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Penitenza o ascesi?

Il sentimento religioso dell’età moderna e contemporanea è stato risucchiato e quasi stritolato fra due opposte tendenze, egualmente sbagliate: una tendenza gnostica, o neo-manichea, che, disprezzando il "mondo" e il corpo, ha creato una netta separazione tra la sfera mondana e quella soprannaturale, togliendo, così, valore e significato alla pratica dell’ascesi (visto che questa si realizza attraverso il corpo); ed una tendenza, in verità molto più pronunciata, di tipo secolarista e modernista, che tende a svalutare il soprannaturale e, dunque, a vedere l’ascesi come una negazione del "mondo" e come l’espressione di una concezione "punitiva" e meramente penitenziale del fatto religioso, invece che come il trampolino verso l’Assoluto.

Giova ripeterlo: il misticismo non è il fiore al’occhiello della religione, ne è il cuore: niente misticismo, niente vero sentimento religioso. Ora, è vero che la pratica sistematica dell’ascesi è riservata a pochi; ma questo non significa che gli altri, i credenti "normali", la possano tranquillamente ignorare: nessuno di loro lo potrebbe, meno ancora quanti si immergono in cento forme di "solidarietà" e "promozione" umana, sociale, magari economica e politica, come se tutto l’impegno di questo mondo potesse sostituire anche un solo istante di vero raccoglimento, di vera meditazione, di vera preghiera. «Marta, Marta, tu ti affanni e ti preoccupi per molte cose, ma una sola è necessaria», ammoniva il Maestro: possibile che i cristiani d’oggi se ne siano così facilmente dimenticati?

«Pregate sempre, senza stancarvi mai» (Luca, 18, 1), ammoniva Gesù Cristo: strano che quanti, pure fra cattolici, si richiamano continuamente al Vangelo e alle Scritture, e — come i protestanti e i Testimoni di Geova -, son capacissimi di citare a memoria il capitolo tale e il versetto talaltro per ogni circostanza si presenti in qualsiasi momento, dimentichino poi, di fatto, queste precise parole del Maestro, questa esortazione imprescindibile, data con il massimo calore e con la massima serietà. La preghiera, per il credente, è più importante di qualunque altra cosa: il non credente può invocare le opere, le letture, gli esempi, le speranze, la ragione; il credente no, può invocare solo la preghiera — tutto il resto viene dopo e non è neanche essenziale.

Dire che l’ascetismo è il cuore del sentimento religioso non significa ridurre l’esperienza religiosa a ricerca disincarnata ed estranea alle necessità della vita materiale; significa semplicemente ricordare che nulla di quanto sentiamo, pensiamo, facciamo, speriamo o temiamo ha un significato in se stesso, se lo si disancora dal costante riferimento all’Assoluto, cioè a Dio. E quando la pratica religiosa si disancora da Dio, si è bella e perduta: anche se, talvolta, non lo sa, non se ne accorge; e, come il sonnambulo che avanza nel sonno, così il credente che ha perso il legame con Dio si inoltra sulle strade della vita credendo di portare in esse la luce divina, mentre non pè che un cieco brancolante fra i ciechi, con ‘aggravante che s’illude di vederci benissimo e perfino di essere in grado di rischiarare la strada agli altri.

Così, dire che gli uomini devono fare penitenza sembra una specie di condanna e, dalla mentalità moderna, una simile affermazione viene percepita in senso puramente negativo, come se l’essere credenti significasse togliere qualcosa al bello della vita, intristire ciò che sarebbe gioiosa, sbiadire ciò che risplende nei suoi vividi colori naturali. Invece il concetto di penitenza, se non ci si perde in una questione puramente nominalistica, altro non è che l’altra faccia della medaglia del concetto di ascesi:la via per salire in alto. Per salire in alto, sempre più in alto, bisogna liberarsi del peso superfluo, così come la mongolfiera si sbarazza dei sacchetti di sabbia che fungono da zavorra e guadagna, così, le altezze sublimi, ove soffiano liberi i venti e lo sguardo spazia nelle immense vastità del paesaggio sottostante. Nulla di triste, dunque, nulla di uggioso o di mortificante nell’idea che, per innalzarsi al piano del divino, occorre gettar via un po’ di zavorra: questo vuol dire fare penitenza: sbarazzarsi del superfluo onde poter giungere più facilmente verso l’essenziale.

Interessanti e pertinenti ci sembrano le osservazioni che svolge Jean-Claude Noyé, nel suo libro «Il grande libro del digiuno» a proposito del digiuno, ma che sono facilmente estensibili a tutta l’area della penitenza e/o ascesi (titolo originale:«Le grand livre du jeûne», Paris, Editions Albin Michel, 2007; traduzione dal francese di Romeo Fabbri, Padova, Edizioni Messaggero, 2009, pp. 128-133):

«Indubbiamente, la disciplina del digiuno suscita spontaneamente riserve, resistenze, persino irritazione, perché riguarda la privazione di ciò che è essenziale. […] Padre de Vogüé constata con grande amarezza: "Il digiuno cristiano è scomparso, perché pastori e fedeli non lo hanno reinventato". […] Nel complesso delle cause incriminate [circa l’abbandono del digiuno religioso]poniamo anzitutto l’accento sullo sviluppo in Occidente di uno spiritualismo disincarnato. Questo spiritualismo trascura l’unità corpo-anima-spirito, le interazioni profonde esistenti fra i movimenti del corpo e quelli della vita interiore. […] Quindi, illusione moderna e tenace, secondo cui la vita spirituale non comporterebbe una vigilanza spirituale. […]

Padre Deseille nota: "Il dramma è che l’Occidente ha ridotto la parte spirituale dell’uomo alla sua parte razionale. Si è smussata la punta fine dell’anima. Paradossalmente, quando si perde il senso della vita spirituale, si perde anche il senso del corpo e della sua partecipazione alla stessa. Così l’uomo viene ridotto alla sua dimensione volitiva e intellettiva. Quest’approccio è dannoso perché è importante che il corpo simboleggi e incarni gli atteggiamenti spirituali. Per i padri, il legame fra corpo, anima e spirito è talmente stretto che ogni atteggiamento interiore deve tradursi in un comportamento esteriore. La rinuncia all’io, a tutte le sue manifestazioni, l’umiltà dell’anima e l’amore indiviso di Cristo si iscriveranno nell’essere profondo dell’uomo, nel suo cuore, solo se si incarnano in pratiche corporali, come il digiuno, le veglie, la rinuncia alle comodità e alla ricerca degli agi del corpo". E padre Deseille sottolinea che il digiuno non ha alcuna vera ragion d’essere al di fuori della vita spirituale. Di qui all’osservanza di tutte le usanze di privazione alimentare raccomandate dalla chiesa ortodossa non c’è che un passo, che l’autore e la sua comunità monastica fanno molto volentieri, poiché "questo è molto vivificante per la vita interiore".

Un’altra causa della disaffezione nei riguardi del digiuno è certamente il fatto di considerarlo una punizione, un modo per riparare i peccati commessi. Il termine "penitenza", con cui si è sostituito il termine "ascesi", è piuttosto infelice. […] Troppo a lungo si dovuto digiunare senza sapere bene perché, senza conoscere tutto il beneficio che si poteva trarne, a parte quello di obbedire alla Chiesa. Quando è venuta meno la tutela di quest’ultima sulle coscienze, sono scomparse anche le abitudini alle quali essa sottoponeva i fedeli, già moribonde in materia di digiuno.

In un certo senso, tutto lo stile della vita moderna dissuade dal digiuno: sia il nostro impiego del tempo sempre sovraccarico, sia la fretta e la corsa febbrile che ci anima durante tutto l’anno. Siamo assorbiti dal lavoro, dalla famiglia, dai divertimenti, , con la conseguente scomparsa del silenzio, tanto più difficile da sopportare quanto più è raro. […] […]

Pur meno colpiti da questi mali, i monaci non vivono al di fuori del mondo. Nei chiostri, la qualità del silenzio non è più ciò che era. Anche i religiosi sono sottoposti a una mole di lavoro sempre più gravosa e impegnativa. Devono adattarsi alle rapide mutazioni tecnologiche e cercare nuovi mercati per poter vivere del prodotto del loro lavoro. Anch’essi, a scapito del loro corpo (e della loro anima) , sono assaliti dall’individualismo che li circonda e dall’accelerazione dei ritmi di vita. Disincantato, il benedettino tedesco Anselm Grün, in un libretto intitolato "Digiunare per il corpo e per lo spirito", osserva: "Dove si digiuna, oggi? Non là dove ci si aspetterebbe che lo si facesse, nei monasteri…»

Sì, è paradossale; tanto più che si vede molto digiunare, nonché predicare i benefici del digiuno, in quelle moderne consorterie pseudo mistiche e pseudo esoteriche, nelle quali take pratica è vista unicamente come fonte di benefici per la salute del corpo e come mezzo per raggiungere una non meglio specificata "chiarificazione interiore", una dolciastra e generica "fusione" con il Grande Tutto dell’universo, ossia per mettere in sintonia le energie individuai con quelle cosmiche e fare della coscienza individuale il luogo di una "rivelazione" di marca New Age.

Un tempo, i monasteri erano dei centri di santa energia spirituale, che si irraggiava sul mondo intero; non di una energia qualsiasi: di energia santa, perché possono esservi anche centri di energia spirituale negativa, addirittura diabolica, come nel caso delle sette perverse che praticano il satanismo e invocano su di loro la venuta del Diavolo. Oggi i monasteri sono molto diminuiti di numero, così come sono diminuite le presenze dei monaci e delle monache; ma, fatto ancor più importante, si è allentata, in essi, o almeno in parte di essi (non bisogna generalizzare, ma nemmeno minimizzare) la tensione spirituale, si è affievolita la severità dell’ascesi, è penetrata — insomma — l’atmosfera che regna, al di fuori di essi, un po’ ovunque. E come meravigliarsene? Se i loro muri perimetrali non sono abbastanza spessi da trattenere le vibrazioni benefiche che si muovono dall’interno verso l’esterno, non lo sono neppure per preservare queste oasi di spiritualità dalle influenze, non sempre belle e non sempre buone, che dalla società "profana" ritornano verso di essi. E dunque certi atteggiamenti e modi di fare, anche di pensare e di sentire, tipici della modernità laica e immanentista, hanno varcato le soglie dei chiostri e delle abbazie e sono entrati nel circolo della vita contemplativa, inquinandone le sorgenti.

Il fenomeno non riguarda solo i conventi, ma tutta la vita della Chiesa; i conventi, però, sono sempre stati i grandi serbatoi d’aria pura, capaci di vitalizzare il mondo circostante e fermentare negli angoli più lontani della società: se essi perdono il proprio sale, con che cosa si potranno insaporire le altre vivande? Come si potrà fronteggiare la sfida della modernità, sempre più materialista e disincantata, se quel disincanto è penetrato fin dentro la roccaforte dei valori spirituali, fin nelle pieghe più segrete e negli angoli più riposti della vita dell’anima, persino tra coloro che hanno fatto della contemplazione e della preghiera la loro offerta perenne e la loro principale ragione di esistere?

Una società che ha perduto il senso del silenzio; che ha smarrito la pratica della penitenza, del digiuno, del raccoglimento; che si è indebolita nella sua tensione ascetica, è una società che non può funzionare bene nemmeno nella sfera prettamente materiale, dall’economia alla politica, dall’arte alla scienza: è una società che scivola inarrestabilmente nel disordine. La preghiera, la contemplazione, il raccoglimento, il digiuno, sono gli strumenti che permettono a una società di rigenerare le proprie energie, impedendo ad esse di disperdersi continuamente nell’inseguimento di cose secondarie e di beni ingannevoli. Le energie, sia fisiche che spirituali, si rigenerano allorché attingono alla sorgente prima dell’Essere, perenne e indefettibile, dalla quale ogni creatura riceve quanto le è necessario per essere fedele alla propria vocazione.

In una società dominata dal disordine, ogni individuo ritiene di essere padrone di perseguire qualunque capriccio, né si domanda quale scopo o missione gli sia stata affidata nella vita, fin da prima che il mondo cominciasse a esistere. E una società in cui ogni individuo si lancia all’inseguimento dei propri piaceri limitati ed egoistici, smarrendo la nozione stessa del Bene, puro e luminoso al di sopra della miriade dei falsi beni, non possiede in se stessa la forza per resistere alle più piccole spinte centrifughe, alle più modeste forze dissolventi. È una società matura per il crollo.

Noi, però, siano stati fatti per la vita e non per la morte; per la gioia e non per la tristezza; per amare e non per odiare. Di conseguenza, non possiamo accettare al declino spirituale della società in cui viviamo, perché esso si ripercuote sulla spiritualità di ciascuno di noi: nessun uomo è un’isola, nessuno può sottrarsi al flusso della marea. La marea materialista ed edonista sta spazzando con furia distruttrice le cose più care, che avevamo credute indistruttibili. Ci siamo accorti, invece, che nulla indistruttibile, se ciascuno di noi non è disposto a metterci in gioco e ad affrontare, per quanto gli compete, la responsabilità di vivere secondo giustizia, vale a dire cercando non i piccoli beni fallaci, ma il Bene stesso, imperituro e infinitamente affascinante.

Digiunare, così come compiere qualunque altro atto di purificazione, ha un senso, pertanto, se si colloca nella giusta prospettiva: che è quella di restituire al corpo la sua funzione di tramite verso la dimensione soprannaturale, verso la vita vera dell’anima; altrimenti si riduce a una pratica igienica e salutistica fine a se stessa. L’anima ha bisogno del corpo per purificarsi, così come il corpo ha bisogno dell’anima per essere illuminato: il segreto è tutto qui. Basta solo non scordarsene mai…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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