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Quale futuro per la città?

Le città sono legate a qualunque tipo di società e di cultura, ovviamente a partire dalla rivoluzione agricola e facendo esclusione per le società di cacciatori e raccoglitori e, in gran parte, anche per quelle basate sulla pastorizia nomade? Più in particolare, le città sono imprescindibili dal modo di sviluppo della civiltà moderna, basata sulla rivoluzione industriale e sulla rivoluzione digitale? Oppure esiste anche per esse la fase del tramonto definitivo e possiamo immaginare, e predisporre, un futuro nel quale lo sviluppo urbano sia solo un ricordo?

Dai tempi di Gerico, di Mohenjo Daro, di Harappa, di Ebla, non possiamo immaginare la civiltà — non la nostra, almeno — senza una struttura urbana che la sorregga e la organizzi, sia in senso politico e amministrativo, sia in senso economico e produttivo. Noi occidentali siamo figli di una civiltà urbana, questo è un fatto. Ciò non significa che la città sia pensabile senza la campagna, senza il verde, senza il rapporto con la natura: storicamente, anzi, il rapporto città/campagna è stato a lungo dominato, per esempio durante quasi tutto il Medioevo, da una netta prevalenza demografica ed economica della campagna rispetto alla città, la quale, però, finiva sempre per accaparrarsi la funzione decisionale. Quando i comuni vollero sottrarsi alla tirannia del castello, i signori feudali non vi si opposero, se non in rarissimi casi, ma si trasferirono essi stessi in città, trasformando le loro case in fortezze irte di torri e avocando a sé gran parte del potere nelle nuove strutture politiche comunali.

Ora ci si domanda se la città abbia ancora un futuro, dopo che l’aumento incontrollabile della pressione demografica a livello globale, la concentrazione crescente e il gigantismo delle strutture finanziarie e industriali, l’incremento pauroso del volume complessivo dei traffici e degli scambi commerciali, con i problemi quotidiani di traffico quasi ingestibili che ciò comporta, ha alterato radicalmente il suo aspetto e la sua stessa funzione e dopo che l’incrociarsi e il sovrapporsi ormai sempre più caotico delle sue tre funzioni essenziali — quella residenziale, quella commerciale e quella produttiva — l’hanno congestionata oltre i limiti del tollerabile per quei milioni di esseri umani che le hanno elette a residenza.

Se è destino che le città abbiano un futuro, questo deve passare, di necessità, attraverso lo scorporo e la distinzione delle tre funzioni suddette, secondo la grande intuizione di Siegfied Giedion, il grande storico e critico dell’architettura austriaco, nato a Praga nel 1988 e morto a Zurigo nel 1968, che, dopo essere stato uno dei migliori discepoli di Heinrich Wölfflin, fu tra i fondatori del Congresso Internazionale di Architettura moderna e, in seguito, professore al Massachusetts Institute of Technology e alla Harvard University.

Per quanto riguarda la funzione produttiva, la stessa evoluzione storica si è incaricata di mostrare quanto essa sia indipendente dal tessuto urbano: l’unica ragione che ne ha determinato la compresenza era l’arretratezza della rete delle comunicazioni — stradali, ferroviarie, fluviali — ai tempi della rivoluzione industriale e l’assenza di procedimenti tecnologici, poi entrati in uso, per la refrigerazione degli alimenti facilmente deperibili. Ora che tali difficoltà sono state superate e che, d’altra parte, il livello d0inquinamento e di rumorosità degli impianti industriali è divenuto incompatibile con la funzione residenziale dei centri urbani, è chiaro che non vi sono ulteriori, valide ragioni per mantenere in piedi questo innaturale connubio e che ciascuna delle due funzioni, la produttiva e la residenziale, deve essere lasciata libera di andare per conto proprio. E, dal momento che li complessi industriali possono venire facilmente decentralizzati, sono questi ultimi che devino sparire dall’orizzonte della città futura: senza bisogno che incidenti spettacolari, come quello di Bhopal in India, o che prolungate situazioni di gravissimo danno alla salute dei cittadini, come quelle legate al polo petrolchimico di Mestre-Marghera e del polo siderurgico di Taranto, vengano a sollecitare l’attenzione e la sensibilità degli amministratori e dei politici.

La funzione residenziale delle aree urbane, dunque, lasciata libera di gravitare su se stessa, dovrà puntare sempre più sulla qualità della vita dei cittadini stessi, con il sistematico ricorso, da parte di urbanisti e piani regolatori, alla creazione di estese aree verdi e con lo spostamento dei quartieri residenziali il più possibile verso le zone più favorite dal punto di vista dell’esposizione, della tranquillità, della salubrità dell’aria, ad esempio le zone collinari, o pedemontane, o lungi i litorali lacustri, e con la massima attenzione allo sviluppo dei servizi connessi alla creazione di nuovi quartieri abitativi, dai trasporti pubblici, alle banche, agli uffici postali, ai poli scolastici, ai centri sportivi e ricreativi.

Resta la funzione commerciale, che va sdoppiata nelle sue due componenti urbane: quella pedonale e quella del traffico su ruota. A entrambe queste funzioni dovrà essere consentito uno sviluppo conseguente ed armonioso, in linea con le esigenze fondamentali di cui è espressione. Ai pedoni, dunque, bisognerà pensare nel progettare e costruire nuovi luoghi di transito, di passeggio, di socializzazione, di accesso ai servizi e ai negozi: strade, piazze, aree specificamente pedonali, vietate al traffici, e tuttavia concepite in maniera da non danneggiare la vocazione commerciale dei centri urbani. Al traffico su ruota si dovrà provvedere con un adeguato sviluppo delle strutture e delle infrastrutture volte a renderlo sempre più scorrevole ed efficiente, senza però cadere nella spirale perversa di attirare sempre nuovo traffico urbano, con il fatto di facilitarlo. Per esempio, non bisognerà preoccuparsi tanto di creare sempre nuove aree di parcheggio per i veicoli, magari sotterranee, ma di fare in modo che le zone a vocazione pedonale rimangano ben distinte dalle altre e che le due funzioni non si sovrappongano l’una all’altra. In pratica, verranno a crearsi due distinte tipologie di pubblico dirette ai piccoli esercizi commerciali e ai servizi: quelle che lo faranno a piedi (specialmente anziani e famiglie) e quelli che si serviranno del mezzo di trasporto privato, diretti prevalentemente ai maggiori centri commerciali.

Osservava il grande storico e critico dell’architettura austriaco Siegfried Giedion (nato a Praga nel 1988 e morto a Zurigo nel 1968), uno dei migliori discepoli di Heinrich Wölfflin, tra i fondatori del Congresso Internazionale di Architettura moderna, professore al Massachusetts Institute of Technology e alla Harvard University,

a conclusione della sua opera fondamentale «Spazio, tempo ed architettura», pubblicato nel 1941 (titolo originale: «Space, Time and Architecture»; seconda edizione italiana a cura di Enrica e Maria Labò, Milano, Ulrico Hoepli Editore, 1975, pp. 713-15):

«… Le città sono un fenomeno temporaneo, una fase nello sviluppo, di cui dobbiamo superare le difficoltà con lo strumento delle invenzioni meccaniche, radio, televisione, automobile, ed altri simili? Oppure esse sono un fenomeno eterno basato sul rapporto fra uomo ed uomo, nonostante l’interferenza della meccanizzazione? Per mio conto ritengo che l’istituzione città sia innata in ogni cultura ed in ogni periodo.

Coloro che affermano essere il presente stato della metropoli disumano, e senza possibilità di durata, sono nel giusto. L’unico problema è se questo implica la fine della città come tale. Può essere eliminato l’inefficiente disordine delle gigantesche città contemporanee senza distruggere l’istituzione stessa? Quanti credono che la città sia stata una componente di ogni successiva cultura umana ne vedono in pericolo la stessa esistenza se non si riesce ad armonizzare la sua interna struttura con i bisogni e le istanze della vita contemporanea. È chiaro che i palliativi non servono. Essi servono soltanto — ed in ciò Frank Lloyd Wright ha perfettamente ragione — a prolungarne l’esistenza artificialmente, senza alcuna speranza di risanamento. Nulla può, in realtà, essere ottenuto disseminando per le strade un numero sempre maggiore di semafori, abbattendo catapecchie, e semplicemente costruendo nuovi edifici al loro posto.

Se tutte le case infette fossero state distrutte non si modificherebbe il fatto che la città è oggi uno strumento inadoperabile. Quando Haussmann nel 1850 intraprese la trasformazione di Parigi, egli tagliò nel corpo della città — come si espresse un contemporaneo — a sciabolate. Egli tagliò nettamente, aprendo audaci diritte arterie attraverso i distretti congestionati, risolvendo ogni problema del traffico con un singolo colpo di audacia. Nel nostro secolo sono necessari atti ancora più eroici. La prima cosa da fare è abolire la "rue corridor" con il suo rigido allineamento di edifici e la sua mescolanza di traffico, di pedoni e di case. La costituzione essenziale della città contemporanea esige la restituzione della libertà a tutti e tre gli elementi: al traffico, ai pedoni e ai quartieri residenziali e industriali. Soltanto una netta separazione può realizzare questa libertà. Le strade sena fine di Haussmann appartenevano, non soltanto nei loro caratteri architettonici, ma anche nella stessa ideazione, alla visione artistica nata dal Rinascimento: la prospettiva. Oggi noi dobbiamo procedere con la città da un nuovo punto di vista, imposto in origine dalla scoperta dell’automobile, basato su considerazioni tecniche, e che rientra in una visione artistica figlia della nostra epoca — spazio-tempo.

Le città si devono plasmare sui bisogni umani. In esse devono essere restaurati i diritti dell’uomo. Il passato ci ammonisce a non dimenticare il nostro retaggio architettonico, la tradizione che ambientava vasti gruppi di edifici in una cornice naturale, e che dalla Versailles di Luigi XIV scende giù fino alle piazze di Londra. Nella Parigi del 1850 la funzione del traffico e quella delle abitazioni si confondevano per ogni classe sociale, in contrasto con gli "squares" di Londra in cui era saggiamente ricordato che l’uomo ha bisogno, per la sua esistenza, di quiete e di contatto con la natura. Nell’architettura contemporanea, nella nuova formazione di piani regolatori, sorge di nuovo l’antica istanza, che gli uomini non siano separati dal libero ambiente esterno, dalla natura.

Come è possibile soddisfare tale istanza? Come può essere applicata l’eterna legge della vita urbana che le città debbano essere qualche cosa più che una congerie di pietre, che esse debbano essere poste in comunione con la terra viva, o per la loro misura limitata come nel Medioevo, o per l’interpenetrazione di masse verdi, come nel tardo barocco?

Quando abbiamo brevemente adombrato l’atteggiamento dell’urbanista contemporaneo, abbiamo constatato che presupposto fondamentale dell’urbanistica è riconoscere l’importanza dell’attuale concetto della vita, e della sua espressione con mezzi artistici contemporanei. Alla base di tutti i problemi tecnici, costruttivi, sociali ed estetici, sta, inconsapevolmente, un’unità predominante. Come nell’Ottocento però, troppo spesso, coloro che determinano la forma da dare alla città sono esperti in tutti i problemi pratici e tecnici; ma difettando di qualsiasi sicurezza, comprensione o sensibilità per quanto rappresenta l’equivalente artistico della loro attività pratica. Non si è ancora sanata la frattura fra i metodi del pensiero e queli del sentimento, che fu tanto disastrosa durante il secolo passato. Costoro per esempio non si accorgono che la "rue corridor", condannata dalla vita stessa, rientra d’altra parte naturalmente in una visione ottica sorpassata. Essi invece, quando liberano dai tuguri ampie zone e vi costruiscono nuovi edifici, seguono devotamente il vecchio schema della "rue corridor". Essi agiscono senza neppure intravvedere la vera direzione dell’orientamento futuro, né le norme secondo cui la città nuova dovrà essere concepita, né la necessità di non ricostruire grandi zone secondo i vecchi principi urbanistici, ma di trasformarle invece in spazi verdi aperti, secondo un programma che dia la città qualche "chance" di sopravvivere. »

È chiaro, ad ogni modo, che il futuro della città non può essere né pensato, né, tanto meno, progettato, facendo astrazione dai valori ultimi di cui la città è espressione: non bisogna confondere, infatti, le funzioni della città con i suoi valori. Le funzioni sono quelle di cui abbiamo discusso: residenziale, commerciale, produttiva. I valori sono la socialità e, più specificamente, quel particolare modo di vita che nella città si esprime e che in essa manifesta l’atteggiamento generale di una cultura e di una società nei confronti della vita.

La nostra civiltà attuale è fortemente impregnata di spirito materialista e dominata dalle logiche del diabolico consumismo, le quali piegano i bisogni reali dell’uomo alle brame innaturali del grande capitale finanziario. Non è solo una questione di assetti economici e di modi di produzione, come il marxismo ha lungamente pervicacemente insegnato, sbagliando in pieno l’analisi del fenomeno: il problema non è che i mezzi di produzione siano in mano al "padrone" borghese o allo Stato dei lavoratori, bensì l’orientamento generale di una data società sia positivo o negativo nei confronti della vita. Se è positivo, se cioè non perde di vista il fatto che il capitale deve essere al servizio del lavoro e non viceversa, quella società sarà in grado, pur attraverso momento di tensione di difficoltà, di pensare e realizzare le proprie città secondo uno schema propriamente umano, vale a dire come luoghi destinati alla vita delle persone e non al loro abbrutimento, alla loro omologazione e al loro sfruttamento consensuale (tipico paradosso della fase avanzata del capitalismo). Se è negativo, se non fa proprie le ragioni del lavoro ma quelle dell’accumulazione del capitale fine a se stesso, allora non vi sarà redenzione e nessun architetto, nessun urbanista, nessun pubblico amministratore riusciranno a pensare, non che a realizzare, una città che sia anche solo minimamente a misura di coloro che la abitano.

Il problema, come si vede, è di natura essenzialmente spirituale: e Marx, lo ripetiamo, aveva torto.

In un’ottica di questo genere, si comprende facilmente che tutta una serie di problemi correlativi allo sviluppo delle aree urbane, dall’inquinamento alla gestione dei rifiuti, assume una luce nuova e diversa: perché il problema non sarà più quello di smaltire meglio i rifiuti, ma di produrne assai meno; e non sarà più quello di diminuire le emissioni inquinanti, ma di praticare modi di vita, di trasporto, di riscaldamento, che automaticamente sdrammatizzino il momento dell’emergenza ecologica.

In ultima analisi la città di domani avrà un’anima – oppure, se l’ha smarrita, la ritroverà — oppure, semplicemente, non sarà. Non avrà ragione di sussistere e, di fatto, sussisterà ormai solo come prodotto in lento stato di putrefazione. Una città senz’anima è qualche cosa di meno e di peggio di un semplice non-luogo: è un contro-luogo, vale a dire un "locus diabolicus", ii cui abitanti subiscono, sin dalla fanciullezza, una sorta di contro-iniziazione. E non è di simili città o di simili cittadini che avrà bisogno la società futura.

Ridare un’anima alle città: questo dovrà essere il senso, lo scopo e il presupposto di ogni azione urbanistica, di ogni stole architettonico, d ogni iniziativa commerciale o culturale volta a ridisegnare il volto delle aree urbane nei prossimi anni e nei prossimi decenni. Il tempo incalza, i problemi non risolti si accumulano, si sovrappongono, si ingolfano a vicenda. Ma una cosa deve essere chiara: perché la città abbia un’anima, bisogna che ce l’abbiano i suoi abitanti. Dunque, è necessario ripartire da qui. È necessario ripartire dalla spiritualità dell’uomo, dal suo slancio verso l’Assoluto, dal suo bisogno essenziale, ontologico, di quell’Essere da cui proviene, e al quale aspira a ritornare…

Fonte dell'immagine in evidenza:

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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