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Panegirico di San Tommaso d’Aquino

Una mattina presto, nella cappella di San Nicola, a Napoli, il sacrestano fu lo sbalordito testimone di un dialogo soprannaturale fra Tommaso d’Aquino, raccolto in preghiera, ed il Crocifisso davanti al quale il santo era inginocchiato. Questi desiderava sapere, ansiosamente, se avesse parlato nella maniera giusta dei misteri divini, scrivendo le proprie opere; e il Crocifisso gli rispondeva: «Tu hai parlato bene di me, Tommaso. Che cosa desideri in premio?»; risposta: «Niente altro che Te, o mio Signore!».

Nel dicembre del 1273, dopo questo fatto, Tommaso chiamò il suo segretario ed amico (quanto posto ha l’amicizia nella vita di Tommaso, come in quella di quasi tutti i santi!), Reginaldo da Piperno, e gli disse, inaspettatamente, che non avrebbe scritto più neppure un rigo. Lui, che aveva scritto e dettato fiumi di sapere nelle sue opere, e specialmente quell’immenso e superbo monumento architettonico, quel mare di sapienza, d’intelligenza e di fede che è la «Summa Theologiae», in cui non sai se ammirare di più la concisione, la nettezza, la lucidità dei singoli ragionamenti o la mirabile armonia, l’eleganza e la proporzione dell’insieme; lui che non aveva sprecato neppure un momento della sua vita, che non si era risparmiato neppure per un istante, nel mettere a disposizione dei fedeli e dei lettori i prodotti del suo ingegno mirabile, adesso annunciava di aver terminato la sua opera di scrittore e chiedeva a Reginaldo di sbarazzarsi perfino dell’occorrente per scrivere. Affermava, risoluto, sereno, di non avere più niente da aggiungere alla sua opera, sentiva anzi un profondo imbarazzo per quanto già scritto, poiché gli sembrava di non essere stato all’altezza della profondità sublime dei temi trattati.

Reginaldo, oltre che segretario ed amico di Tommaso, era anche il suo confessore; per questo, probabilmente, non sappiamo molto di più intorno a questo misterioso episodio: è probabile che egli si sia sentito legato al segreto sacramentale di ciò che Tommaso gli aveva rivelato. Tutto quel che ci è stato tramandato è che il Dottore angelico, nell’autunno del 1273, mentre celebrava la Messa nella cappella di San Nicola, aveva avuto una visione soprannaturale di eccezionale intensità e splendore: egli disse di aver visto cose che gli facevano sembrare della misera paglia tutto quel che fino ad allora era andato scrivendo. Dopo aver visto tanto, il grande filosofo non si sentiva più l’animo di aggiungere una sola parola intorno alla Verità divina: troppo grande gli si era rivelata la distanza fra ciò che l’intelligenza umana può concepire e trasmettere di Dio, e ciò che Dio è in se stesso, allorché, per un dono ineffabile della Grazia, si rivela all’anima in tutta la sua magnificenza e in tutto il suo incomparabile splendore.

Gli ultimi mesi della vita di San Tommaso — sarebbe morto poco dopo, il 7 marzo del 1274, nell’abbazia di Fossanova, mentre era diretto al Concilio di Lione — sono avvolti in un’aura misteriosa. Il sommo pensatore ha deciso di tacere per sempre; è tornato ad essere silenzioso, così come lo era stato da giovane studente («il bue muto», lo avevano dileggiato i compagni; ma il suo maestro, Alberto Magno, aveva profetizzato che i "muggiti" di quel bue sarebbero risuonati trionfalmente per il mondo intero). Appariva così il grande mistero di quest’anima delicatissima: amante del silenzio, del raccoglimento, della preghiera incessante, si era fatto scrittore per adempiere a una missione, per rispondere a una chiamata cui non aveva voluto sottrarsi; adesso, sciolto il suo voto, eseguito il suo dovere, l’onesto operaio rientrava nell’ombra, deponeva gli strumenti del suo lavoro. Non per vanità di umani consensi aveva preso la penna e non per ragioni umane l’aveva posata: a guidare le sue decisioni era stata una voce dall’Alto.

Tommaso, e questo non molti moderni lo sanno, era un uomo dalla sensibilità straordinaria, quasi incredibile. Piangeva con estrema facilità, era un emotivo e un contemplativo continuamente rapito nella bellezza delle sue visioni; ed era di una bontà e di una gentilezza straordinarie. Basterà un piccolo episodio, un episodio quasi insignificante, per rivelarne la grandezza: un giorno, nel corso di una disputa con un giovane e ambizioso teologo, egli scelse di non rispondere e di cedere, apparentemente, la vittoria al suo antagonista. Ma chi lo conosceva bene, sapeva che egli non era stato per niente sconfitto, ma che, semplicemente, aveva scelto di non replicare per qualche sua segreta ragione. Interrogato su ciò da un amico, aveva così risposto: «Perché avrei dovuto rovinargli la soddisfazione di sentirsi vincitore? Si vedeva che per lui era così importante: sarebbe stata una cattiveria.» Tale era l’uomo, il grande studioso: delicato come un fanciullo, straordinariamente modesto, straordinariamente benevolo verso tutti.

Uno dei panegirici più belli e vivi e sentiti di San Tommaso d’Aquino è stato scritto da Raissa Maritain, la compagna di vita del filosofo Jacques Maritain, nel suo libro di memorie «I grandi amici» (titolo originale: «Les grandes amitiés»; traduzione dal francese di Iside Spano De Zolt, Milano, Società Editrice "Vita e Pensiero", 1966, pp. 208-212):

«Si sa che Tomaso pregava senza sosta, che possedeva la grazia del dono delle lacrime, così caro al medioevo cristiano, che predicava con una dolcezza che toccava il cuore del popolo semplice, ma anche con una severità che faceva tremare i sapienti, maestri e studenti in teologia, quando ricordava loro le grandi responsabilità verso le anime che attendevano da essi la verità? Teologo per eccellenza, tuttavia apparve dapprima ai nostri occhi come il metafisico dell’intelligenza e della ragione, di cui difende il valore di autentiche facoltà della conoscenza reale. E in ciò pure egli è caro alla Chiesa, custode dell’integrità umana quanto della verità rivelata. Egli professa infatti, seguendo Aristotele, che la nostra intelligenza conosce naturalmente l’essere, prima nelle cose sensibili, poi, grazie alle intuizioni astrattive della metafisica, nella sua intelligibilità trascendentale; e questa tranquilla percezione è in lui così larga, così pura e penetrante che i principi della sua metafisica sono atti ad integrare ogni verità di ordine filosofico e naturale, un poco, e conservando le proporzioni, come i principi rivelati della fede integrano sempre ogni verità di ordine soprannaturale, che verrà ad essere esplicita con il tempo. In tutto ciò che riguarda l’ontologia delle facoltà di desiderio, e la scienza morale degli atti umani, la sua dottrina osserva così santamente e la verità speculativa e tutti i diritti della carità e della giustizia, che si può dire che essa è una teologia evangelica; e a malapena i suoi commentatori hanno potuto restarle rigorosamente fedeli, tanto grande è la sua purezza. Più si avanza nella conoscenza della sua dottrina, più si ammira la scienza, l’intelligenza e la saggezza che sono così meravigliosamente unite nella santità del Dottore angelico; per questo si poté dire di lui che "la sua santità è quella dell’intelligenza" (Maritain). È nell’intelligenza stessa di san Tomaso che si compiono i miracoli della santità; la sua intelligenza è tutta rivolta verso Dio; tutta donata alla Verità, conosciuta o da conoscere. È attraverso essa che il santo è sollevato da terra; è ai lavori del filosofo e del teologo che Iddio dà la sua approvazione: "Tu hai parlato bene di me, Tomaso". In mondo come il nostro in cui regnano l’esclusione e la discordia, in cui ogni esperienza personale tende a opporsi ad altre esperienze invece di unirsi ad esse; in cui distinguere le essenze o le circostanze è tagliare con la scure e non rendere giustizia ad ogni essere nella sua originalità e nella sua particolarità, nella sua verità di esistenza; in cu non si concepisce né l’unione della scienza e della fede, né quella della scienza e della saggezza (anche un intellettualista come Husserl, che esaltava la filosofia come scienza, detestava la sapienza: "Essa, scrisse Chestov, destava in lui tutta l’indignazione di cui era capace"), san Tomaso ci offre nella sua vita, nel suo spirito, nella sua dottrina, l’esempio dell’unione più armoniosa e più efficace dei lumi della ragione, della fede e dell’esperienza mistica. Le tre saggezze sono in lui: quella di uno dei più grandi geni dell’intelligenza, quella di uno dei più umili figli della Chiesa, quella di uno dei santi più dotati del dono dei miracoli e più misericordiosamente donati all’umanità per guarirla dalla sua ignoranza. Ed egli stesso, là dove la sua grandissima cultura non poteva bastare, faceva violenza al cielo. Andava ad appoggiare la testa al tabernacolo e rimaneva lì a pregare e scongiurare con molte lacrime. E il cielo si scomodava per venire in aiuto ad un filosofo e ad un teologo nell’imbarazzo. Allora, uscendo dalla sua orazione, racconta frate Reginaldo, suo compagno, ritornava nella sua cella liberato dalle incertezze e riprendendo i suoi lavori continuava a scrivere o a dettare ai numerosi segretari. E tuttavia questo essere pacifico, questa luce così pura di cui la Chiesa non doveva tardare a proclamare il genio e la santità, dovette subire la prova, senza dubbio inevitabile, di essere misconosciuto dai suoi. Alla fine della sua vita dovette sostenere violenti attacchi diretti contro la sua dottrina da un gran numero di maestri di teologia, di cui alcuni appartenevano al suo ordine. Tre anni dopo la morte parecchie delle sue tesi furono condannate dai vescovi (Stefano Tempier, vescovo di Parigi; Roberto Kilwardby, arcivescovo di Canterbury), che credevano di proteggere così la soprannaturalità del cattolicesimo contro un teologo che accusavano di rifarsi ai principi del pagano Aristotele. Ma questi giudizi male ispirati hanno finito coll’estinguersi, mentre le tesi del santo Dottore vivono sempre con la vita ed il vigore della verità. A questo grande discepolo ed amico del Cristo non mancò la gioia di poterlo lodare in inni e cantici. E finché durerà il mondo, riceverà gli effluvi della divina dolcezza della poesia e della musica di san Tomaso nell’ufficio del santissimo Sacramento, che compose su preghiera di papa Urbano IV all’epoca dell’istituzione della festa del Corpus Domini. Perché l’Angelo della scuola, il Dottore angelico, è anche il Dottore eucaristico. La sua devozione per i sacramenti, che egli chiamava "reliquie dell’Incarnazione", rivela tutta la fede e la dolcezza della sua anima. Nelle sue ultime parole, nelle ultime lacrime, quando morente sta per ricevere il Cristo nella sua ultima comunione, si manifesta il suo amore per l’Eucarestia: "Ti ricevo, prezzo della mia salute. Ti ricevo, compagno della mia vita sulla terra. Te, per amore del quale ho studiato, vegliato, lavorato. Te, che ho predicato e insegnato."»

Tommaso d’Aquino è passato alla storia della filosofia come il massimo artefice della conciliazione fra il pensiero greco e quello cristiano, nonché fra la ragione e la fede, pur nella distinzione delle due facoltà. Eppure egli non pensava affatto che fossero due cose distinte, nel senso di separabili a piacere: tutt’altro. Per lui, era ovvio che la fede è necessaria alla ragione, così come era ovvio che la stessa fede cederà, al momento della rivelazione soprannaturale, davanti allo splendore della verità: allora non ci sarà più alcun bisogno né di comprendere, né di credere: sarà infatti sufficiente contemplare. Ma una tale esperienza non è possibile qui, nella vita terrena, se non per qualche fugace attimo di sconvolgente intensità. Come dice il gran padre Dante (appunto per descrivere la visione finale di Dio, nel XXXIII canto della «Divina Commedia»), «non eran da ciò le proprie penne»: l’uomo, finché vive nella dimensione terrena, può cercare la verità, non mai raggiungerla interamente: perché la verità è Dio, e di Dio non possiamo fare esperienza, fino a che non saremo sciolti dai condizionamenti della dimensione fisica.

Per Tommaso, come per i suoi contemporanei, era chiaro che non si può cercare la verità senza arrivare a Dio, che non si può amare la verità senza amare Dio: che l’intero creato proclama lo splendore divino, la sapienza e la bontà divine, e che l’intelligenza ci è stata data per servirLo, adorarLo, trovarLo sempre meglio. Tommaso scriveva per le menti più raffinate e predicava per le anime più semplici: aveva compreso che la Verità non conosce gradi, che varia il nostro modo di avvicinarla e di porgerla, non già in se stessa, e che l’umile preghiera dell’anima più semplice è gradita a Dio quanto la più sottile speculazione filosofica. Soprattutto, Tommaso ben sapeva che le "sue" opere teologiche non erano frutto esclusivo del suo ingegno, ma che gli erano state ispirate dall’Alto, come del resto ogni altra cosa che gli esseri umani intraprendano con cuore puro e con retta intenzione. Sapeva di essere un operaio della vigna e sapeva che tutti gli operai sono necessari, ma nessuno è indispensabile: solo il padrone della vigna lo è.

Tutto ciò era semplice e chiaro per Tommaso d’Aquino, una delle più grandi menti speculative che la storia del pensiero abbia mai conosciuto; non lo è più per l’uomo d’oggi, per i pensatori moderni, ai quali sfuggono completamente quei presupposti, quella prospettiva, quell’orizzonte intellettuale e spirituale. Il pensiero moderno ha scordato la semplicissima verità che, contro Dio, l’uomo ha sempre torto, mentre con Dio ha sempre ragione e sempre trova quello che cerca. L’uomo moderno fatica a comprendere Tommaso, non perché sia troppo difficile, ma perché è troppo semplice; così come fatica a comprendere Dante, Giotto, Francesco, Chiara, le cattedrali, l’adorazione, la mistica. Ha reso tutto complicato, confuso, contraddittorio. Ed ha smarrito, insieme a Dio, anche se stesso…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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