Lorenzo Magalotti, il Nilo, la scienza e il mistero
29 Luglio 2015
Il cammino del dolore diviene un valore per chi sa trasformarlo in cammino d’amore
29 Luglio 2015
Lorenzo Magalotti, il Nilo, la scienza e il mistero
29 Luglio 2015
Il cammino del dolore diviene un valore per chi sa trasformarlo in cammino d’amore
29 Luglio 2015
Mostra tutto

Vogelsang auspica un corporativismo neo-feudale in funzione cattolica e anticapitalista

Non sono in moltissimi, oggi, a conoscere o ricordare il nome di Karl von Vogelsang (Liegnitz, 3 settembre 1818 — Vienna, 8 novembre 1890), giornalista e riformatore sociale tedesco che, in vita, fece parlare molto di sé, per venire poi rapidamente dimenticato, specialmente fuori dai Paesi di lingua tedesca, anche per il rapido mutare delle condizioni politiche, sociali e culturali che ha caratterizzato la storia d’Europa negli ultimi centocinquanta anni.

Eppure la sua è una figura importante e di estremo interesse: fu uno dei massimi rappresentanti del pensiero sociale cattolico in Germania e in Austria e, dunque, uno dei padri del cattolicesimo moderno, che raccolse in pieno la sfida della modernità e si adoperò per elaborare una risposta adeguata, sia sul piano teorico che su quello pratico, ai pressanti problemi da essa posti, primo fra tutti la questione sociale e la difficile, talvolta drammatica situazione economica in cui vennero a trovarsi le classi lavoratrici con il diffondersi della Rivoluzione industriale; problemi ai quali, negli stessi anni, una risposta totalmente diversa era offerta dal marxismo, in chiave rivoluzionaria e agitando la bandiera della lotta di classe permanente.

Più si esamina la sua opera, i suoi scritti, la sua infaticabile attività di uomo d’azione, più ci si rende conto che Vogelsang fu un gigante, in un’epoca di nani; la sua figura e la sua opera appaiono ancora più stupefacenti se si considera che, a quell’epoca, non esistevano ancora delle forze cattoliche politicamente organizzate in quanto tali, anzi, il mondo cattolico appariva più che mai diviso e confuso, davanti agli urgentissimi e incalzanti problemi posti dagli effetti dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione, del secolarismo e del laicismo dilaganti e se si considera che, oltre alla — chiamiamola così — "concorrenza" delle società operaie di ispirazione socialista ed anarchica, erano gli Stati stessi, i governi, a rendersi protagonisti di attacchi furiosi contro la Chiesa cattolica e contro qualsiasi forma di attività o propaganda che potesse emanare da quest’ultima, direttamente o indirettamente, verso la società civile, al di fuori della sfera strettamente spirituale. Anzi, perfino nei confronti dell’attività pastorale tradizionale i governi di fine Ottocento, tutti intesi a ricompattarsi e riorganizzarsi al loro interno in vista della grande competizione, economico-finanziaria e politico-militare, che si profilava all’ombra dell’imperialismo e del colonialismo di fine secolo.

Nel caso della Germania, fu subito dopo la guerra del 1870-71 e la proclamazione del Reich tedesco che Bismarck scatenò quella grande offensiva anticuriale e anticlericale passata alla storia come "Kulturkampf" (battaglia culturale o, propriamente, battaglia per la civiltà), additando i cattolici, in un Paese per due terzi protestante, come un nemico interno, quanto meno potenziale, cui bisognava spezzare le forze e distruggere le istituzioni mediante le quali potessero rimanere uniti e compatti di fronte allo Stato, alle sue pretese e alle sue decisioni. Era, insomma, la riedizione in chiave moderna del centralismo e dell’assolutismo di Luigi XIV, che vedeva nelle minoranze religiose dei nemici, reali o potenziali, rispetto all’unità dello Stato e alla sovranità del governo, contro i quali bisognava procedere con la massima durezza e decisione, per ridurli alla mercé del potere politico e farne dei docili e sottomessi cittadini di seconda classe, o quasi.

Nella prospettiva di Bismarck (ma si trattava di una tendenza generale: ancor più duri, se possibile, furono i dirigenti "democratici" della laicissima Terza Repubblica francese), tutto doveva essere controllato dallo Stato e niente doveva sfuggire alla sua occhiuta vigilanza; niente, soprattutto, doveva essere suscettibile di fare parte a sé, di costituire un nucleo di eventuale resistenza, una zona franca non interamente soggetta alla volontà del governo: la soppressione di ordini religiosi, la chiusura di conventi e monasteri, lo scioglimento di congregazioni religiose: se il singolo cittadino, rispetto alla macchina formidabile dello Stato onnipotente, era una funzione secondaria, a maggior ragione o erano quei cittadini i quali, guardando al Pontefice romano come al loro capo spirituale, erano sospettati di essere poco leali nei confronti della Patria e, dunque, non meritevoli di usufruire in pieno di tutte le libertà garantite dalla legge.

In effetti, lo Stato moderno riceve la sua impronta definitiva con la filosofia dell’Illuminismo, ed è, esso stesso, figlio dell’Illuminismo: non solo della Rivoluzione francese, ma, ancor prima, del cosiddetto assolutismo illuminato e specialmente del giuseppismo, cioè una forma particolarmente virulenta di anticlericalismo e, in fin dei conti, di vero e proprio anti-cristianesimo. Figlio del liberalismo e insidiato dal socialismo, lo Stato moderno vuole imporsi a dispetto del sentimento religioso della maggioranza dei propri sudditi (si ricordi la sanguinosa lezione della Vandea): ed è così che venne costruito, per non andar lontani con gli esempi, il moderno Stato italiano, all’indomani dell’Unità, o meglio, ancor prima dell’Unità: si pensi alle leggi Siccardi, nel Piemonte di Cavour, promulgate fin dal 1850.

A questo Stato moderno, massonico e nettamente anti-cristiano, aveva risposto Pio IX con l’enciclica "Quanta cura", del 1864, e con il Sillabo, condannando la Rivoluzione francese, il Risorgimento italiano, il liberalismo, l’ateismo, il socialismo, il comunismo, l’indifferentismo, il matrimonio civile, la libertà di stampa; dopo di che c’erano stati il Concilio Vaticano I e l’ingresso armato dell’esercito italiano a Roma, atto, quest’ultimo, che aveva aperto una ferita apparentemente insanabile nei rapporti fra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano, che si era inserita, più in generale, in un contesto di radicale contrapposizione fra la Chiesa cattolica e quasi tutte le manifestazioni politiche e culturali della società moderna.

Le cose stavano a questo punto allorché uomini come Vogelsang si sobbarcarono l’erculea fatica di dare una coerente ed organica "risposta" cattolica all’invadenza e alla prepotenza dello Stato moderno da una parte, e alla critica atea e antiborghese dei socialisti dall’altra, in termini di progetto sociale ed economico che tenesse conto della situazione reale prodottasi fra le classi lavoratrici e all’interno delle famiglie cristiane (minacciate non solo materialmente, ma anche spiritualmente dall’avanzare di una modernità nemica del divino) e che avesse caratteristiche di credibilità, di efficacia, di realismo, tali da farne un valido strumento d’azione. Un progetto, inoltre, che fosse rigorosamente interclassista, stante il netto rifiuto di far proprie, da parte del cattolicesimo, le categorie marxiste della lotta di classe e le loro inevitabili conseguenze (rivoluzione, guerra civile, dittatura del proletariato): cosa che oggi non si può dire di molti cattolici i quali, più o meno in buona fede, hanno fatto proprie precisamente quelle categorie, e, quel che è peggio, le hanno trasposte dal terreno che è loro proprio, quello politico, alla religione stessa, interpretando (come fa la cosiddetta teologia della liberazione) il erastianesimo come la religione dei poveri, nel senso piattamente materiale del termine; il che è una vera eresia.

Convertitosi dal luteranesimo al cattolicesimo, Vogelsang lasciò la Prussia per l’Austria e si impegnò con tutta la sua energia, che era straordinaria, per creare le basi di un associazionismo sociale cattolico e di una stampa cattolica a sfondo sociale, formulando anche proposte concrete a favore delle classi popolari, miranti a una riforma del diritto di proprietà e dei contatti salariali ed un ritorno al corporativismo di matrice medievale, impegnandosi, nello stesso tempo, contro il liberalismo in quanto tale e contro il suo logico prolungamento, il prestito a usura. Di qui il suo antisemitismo quasi inevitabile e, all’epoca, largamente condiviso da tanta parte della società tedesca, non tanto o non solo per ragioni religiose o razziali, ma proprio per la particolare posizione occupata dagli Ebrei nel contesto del prestito ad interesse.

Al cide De Gasperi – che a un ceto punto si firmava con lo pseudonimo di Mario Zanatta — è stato anche un insigne studioso del movimento sociale cattolico e ha tracciato un incisivo, efficace ritratto del Vogelsang e del suo programma sociale, di cui riportiamo qui alcuni passaggi salienti (da: M. Zanatta, «I tempi e gli uomini che prepararono la Rerum Novarum», Milano, Società Editrice Vita e Pensiero, 193138-45):

«Praticamente il Vogelsang pensava che si dovesse dare una particolare organizzazione corporativa alle grandi classi che in Austria vedeva ancora ritte innanzi a sé, come la continuazione vivente degli antichi "Staende" (stati): nobiltà, agricoltura, artigianato (o piccola industria); e ad esse aggiungeva la classe moderna della grande industria. Queste quattro classi costituiscono l’ossatura della società civile. La quale non si fonde nello Stato e non esiste per causa dello Stato; ma al contrario, è lo Stato che esiste per cagione della società. Lo Stato, secondo il Vogelsang, è un’istituzione della società, per la difesa della sua vita sociale. La società vive la sua vita economica indipendentemente, al di fuori della sfera politica, e crea lo Stato allo scopo fondamentale di mantenere l’ordine e amministrare la giustizia. Lo Stato deve perciò modellarsi sulla costituzione economica della società. La gerarchia politica deve adattarsi alla gerarchia sociale. Bisogna quindi sostituire all’attuale sistema parlamentare il sistema rappresentativo elle classi e degl’interessi. […] Gli organi regolativi della vita economica nel futuro ordine sociale cristiano saranno le classi corporative organizzate, e non lo Stato; ma poiché oggi, in via di fatto, lo Stato liberale si è arrogato tutti i diritti ed ha assorbito tutte le funzioni, è lo Stato stesso che, in via suppletoria, e provvisoria, interverrà nel regime economico, fino a tanto che la nuova società sarà ricostituita. In fondo, l’ideale di Vogelsang era di ricostruire un sistema analogo al feudalismo, adatto alle condizioni moderne. Nel feudalismo il principio fondamentale della vita economica era che "ogni proprietà è una parte della fortuna nazionale comune, concessa in usufrutto a dei privati, in cambio di servizi resi alla comunità". […] Il Vogelsang pensava che tutte le autonomie locali e professionali, da crearsi entro le corporazioni, avrebbero richiesto un gran numero di uffici e di cariche, da coprirsi gratuitamente da parte dei proprietari, e che così si sarebbe giunti alla soppressione o quanto meno alla diminuzione della burocrazia statale e comunale. […] "Alle migliaia che vivono dei loro titoli di rendita sembra che il capitalismo e l’economia fondata sul prestito ad interesse sia un’istituzione intangibile. Ma questa legge del capitalismo è un’istituzione di valori in metallo o in carta, però infruttiferi, scompagnati da ogni lavoro del proprietario; un’istituzione che produce valori all’infinito. Si fatto il calcolo che un pfenning, emesso ad interesse al tempo della creazione del mondo, ora coll’interesse composto sarebbe diventato una palla d’oro grande cinque volte il nostro globo. Basta questo esempio per dimostrare l’insostenibilità dell’economia a interesse. La somma dei beni della terra, secondo le leggi naturali, non aumenta né diminuisce. Ma l’interesse degli interessi vuole creare dei beni che crescono tanto, da superare il nostro globo terracqueo. La legge naturale e la legge del capitalismo stanno l’una di contro all’altra in risoluto contrasto, e siccome sono costrette a toccarsi e lottare, la catastrofe e lo scoppio finale sono inevitabili. La natura, come forza più potente, vincerà. La decisione strema farà scoppiare un incendio mondiale e creerà rovine fumanti, dalle quali, come ai tempi della trasmigrazione dei popoli, usciranno i ministri dell’Evangelo colla croce in mano a rialzare di nuovo le sorti della società." [Secondo alcuni teologi moderni] nell’antichità si trattava di difendere il povero mutuatario di fronte all’esosità del ricco prestatore. Ma ora la situazione si è capovolta: il prestatore generalmente è il piccolo risparmiatore che presta al finanziere, allo Stato, alle grandi società per azioni. Bisogna quindi salvaguardare l’interesse del prestatore. La Chiesa perciò, tollera e, secondo alcuni, anzi riconosce lecito il prestito a interesse. Ma Vogelsang si appassionava in questo argomento perché credeva di trovarvi la mina da far saltare tutto il sistema capitalista. Sul prestito di moneta ad interesse si fondano i debiti pubblici, i depositi bancari, la maggior parte dei titoli di borsa,. Si trattava di detronizzare il capitale scompagnato dal lavoro. Stabilito il principio però egli non intendeva che la legislazione intervenisse ex abrupto con una proibizione, ma voleva che si provvedesse con disposizioni graduali a limitare la libertà dell’usura, e restringere l’economia del denaro, sostituendola in parte coll’economia naturale, permettendo ad esempio che i proprietari agricoli pagasse erro le tasse in natura. L’economista tedesco, sostenne queste idee con un accanimento straordinario ed ebbe la consolazione di trovare consenzienti anche tra i cattolici francesi. […] "In conseguenza di questo sistema [capitalista], si separano i mezzi materiali del lavoro umano; la loro riunione economica si opera per mezzo del credito e si arriva alla capitalizzazione universale".»

Crediamo che questi pur brevi passaggi abbiamo dato un’idea della straordinaria coerenza, originalità e profondità delle proposte economiche di Vogelsang, nonché di alcune sue intuizioni che si son rivelate sin troppo esatte, addirittura profetiche.

La sua idea che è lo Stato a doversi adattare ai bisogni della società e non viceversa è coraggiosa e decisamente in controtendenza rispetto alla cultura politica allora dominante; e si noti che anche Marx non contestava affatto la supremazia dello Stato sulla società, ma semplicemente propugnava la conquista dello Stato da parte delle classi lavoratrici (cosa che gli attirò le critiche dei bakuniani). La sua affermazione che la società deve vivere la sua vita economica indipendentemente dalle pretese e dalle direttive dello Stato, va nella stessa direzione: per lui, si tratta di tornare da una situazione artificiale, innaturale, ad una situazione rispondente ai veri bisogni della società stessa, liberata dall’invadenza dello Stato, Non ne consegue, però, che egli condivida il punto di vista dei liberali, secondo i quali lo Stato ad altro non serve che a garantire l’interesse egoistico dei singoli e, in particolare, il diritto incondizionato alla proprietà (e alla rendita). Al contrario: proponendo una versione aggiornata e moderna del sistema feudale, basato sulle corporazioni, Vogelsang solo in apparenza compie un anacronismo ovvero una regressione politico-sociale: sfrondato dalla leggenda nera che ha deformato l’immagine della società medievale presso i moderni, il feudalesimo era, secondo lui, un sistema economico-sociale molto più avanzato di quello presente, poiché non ammetteva la proprietà incondizionata della terra dei suoi beni, ma solo l’usufrutto, e solo in quanto il proprietario rende alla società una serie di servizi e non si comporta come un soggetto tanto avido ed egoista, quanto improduttivo e parassitario.

La critica al moderno capitalismo, fondato sulla rendita e sull’interesse, è serrata, implacabile, di estrema attualità: per Vogelsang, si tratta di un sistema irrazionale e distruttivo, che esaurisce le risorse e impoverisce i più, mentre consente profitti sproporzionati agli affaristi e ai banchieri che, nulla producendo di utile per la società, si arricchiscono in maniera esponenziale, e nello stesso tempo creano le condizioni per una conflagrazione mondiale, esito necessario della crescita geometrica dei grandi gruppi monopolistici e finanziari: analisi che non si discosta molto da quella che farà Lenin nel suo celebre saggio «Imperialismo, fase suprema del capitalismo» e che preconizza il prossimo scoppio di una guerra di tale entità, da sconvolgere per secoli la struttura sociale e la stessa cultura dell’Europa. Sulle rovine di un mondo distrutto ci sarà spazio per una nuova evangelizzazione, che riprenderà l’opera di San Benedetto e di tanti altri monaci e missionari cristiani, ai quali si deve la gestione spirituale del trapasso dal mondo antico al medioevo, nella sua fase più distruttiva e drammatica.

La proposta concreta di Vogelsang, il ritorno a un sistema corporativo basato sulle quattro classi fondamentali della società; il rifiuto dell’usura; il ripristino di un’economia "naturale", fondata sul lavoro anziché sul capitale, e la possibilità di sostituire i pagamenti in natura ai pagamenti in denaro ogni volta che ciò sia possibile e che sia nell’interesse delle classi più deboli; infine la denuncia dell’economia monetaria intesa come artificio parassitario ai danni dell’economia reale, fondata sulla produzione di beni e servizi effettivi, tutti questi sono motivi di estrema attualità e che mostrano come il pensiero sociale cattolico fin dalla seconda metà del XIX secolo abbia messo a fuoco con notevole lucidità non solo lo stato della questione sociale, vale a dire l’insieme degli effetti della Rivoluzione industriale, ma le cause di quegli effetti, individuandone limiti e storture e proponendo, con un coraggio concettuale che oggi in pochi possiedono, delle possibili soluzioni per uscire dal vicolo cieco del capitalismo di rapina.

È rilevante il fatto che, oggi, sia fra i politici e i pensatori cosiddetti di destra, sia fra quelli dell’area di sinistra, siano pochissimi coloro i quali osano mettere in discussione l’impianto stesso dell’economia finanziaria mondiale:si direbbe che, pur essendosi ulteriormente aggravati, e di molto, i problemi lucidamente analizzati da uomini come Vogelsang o il marchese La Tour du Pin, o come Giuseppe Toniolo, sia però venuto meno, negli economisti e nei leader politici d’oggi, il coraggio di pensare in grande: sì che essi si affannano a proporre riforme e strategie che sfiorano appena la sostanza del capitalismo finanziario, senza risolvere alcuno dei problemi da esso generati.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.