, non sono soltanto degli almanaccanti sognatori, bensì primariamente utopisti ancora astratti, che non hanno considerato le condizioni di un’epoca, a causa delle quali, quando cioè i tempi non sono ancora maturi, ogni utopia è destinata a fallire e, fallendo, a sfociare nel suo contrario; così come accadde anche all’utopia della rivoluzione francese con la sua libertà, uguaglianza, fraternità’, ‘liberté, egalité, fraternité’, insieme alla grande immagine che le fu di guida, quella del ‘citoyen’. In luogo dell’immagine sognata, dell’utopica immagine del ‘citoyen’, divenne realtà l’altra figura, né grande né di sogno, del ‘bourgeois’, giacché non si erano considerate le condizioni mediante cui soltanto la prima poteva giungere a maturazione. Ma a questo punto, come anche nel libro, interviene una svolta: anche il marxismo è un’utopia, per la prima volta un’utopia concreta, ovvero un paradosso, un ‘ferro di legno’. A Lipsia provocai delle gran risate, quando dissi: ‘In tal modo il marxismo non è un’utopia, bensì il "novum" d’una concreta utopia’. Oltre a ciò il mio libro riflette su ciò che si agita in ogni uomo e soprattutto nella giovinezza d’ognuno, sui ‘dreams of a better life’, sogni d’una vita migliore, sui periodi di svolta, sui tempi di mutamento (dove qualcosa è nell’aria, dove l’aria è gravida di qualcosa), sui pericoli che contengono cioè le successive vittorie, come il rinascimento, lo Sturm und Drang, il primo e giovane romanticismo, su tutti i periodi di svolta: quelli del naturalismo, dell’espressionismo. Un po’ dovunque è presente un’alta percentuale di ciò che io ho chiamato il non-ancora-conscio, unitamente al suo correlato oggettivo-reale, il non-ancora-divenuto, il non-divenuto di cui è gravida la materia dell’essere. Esso si manifesta nella creatività, nella produzione di un "novum" che non è mai esistito e che di pio, improvvisamente, quando esso si impone, appare come ciò che è stato atteso da lungo tempo.Qui interviene, come ho già detto, un attento esame delle connessioni dell’utopia con l’ideologia, con l’ideale, con l’allegoria, col simbolo, e quindi l’ampliamento della categoria dell’utopico a tutti i settori, insieme al tentativo di una "enciclopedia degli umani desideri e sogni ad occhi aperti", a cominciare dall’infanzia e, a maggior ragione, dalla pubertà, i sogni sessuali, erotici: "Che cosa voglio diventare, che cosa mi attendo, che cosa mi attende?". Le categorie dell’attesa, le categorie del sogno diurno, le utopie sociali, ovvero la gigantesca casa madre costituita dalle utopie tecniche, insieme alle utopie geografiche, ai viaggi d’esplorazione verso un nuovo paese. Colombo salpò per ritrovare il paradiso perduto che avrebbe dovuto stare nelle Indie; cerca dunque la via di mare delle Indie e battezza poi gli aborigeni della terra da lui scoperta con il nome di indiani. L’India come paese di sogno, le cui vie di accesso ci sono precluse; ma i fiumi eterni scorrono ancora dal paradiso, trasportando con sé oro, gemme e la pietra della saggezza. Questo era ciò che cercava Colombo, se si presta fede al suo carteggio. Tutte le utopie geografiche che si erano date fino ad allora avevano mancato il loro scopo. […] Con la rivoluzione francese, con gli utopisti francesi, ovvero con Fourier, Saint-Simon e Cabet, l’utopia venne trasferita dalla lontananza dello spazio geografico nel futuro. Essa giungerà, forse, soltanto alla fine dei tempi. E qui subentrò di nuovo l’utopia religiosa, l’apocalisse. Alla fine dei giorni s’avanza la Gerusalemme celeste, ornata come una sposa; scompaiono sole e luna, cessano la morte e il peccato, è giunta la fine dei giorni; tutto è escatologico; l’attesa, che ora traluce anche nelle utopie puramente geografiche, si sposta nella lontananza del futuro; l’utopia non è più considerata come qualche cosa di già presente in qualche luogo. […].
[Da ultimo, compare nel libro di Bloch la più potente delle "contro utopie": la morte.] Con la morte ha termine la nostra vita:; ma anche l’intera umanità finirà d’esistere, quando interverrà l’entropia, cioè quando il sole e le stelle si raffredderanno e si leverà di nuovo l’antica caligine nebbiosa da cui è sorto questo intero carosello di pianeti, stelle e stelle fisse; così è tutto finito. A che cosa ci servono dunque le nostre utopie, a che cosa ci servono dunque le nostre culture, se tutto affonda nel "nihil", nel nulla, nel nichilismo? Anche contro di ciò esistono altre utopie, e tentate direzioni di marcia, che incontriamo sul fronte dell’umano, così come esistono frottole e favole e sogni in senso peggiorativo. [—]
["Il principio speranza"] termina con la categoria di patria, che è ciò che viene propriamente cercato: giungere in un mondo dove l’oggetto non è più affetto da qualcosa ad esso estraneo. L’ultima parola del libro è dunque: patria.»
La cosa che balza evidente da queste affermazioni è la dilatazione smisurata, abnorme, confusionaria del concetto di utopia, sino ad abbracciare praticamente qualunque forma di speranza, di aspettativa, di attesa. Oltre a ciò, risulta perfino imbarazzante la sciatteria con cui Bloch maneggia concetti filosofici quali "niente" e "nichilismo", adoperandoli come equivalenti; o l’ingenuità con cui si serve di concetti fisici e cosmologici, come l’entropia e il raffreddamento delle stelle, equiparandoli, biblicamente, alla "fine del mondo": come se il mondo fosse, «sic et simpliciter», quello che si vede e che si può studiare scientificamente; come se la realtà, in senso filosofico, non fosse altro che questo, il cosmo materiale e osservabile: e ciò non al termine di una discussione e di una serie di ragionamenti, ma così, come se fosse un dato di fatto di per sé evidente. Ce n’era abbastanza per scandalizzare i suoi compagni marxisti ortodossi; ma, diciamolo con franchezza, ce n’era e ce n’è d’avanzo per mostrare tutta la fragilità speculativa, tutta l’ambiguità concettuale del suo "principio di speranza", tirato fuori per i capelli là donde nulla di simile potrebbe mai uscire, in alcuna maniera, almeno fino a che si vogliano tener ferme, come Bloch mostra di voler fare, le premesse speculative non solo del marxismo, da del positivismo e dello scientismo a quello sottesi.
Interessante, infine, la comparsa del concetto di "patria", da parte di un pensatore che, in quanto marxista, dovrebbe odiare tutte le patrie in nome dell’internazionalismo. «Sì, ma egli parla della "patria" assoluta, una specie di Patria platonica, giacente nella dimensione dell’intellegibile e non in quella della realtà concreta». Sarà; ma a noi questa "patria" che salta fuori all’improvviso, come dal cilindro del prestigiatore, non risulta affatto chiara. E poi, come può un filosofo della "praxis" approdare all’Assoluto? Appunto: non vuole ammetterlo. Sarà per questo che non nomina l’Essere?
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