
«La città morta» di D’Annunzio è una tragedia mancata?
30 Luglio 2015
L’essere umano ha bisogno d’un senso, prima che di un semplice scopo
30 Luglio 2015L’arresto dei cavalieri templari, avvenuta per ordine di Filippo il Bello venerdì 13 ottobre 1307, insieme alla confisca del loro ingentissimo patrimonio; i processi che, per volontà del re di Francia, si susseguirono contro di essi negli anni seguenti, mentre il papa Clemente V, a lungo rimasto incerto,m finiva per unirsi alla persecuzione e ne scioglieva l’Ordine, nel 1312, con la bolla «Vox in Excelso»; infine la condanna al rogo e l”esecuzione dell’ultimo Gran Maestro, Jacques de Molay, a Parigi, sul’isola della Senna prospiciente la cattedrale di Notre Dame, il 13 marzo 1314: tutti questi traffici avvenimenti destarono un’impressione vivissima nel più grande e ricco regno della cristianità e anche nel resto d’Europa, tanto che non è esagerato affermare come essi indichino una linea di spartiacque fra il Medioevo ed il vero inizio dell’età moderna.
La cosa che suscitò la più grande impressione, e che giustamente è stata rilevata da Georges Bordonove (1920-2007), lo storico e romanziere francese, autore di una immensa produzione saggistica e narrativa, non fu tanto lo scandalo in sé e per sé, la macchia gettata su una istituzione ritenuta quanto di più vicino possibile al santo ideale del sacerdozio guerriero in difesa della religione di Cristo (la quale, probabilmente, già da tempo si era appannata agli occhi dei contemporanei, per le sue eccessive ricchezze e per le voci che la sospettavano d’eresia e di connivenza col nemico islamico), quanto per la crudele spregiudicatezza dell’azione regia e per l’altrettanto scandalosa arrendevolezza del pontefice nei confronti di quest’ultima. Entrambe le cose aprirono una voragine tra l’anima dei sudditi e dei fedeli da una parte, e dei loro sovrani temporali e spirituali, dall’altra.
Si videro infatti, in quella occasione, tutti gli sciagurati effetti che la dura lotta condotta da Filippo il Bello contro Bonifacio VIII, culminata nell’oltraggio di Anagni, avevano portato con sé, inizialmente non visti da tutti o non riconosciuti nella loro effettiva gravità: una diga era stata infranta, il comune sentire era stato offeso, e il popolo di Cristo aveva assistito, sconvolto, a un inaudito attacco da parte del re di Francia contro il vicario di Cristo in terra, lo aveva visto levare la sua mano contro di quello, e ne aveva ritratto l’impressione che un mondo intero, il proprio mondo, fosse giunto alla fine. Non esistevano più cose sante, né giuramenti, né buona fede, né lealtà e fedeltà alle più sacre istituzioni: ogni cosa era ridotta a una lotta selvaggia che aveva per posta il potere e il denaro (la campagna anticuriale era iniziata, infatti, per una questione di decime): ormai contavano solo la spregiudicatezza e la forza bruta.
Lo storico moderno non dovrebbe sottovalutare l’enormità delle conseguenze psicologiche e morali che quegli eventi ebbero sulla mentalità dell’uomo medievale. L’idea che la politica sia una cruda lotta di potere e che la religione altro non sia, tutto sommato, che un "instrumentum regni", è una idea tipicamente moderna: viene teorizzata da Machiavelli, e le vicende della stria moderna l’hanno confermata cento e cento volte. Il modi di vedere le cose medievale, invece, era ben diverso: la doppia matrice della cultura medievale, cristiana e feudale, improntava di senso etico tutta l’esistenza e investiva ogni aspetto della vita pubblica. Ciò non significa, naturalmente, che la società, nel suo complesso, fosse ascetica, tutt’altro; significa, però, che era largamente diffuso un profondo rispetto verso l’ascetismo, verso la spiritualità, verso l’attitudine contemplativa propria dell’orizzonte religioso. Se non si tiene presente questo fatto, non si può capire il Medioevo: né la sua storia, né la sua arte, né la sua filosofia; non si possono capire San Francesco, Santa Chiara, Santa Caterina da Siena, Ildegarda di Bingen, Metchild von Magdeburg; né Giotto, Dante, Tommaso d’Aquino, le cattedrali e la Scolastica; le corporazioni e la loro etica, il rifiuto della concorrenza, la proibizione della pubblicità; non si capiscono le Crociate, non si comprende il senso profondo della "Reconquista" iberica; né il monachesimo, né gli ordini mendicanti, né il pauperismo come ideale di vita cristiana, e neppure i movimenti ereticali. Non ci si rende ragione del culto mariano, o del delle reliquie, o della fede nell’efficacia delle indulgenze, o dei pellegrinaggi ai grandi santuari della cristianità; né delle cosiddette tregue di Dio, e nemmeno della radicata credenza nell’azione del Maligno e della paura nei confronti di streghe e stregoni; della pratica diffusa del digiuno, delle penitenze corporali, del bisogno di espiazione e di purificazione; dell’accettazione della morte fisica e del terrore della morte spirituale: la "morte secunda", che distrugge la vita soprannaturale donata all’anima dalla Grazia divina.
Il processo e la condanna a morte dei Templari, il marchio d’infamia gettato sopra il loro Ordine, il cinismo e la fredda crudeltà con cui Filippo il Bello li fece torturare e si affrettò ad incamerare i loro beni, tutto questo rappresenta veramente una cesura nella storia medievale; un qualcosa che non appartiene più allo spirito autentico del Medioevo, ma già prelude ai tempi moderni, spogliati di ogni idealismo e interamente sottomessi a una logica di tipo pratico e utilitaristico, una logica immanentistica, indifferente alla dimensione religiosa, al valore dei simboli, alla sacralità di certe istituzioni, non per quello che effettivamente sono, ma per quello che rappresentano, per l’aspirazione all’Eterno che ne giustifica l’esistenza e la missione, che ne scusa eventuali mancanze e ne assolve momentanee debolezze.
Ci piace, dunque, riportare le considerazioni svolte da Georges Bordonove a conclusione della sua ben nota e apprezzabile monografia su «Il rogo dei Templari» (titolo originale: «Les Templiers», Paris, Fayard, 1963; traduzione dal francese di Augusto Zugliani, Milano, Longanesi & C., 1973, pp. 232-233):
«Quando il crepuscolo giunge alla sua fine e il sole, a lungo sospeso sulla soglia dell’orizzonte, improvvisamente precipita per lasciar posto alla notte, uno spirito un po’ sensibile prova quasi sempre l’impressione della fine del mondo. Così accadde per la morte di Giacomo di Molay. Essa supera, e di molto, la sua persona, infinitamente degna di pietà. Essa non è solo una morte intensamente drammatica, il cui carattere grandioso ha trionfato sull’oblio dei secoli. Essa è un simbolo. Ancora di più. L’ultima espressione di quello che fu il vero medioevo, "enorme e delicato", come diceva Verlaine. Le conseguenze furono immense, incredibili!
Comportandosi come fece di fronte a un Ordine innocente, aggiungendo questo crimine innominabile a tanti altri, Filippo il Bello rompeva con una tradizione più volte secolare, e sminuiva il prestigio del re di Francia. Nessuno dei suoi successori, escluso Enrico IV (anche se questa eccezione è molto discutibile), beneficiò dell’amore di tutto il popolo francese: amore più spontaneo di quanto non dicano i manuali fiducia pressoché illimitata, tenerezza familiare, un po’ ironica talvolta, ma viva e generale, rispetto che scaturiva dal cuore, ben più che dalle labbra: il re era l’unto del Signore, un sacerdote militare e coronato, un padre benevolo, il protettore degli umili.
Se il re aveva perduto la stima dei suoi sudditi, lo stesso accadeva per il papa e i prelati. L’affare del Tempio introdusse negli spiriti il veleno del dubbio. Esso rivelò che un re poteva essere un personaggio spregevole, basso, odioso e cupido come qualsiasi altro uomo del suo tempo. Un papa, dei cardinali potevano tradire il Cristo per una manciata d’oro e le illusorie sicurezze di questa terra. Un Ordine come quello del Tempio non era tanto puro come si era creduto: infatti, nonostante i suoi martiri, e l’ultima protesta di Giacomo di Molay, la Chiesa non l’aveva assolto. Così, tutto ciò che si era amato e riverito, tutto ciò verso cui si osava appena alzare gli occhi, il papa, il re, i cavalieri-monaci e i prelati, non erano come li si pensava. Tutto sprofondava all’improvviso.
Una limpidezza di cuore, una semplicità di fede, una "gentilezza" di modi, una maniera di vivere e di concepire la vita andavano scomparendo. Sì, tutto sembrava finire per gli uomini di quel tempo. Le tradizioni, come le strutture multisecolari, si spaccavano. E questa agonia dell’anima porterà ben presto alle carestie, agli assassinii, alle desolate miserie della guerra dei Cento Anni. Perché si esca da questo nulla e da questa disperazione, bisognerà attendere la pastorella lorenese: che dei prelati giudicarono e consegnarono al carnefice, che un re con i suoi cavalieri in decadenza abbandonarono.
Sui quindicimila fratelli del Tempio, molti erano già morti nel 1314 o morirono negli anni seguenti nella muffa delle galere. Gli altri, i "riconciliati", furono ammessi negli Ospitalieri. Altri passarono i Pirenei e trovarono asilo nelle capitanerie spagnole e portoghesi. Altri ancora si rintanavano nel fondo di qualche torre familiare, perduta in mezzo al bosco, attendendo l’ora di ricomparire e di servire, prevedendo non si sa quale miracolo, per esempio, una partenza in massa per una nuova spedizione oltremare: ma anche lo spirito della Crociata era morto tra le fiamme della piccola isola della Senna! Altri cavalieri erano erranti, messi al bando dalla Chiesa e dalla società,e mancavano del necessario. Essi sopravvivevano tragicamente al mondo che avevano costruito non avendo potuto realizzare quello che sognavano…»
Le accuse che travolsero i Templari e che giustificarono la loro condanna potevano essere vere o false; alcuni le cedettero vere, almeno in parte, tanto più che molti cavalieri dell’Ordine confessarono i crimini loro addebitati (anche se possiamo ben sospettare che tali confessioni, rilasciate sotto la tortura, non dimostrano la loro colpevolezza): quel che è certo, i contemporanei ne rimasero sconvolti, e non meno turbata mento provocò in loro il modo di agire dei due massimi poteri, il potere regio e quello papale.
La concezione del mondo medievale è stata, fondamentalmente, una concezione incantata, pervasa dal senso del limite e dal senso del mistero, di cui la ricerca del santo Graal ne è il simbolo, forse, più eloquente, e pervasa di ansie profetiche e inquietudini millenaristiche, pienamente espresse, ad esempio, nella dantesca profezia del Veltro. Con la sconfitta e l’umiliazione di Bonifacio VIII da parte di Filippo il Bello e, poco dopo, con il processo e la distruzione dei Templari, quel mondo incantato incomincia a sbriciolarsi, investito da forze poderose, di natura economica e finanziaria, prima ancora che politica e sociale: è un cambio di paradigma, da cui esce in pezzi la figura del monaco che indossa le armi in difesa del Santo Sepolcro, sintesi di tutto ciò che la cultura medievale considerava degno di somma ammirazione: la fede e il valore guerriero. Tra poco, dopo la cattività avignonese, il popolo cristiano avrebbe assistito a un altro scandalo inconcepibile, lo Scisma d’Occidente, prima con due, indi con tre papi che si scomunicano a vicenda, che lottano indegnamente per sopraffarsi; e i vari regni d’Europa che si dividono e che, per ragioni puramente egoistiche, sostengono l’uno o altro dei contendenti. E la guerra dei Cento Anni, che oppone due di questi regni cristiani in una lotta rabbiosa, interminabile, nella quale gli arcieri, di estrazione popolare, umiliano nella polvere l’orgoglio della possente cavalleria feudale: anche quello è il segno di una svolta irreversibile. E, ancora, le carestie, le rivolte, e poi la peste, la terribile e implacabile peste nera, che, originaria dell’Asia, si abbatte sull’Europa e la strazia da un capo all’altro, portandosi via, in certe regioni, fino a un terzo della popolazione. E gl’infedeli, i Turchi ottomani, che, nella piana di Nicopoli, distruggono in una sola giornata il fior fiore della nobiltà feudale cristiana scesa in campo per affrontarli; e Costantinopoli, la capitale del millenario Impero Romano d’Oriente, che si trova stretta ormai da ogni parte, soffocata, isolata, pronta per la caduta finale.
Il secolo XIV è stato realmente un secolo tremendo, uno dei peggiori che il Vecchio Continente abbia mai conosciuto, come se i quattro cavalieri dell’Apocalisse vi si fossero dati appuntamento; ai contemporanei dovette sembrare, a un certo punto, che la fine del mondo fosse sul punto di arrivare, poiché gli uomini, nonostante tutti gli ammonimenti, non avevano voluto rimettersi sula retta via, non erano stati capaci di vivere nel timor di Dio, ma si erano abbandonati alle passioni più disordinate e avevano permesso che la superbia, la lussuria e la cupidigia si scatenassero in tutta la loro forza distruttiva. La tragedia dei Templari annuncia questo secolo fosco e brilla d’una luce corrusca, crepuscolare, su di un mondo in agonia. Come Dante aveva visto (XX, Purg.): «Veggio in Alagna intrar lo fiordaliso / e nel Vicario suo Cristo esser catto. / Veggiolo un’altra volta esser deriso; / veggio rinnovellar l’aceto e ‘l fiele, / e tra vivi ladroni esser anciso. / Veggio il novo Pilato sì crudele, / che ciò nol sazia, ma sanza decreto, / porta nel Tempio le cupide vele.»
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