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L’Inghilterra vuole stare in Europa al solo scopo d’intralciarla e indebolirla

La Gran Bretagna e l’Europa: ecco un interessante tema di riflessione per quanti, eventualmente, non fossero convinti sino in fondo che il mezzo migliore di raggiungere uno scopo negativo sia quello di fingere l’adesione e la solidarietà con quelli che credono in un determinato progetto, infiltrarsi in mezzo a loro e, così, poter sabotare dall’interno, ma con tanta maggiore efficacia e sistematicità, ogni loro sforzo e frustrare ogni loro obiettivo.

La Gran Bretagna, da quando ha iniziato a esistere come nazione veramente europea, vale a dire dai tempi del regno normanno di Guglielmo il Conquistatore, ha sempre concentrato tutte le sue energie nel proteggersi da eventuali minacce provenienti dal continente: e, per far questo, ha sempre mirato alla divisione e all’indebolimento degli Stati europei e a stabilire rapporti privilegiati con alcuni di essi, situati in posizione periferica, allo scopo di servirsene come di un grimaldello per inceppare e rallentare la crescita degli altri, quelli ritenuti effettivamente pericolosi. Per fare solo un paio di esempi, i Paesi Bassi sono stati il grimaldello per fiaccare la Francia di Luigi XIV; il Portogallo (e la Spagna), il grimaldello per minare la potenza napoleonica; la Russia, sia nel 1812 che nel 1941 – e, naturalmente, anche nel 1914 — è stata il grimaldello per far saltare la potenza egemone del continente, la Francia dapprima, indi la Germania.

In un primo tempo, gli Inglesi, per maggiore sicurezza, hanno cercato di dominare direttamente la porzione di Europa prospiciente la loro isola: hanno cercato di fagocitare, addirittura, l’intero regno di Francia, al tempo della Guerra dei cent’anni; in ciò hanno fallito, ma la lezione appresa non è stata inutile: ha insegnato loro che non c’era bisogno di tanto, per proteggere la propria indipendenza: era sufficiente seminare quanta più divisione possibile sul continente e poi accorrere, con la scusa di difendere un Paese debole contro la prepotenza del "cattivo" di turno, ma, in realtà, al solo ed unico scopo di impedire che, in Europa, possa formarsi un potere abbastanza forte — sotto la forma di un unico Stato, o di una costellazione di Stati — da mettere in pericolo i loro vitali interessi commerciali e finanziari e da avere l’ardire di affacciarsi sul loro giardino di casa: il Mare del Nord. Così, ad esempio, nel 1914 sono volati al soccorso del «poor little Belgium», per salvarlo dai soldati cattivi con l’elmo a chiodo, che sventravano le donne a colpi di baionetta e tagliavamo le mani ai bambini; e non certo, come insinuavano i soliti, incorreggibili malfidenti della politica internazionale, per bloccare l’ascesa industriale, e soprattutto navale, tedesca.

La lezione della Guerra dei cent’anni è stata duplice: da un lato, ha insegnato agli Inglesi a non tentare, mai più, di esercitare un dominio diretto sul continente; dall’altro, li ha indirizzati verso mete meno pericolose, ossia verso i commerci marittimi, da proteggere a qualunque costo — anche con la vera e propria pirateria, come ai tempi di Francis Drake e di Elisabetta; oppure con interventi militari oltremare, anche palesemente "ingiusti" e moralmente obbrobriosi, come nel caso della Guerra dell’oppio contro il Celeste Impero cinese; cosa che, d’altra parte, ha insegnato loro una lezione aggiuntiva: che favorire la divisione e la debolezza dell’Europa si rivelava non solo utile e prudente sul piano politico, ma addirittura vitale e indispensabile su quello economico, essendo la sola maniera di conservare il monopolio, o almeno la superiorità, nei confronti della concorrenza manifatturiera, commerciale e finanziaria europea. Insomma, consentiva loro di prendere due piccioni con una fava: proteggersi da possibili minacce d’invasione, e rendere più difficile, se non impossibile, una seria concorrenza sul piano produttivo e finanziario.

Bisogna anche tener presente che gli Inglesi, nel corso della loro storia, non si sono mai sentiti veramente europei: come tutti gli isolani, hanno sviluppato un fortissimo senso di identità separata e, mano a mano che la loro nazione ascendeva, a partire dal XVI secolo, al rango di grande potenza, hanno incominciato a guardare sempre più con un misto di degnazione e diffidenza tutto ciò che avveniva presso i popoli e le nazioni continentali, senza mai sentirsi solidali con essi, e, soprattutto, senza mai percepirli come loro eguali, ma sempre come inferiori. Artefici della costruzione d’uno Stato moderno prima di quasi tutti gli altri; fatta la loro rivoluzione anti-assolutista prima degli altri; messa a punto la macchina della monarchia costituzionale, fondata la prima Banca centrale e avviata, in anticipo di mezzo secolo rispetto al resto d’Europa, la Rivoluzione industriale, gli Inglesi hanno finito per considerare come un dato naturale l’idea della propria superiorità e, in parte senza rendersene conto, hanno incominciato a sviluppare, come gli altri popoli, ma in misura assai maggiore, l’attitudine a usare due pesi e due misure in tutto ciò che riguarda l’opinione su loro stessi e, parallelamente, sul resto dell’Europa: a considerare come legittimi e sacrosanti tutti quei comportamenti (ivi compresi lo sfruttamento e, se necessario, il genocidio dei popoli coloniali) che, se compiuti da altri, suscitano il loro sdegno più vivo e sincero e la loro fermissima determinazione d’infliggere una punizione esemplare ai "colpevoli".

Il culmine di questo secolare, metodico processo, psicologico e culturale, oltre che politico ed economico, si è realizzato durante il lunghissimo regno della regina Vittoria, allorché la Gran Bretagna raggiunse l’acme della sua potenza imperiale. Il popolo inglese si sentiva, per così dire, doppiamente fiero: di aver costruito l’impero coloniale più grande della storia, che comprendeva perfino interi continenti ed era popolato da centinaia di milioni di sudditi; e di essersi dato una forma di governo, nonché d’aver sviluppato una peculiare civiltà, che esso giudica, entrambe, di molto superiori a tutto quanto era riuscito a fare il resto d’Europa. La sua fierezza, sconfinante sovente nell’orgoglio, gli derivava dal vedere, sul planisfero, che un quarto delle terre emerse vivevano felicemente all’ombra dell’Union Jack; che l’India, l’Egitto, le Antille e metà del continente africano, dal Cairo al Capo di Buona Speranza, rendevano omaggio alla loro sovrana ed inviavano alla madrepatria le loro materie prime, i loro prodotti, i loro lavoratori e, in caso di bisogno — come per la Guerra anglo-boera — i loro soldati. Si sentivano i depositari della civiltà e consideravano come il loro diritto e dovere, come il loro pesante ma irrinunciabile fardello, quello di portarla presso i popoli "inferiori": solidali, in questo, con i cugini americani (la poesia di Kipling sul fardello del’uomo bianco è stata scritta in occasione della campagna statunitense nelle Filippine, contro gli "ingrati" indigeni di quell’arcipelago, che avevano già lottato duramente per emanciparsi dal dominio spagnolo e adesso pretendevano l’indipendenza immediata), ma con un forte senso di superiorità verso gli altri popoli europei, specialmente quelli meridionali. I ricchi turisti e le signore inglesi della buona società, reanndosi in viaggio in Europa, e specialmente verso i Paesi mediterranei, si sentivano un po’ come i rappresentanti d’una razza civile, costretti a mescolarsi con gente dalla dubbia pulizia e dall’ancor più dubbia moralità.

Ma poi, nel 1945, è accaduto l’impensabile: pur avendo vinto la guerra, essi non erano più in grado, come in precedenza, di goderne i frutti, di sfruttarne pienamente i vantaggi politici ed economici; peggio ancora, non erano più nemmeno in condizioni di conservare il loro impero, quell’impero per la cui difesa avevano combattuto strenuamente e che si erano illusi, Churchill in testa, di poter sfruttare indefinitamente, o, quanto meno, di poter continuare a sfruttare per un bel po’ di tempo, dal cotone indiano al petrolio iracheno, rifacendosi, così, dalle spese e dei sacrifici sopportati nella Seconda guerra mondiale. Erano stato costretti a vedere i Sovietici piantare le loro bandiere su metà del continente europeo, e a cedere, in pratica, l’egemonia politica e militare sull’altra metà, ai loro cugini americani, alleati decisivi, ma troppo più potenti di loro quanto a risorse, a popolazione, a possibilità industriali. Azincourt, Blenheim, Waterloo, El Alamein, non erano dunque servite a niente. E, come se tutto ciò non bastasse, essi avevano assistito alla nascita, fra i popoli europei, d’un sentimento nuovo, di una aspirazione completamente in contrasto con i nazionalismi esasperati che avevano provocato già due terribili guerre mondiali e una decennale, intermittente guerra civile, combattuta al loro interno dal 1917 al 1949 (anno in cui si concluse la guerra civile greca).

Da quando si resero conto che i popoli dell’Europa stavano progettando di stringere fra loro delle relazioni nuove, basate su forme di produzione e di economia integrate, e, in un secondo tempo, su cessioni parziali della sovranità di ciascuno a favore d’una Unione continentale, i governi britannici del secondo dopoguerra non ebbero che un solo pensiero, tutti, laburisti come conservatori, con sfumature appena un po’ diverse, ma perfettamente concordi negli obiettivi finali: o impedire la realizzazione d’un simile disegno, che appariva loro come un’autentica sciagura, oppure, se non vi fossero riusciti, entrare a far parte dio una tale Unione, per poterla sabotare dall’interno, a loro bell’agio, in tutte le maniere possibili, sempre giocando di sponda con i cugini americani, a loro volta tutt’altro che soddisfatti di vedere nascere una Europa unita, capace di far loro concorrenza in ogni senso, sia politico che economico.

Ci sembra opportuno riportare, dalle parole di un ex diplomatico, che è anche un noto studioso di storia e di politica, Sergio Romano, il nocciolo del pensiero politico che ha guidato le scelte dei vari governi britannici che, sostanzialmente concordi su questo punto, si sono poste il problema dell’unione europea, e della linea di condotta più vantaggiosa per la loro nazione (da: S. Romano, «Europa. Storia di un’idea», Milano, Longanesi & C., 2004, pp. 191-194):

«… Quando venne creato il Mercato comune, la Gran Bretagna non volle riconoscere il successo della politica francese e ritenne di poter lasciare sul tavolo,  come "invito al gioco"m, il progetto di una "Europa inglese". All’integrazione economica di Jean Monnet contrappose una specie di Commonwealth economico: una Associazione europea di libero scambio (EFTA in inglese), formata a Stoccolma nel novembre del 1959, in cui entrarono, sotto la guida di Londra, l’Austria, la Danimarca, la Norvegia, la Svezia e la Svizzera. Il trattato prevedeva la graduale abolizione delle tariffe doganali, ma gli scopi politici erano assenti. Se il Mercato comune avesse fallito, l’EFTA, secondo le intenzioni britanniche, sarebbe stata pronta a raccogliere i naufraghi in una specie di confederazione.  Per qualche anno confederazione e federazione divennero i due poli di un dibattito sul futuro dell’Europa.  Ma tutti conoscevano, più o meno, il significato della parola federazione e nessuno sapeva esattamente che cosa si nascondesse dietro il nebuloso concetto di confederazione.

Accadde esattamente il contrario di ciò che gli inglesi avevano atteso e sperato. Mentre il volume dei traffici fra i sei paesi dl Mercato comune aumentava considerevolmente e la Comunità diventava protagonista del commercio mondiale, EFTA, anche per colpa delle difficoltà della economia britannica, languiva. Non basta. Dopo il fallimento della spedizione anglo-francese a Suez nell’ottobre 1956,  la Gran Bretagna si accorse che la sua partnership con gli Stati Uniti sarebbe stata, col passare del tempo, sempre meno paritaria. La conferma venne agi inizi degli anni Sessanta quando il Primo ministro Harold Macmillan dovette negoziare con Kennedy la collaborazione americana alla costruzione del missile britannico Skybolt. Kennedy rifiutò di fornire la tecnologia necessaria e persuase Macmillan ad accettare in cambio i missili americani Polaris. La Gran Bretagna avrebbe avuto un arsenale nucleare, ma i suoi missili sarebbero stati legati con un lungo guinzaglio agli Stati Uniti e ogni suo piano strategico sarebbe stato soggetto al "placet" di Washington. Il governo di Londra non venne meno ai tre cerchi con cui Winston Churchill aveva rappresentato geograficamente la politica estera che la Gran Bretagna avrebbe dovuto fare dopo la seconda guerra mondiale (L’Atlantico, l’Europa, il mondo, e Londra alla confluenza fra i tre cerchi), ma dovette adattarsi alle circostanze e rinunciare, pur senza dirlo esplicitamente, all’EFTA.

Fu quello il momento in cui chiese di entrare nella Comunità. Non aveva alcuna intenzione di creare con i Sei un’Europa federale, ma voleva avere i diritto di controllare dall’interno l’evoluzione del progetto federalista per meglio impedirlo o rallentarlo. Il generale De Gaulle lo intuì e bloccò i negoziati il 29 gennaio 1963 con una clamorosa conferenza stampa in cui sostenne che la Gran Bretagna aveva ormai scelto l’America e sarebbe stata, in seno alla Comunità, il suo cavallo di Troia. Se il veto francese fosse stato deciso da un altro presidente, i paesi della  Comunità lo avrebbero probabilmente compreso e approvato. Ma gli scarsi entusiasmi di De Gaulle per l’idea europeista lasciavano intravedere nelle sue critiche alla Gran Bretagna un disegno francese che nessuno di essi era disposto ad accettare. Se la Francia voleva dominare il continente – così ragionarono allora molti leader europei – tanto valeva aprire la porte della Comunità a un paese che ne avrebbe riequilibrato l’influenza.

Così accadde infatti dopo le dimissioni e la morte di De Gaulle, quando il suo successore, Georges Pompidou, decise che la Francia, soprattutto dopo i moti studenteschi del ’68, non poteva più permettersi di essere così altezzosa. I negoziati iniziarono nel 1971 e si conclusero nel 1972, quando la Gran Bretagna, accompagnata da tre paesi dell’EFTA (Danimarca, Irlanda e Norvegia) poté finalmente entrare nella Comunità. Ma l’intuizione di De Gaulle si dimostrò giusta. La Gran Bretagna non voleva l’unità federale dell’Europa e avrebbe fatto, in quasi tutti i momento decisivi della Comunità, un’abile battaglia in due tempi. Nel primo tempo avrebbe cercato di evitare qualsiasi ulteriore cessione di sovranità nazionale. Nel secondo, se troppo isolata per opporsi, avrebbe accettato e continuato a frenare dall’interno il progresso dell’Europa federale. Ogni Primo ministro ha seguito questa linea con stile diverso: Margaret Thatcher con irruenza polemica, John Major con una rigidità ammantata di maggiore cortesia, Tony Blair con qualche interessante apertura all’Europa. Ma l’obiettivo della politica estera britannica, pur adattandosi alle circostanze, rimane lo stesso: restare fermamente al centro dei tre cerchi.»

Insomma: la Gran Bretagna ha perso l’impero, ma non ha affatto rinunciato alla sua mentalità imperiale. Altri popoli — l’austriaco, per esempio — dopo aver perduto il proprio ruolo imperiale, si sono adattati a entrare a far parte della famiglia delle nazioni europee su d’un piano di parità, forse con qualche rimpianto e qualche nostalgia, ma adeguandosi con lealtà e realismo alla mutata situazione; gli Inglesi, no. Loro continuano a sentirsi il centro del mondo: da loro le automobili tengono la sinistra, non la destra, come fanno i continentali; e mai rinunceranno alla loro moneta, alle loro abitudini, al loro senso di superiorità. Non hanno sviluppato nemmeno quel certo grado di auto-ironia, che è già l’anticamera d’un ridimensionamento del proprio orgoglio (e delle proprie pretese): nei film, nei romanzi, perfino nei fumetti e nei giocattoli che si ispirano alla Seconda guerra mondiale, per esempio, mai, o quasi mai, si coglie una qualche incrinatura nella rocciosa, incrollabile convinzione di avere incarnato, in tutto e per tutto, la crociata del Bene contro il Male, e di essersi sempre battuti — loro soli, al massimo come gli Americani — in maniera leale e cavalleresca, a differenza di tutti gli altri, che si batterono come altrettanti malviventi. Basti dire che soltanto nel 1963 il grande pubblico britannico è venuta a conoscenza, e proprio per opera di uno storico inglese, David Irving (ma poi, forse non del tutto a caso, trascinato nella rovente accusa di antisemitismo e totalmente scredito nei salotti buoni della cultura politicamente corretta), della completa e ingiustificabile distruzione di Dresda, operata nel febbraio del 1945 mediante spietati bombardamenti aerei, per espressa volontà di Churchill. E quanti Inglesi sanno, ancora oggi, che la distruzione dell’antichissima abbazia benedettina di Montecassino, voluta da un generale neozelandese — Bernard Freyberg -, fu del tutto inutile e ingiustificata, perché i Tedeschi, come del resto si erano premurati di far sapere, non avevano nascosto al suo interno alcun appostamento difensivo? E quanti Inglesi sono disposti ad ammettere, perfino oggi, a settant’anni di distanza dalla Seconda guerra mondiale, che il loro Paese non fece nulla per accogliere, prima della tragedia, le decine di migliaia di Ebrei minacciati dal nazismo e in fuga dalla Germania, salvo quei "cervelli" di cui abbisognavano le loro università, i loro apparati industriali e militari, il loro sistema propagandistico, precisamente per i fini, palesi e occulti, della loro politica imperiale?

Oppure, si prendano in esame i film della serie di James Bond: specialmente quelli usciti nel pieno della Guerra fredda, di cui rispecchiano il clima, le incognite, i timori. Mai, nel personaggio dell’Agente 007, per quanto sia stato descritto come assai dotato di senso dell’ironia, si coglie un minimo accenno che tale ironia sia diretta verso il proprio Paese, verso le sue velleità di conservare un ruolo mondiale, o verso il proprio stesso puntiglio di "gentleman" irriducibile, anche se coinvolto nelle situazioni più movimentate e pericolose. Se così fosse stato, sarebbe caduto il mito che gli Inglesi hanno di se stessi: quello di incarnare l’ideale del perfetto signore, dell’uomo più civile, più raffinato, più elegante, mai comparso sulla faccia della terra; quello di costituire il più completo e ammirevole esemplare della specie umana, sempre perfettamente padrone di sé, sempre lucido e intrepido, sempre vigile e pronto a battersi, a vincere, a far trionfare la causa di Sua Maestà britannica: «Right or wrong, it’s my country».

Come si potrebbe pretendere, da un popolo così incrollabilmente fiero di se stesso, così abituato ad aver sempre ragione (perché la storia dà ragione, sempre e comunque, ai vincitori e torto ai vinti), di entrare a far parte di quel dubbio, e così spesso deplorevole, groviglio di popoli e di stati, di egoismi e d’interessi, che costituisce il continente europeo? Cerchiamo di essere giusti: come si potrebbe pretendere così tanto? Sarebbe, più o meno, come domandare a un lord, in tutta serietà, di mescolarsi con gli scaricatori del porto o con le donne di malaffare dei quartieri popolari, e di sporcare i suoi bei vestiti e le sue mani ben curate, con la polvere dei comuni mortali. Diciamo la verità: quando è troppo, è troppo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Christian Lue su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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